Crisi bancarie: peccati e peccatori
Sembra passato un secolo da venerdì 27 ottobre, quando il Presidente Mattarella confermò Ignazio Visco alla guida della Banca d’Italia per altri sei anni. Tutto risolto? Per nulla. Appena cominciati i lavori della Commissione d’inchiesta parlamentare sul sistema bancario e finanziario, sono ripartiti gli attacchi contro via Nazionale. Sono culminati il 30 novembre, durante e dopo l’audizione di Roberto Rossi, Pm di Arezzo, su Banca Etruria. Scriveva il giorno dopo Massimo Giannini in prima pagina su Repubblica
È vero: c’è un’euforia compiaciuta e malsana, nel modo in cui i commissari della Santa Inquisizione Parlamentare speculano sui peccati commessi dalla Banca d’Italia. C’è una foga giustizialista e malriposta, nella fretta con la quale la politica si autoassolve dalle sue colpe, per scaricarle tutte su Ignazio Visco, il “governatore dimezzato”.
Come se le crisi bancarie di questi anni fossero un “beneficio” elettorale ad uso dei partiti, e non un “costo” sociale a carico dei cittadini.
E dopo il colpo al cerchio della gazzarra anti-autorità, Giannini assestava un colpo preciso anche alla botte della Vigilanza mal funzionante:
Ma stavolta c’è altro, al di là delle solite zuffe intorno al credito tra i capponi di Renzo (o di Renzi).
A dispetto delle peggiori intenzioni della vigilia, e depurato dai veleni che spurgano tra i tre poli, il lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta guidata da Casini si sta rivelando tutt’altro che inutile (come pure si poteva temere).
Qualche verità sta venendo a galla. Dalle audizioni a San Macuto emerge un quadro disarmante sul funzionamento della Vigilanza.
Ho affrontato più volte su pane-e-finanza la questione dei meriti e delle colpe della Banca d’Italia. Nei giorni della riconferma ho difeso con ingenua baldanza il Governatore. Da quando la Commissione banche si è insediata passo in media 15 ore la settimana a seguirne i lavori in diretta o in podcast. Ho annotato su twitter gli eccessi di alcuni commissari, ma più passano i giorni, più mi sento confuso nel giudizio. Sarà perché il dibattito dentro e fuori l’aula di Palazzo San Macuto è deviato da fini preelettorali con il contorno di molta retorica ed emotività. Che diventa, inevitabilmente, superficialità e, nei momenti più rissosi, "una pagliacciata" (parole dell’ex ministro Tremonti).
Siamo in una grande confusione. Sarebbe comodo risolverla con sentenze (la Vigilanza è colpevole) o profezie (il peggio deve ancora venire). Secondo lo scrittore Giuseppe Pontiggia, sono due forme di linguaggio autoritario (la terza è il comando): marcano una posizione netta sulla quale schierarsi, ma usano violenza alla realtà. E la realtà che abbiamo davanti, per quanto travagliata, conserva un senso che chiede di essere scoperto e salvato, per quanto sia forte la tentazione di rimestare nel torbido e sollevare grida di indignazione.
La confusione però resta grande. Su che cosa concorda la maggioranza dei membri della Commissione d’inchiesta? Sull’inefficacia della supervisione svolta dalla Banca d’Italia e dalla Consob. A loro volta i politici che se la sono presa con la Vigilanza sono stati messi alle strette da altri politici, dai giornali e dall’opinione pubblica. E la rabbia dell’opinione pubblica è alimentata da chi ha sofferto economicamente e moralmente i dissesti delle banche. Si svolge un ciclo di attacco e difesa, di imputazione e scarico di colpe tra vittime e presunti colpevoli.
Il 13 dicembre, giorno di Santa Lucia, la Commissione banche ha svolto una maratona di audizioni (qui il video). Una polifonia di voci, dai magistrati della Corte dei conti, al presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) Maccarone, passando per l’accademico prof. Tabellini, con l’incontro clou alle 18:00, ospite il patron della popolare di Vicenza Gianni Zonin. Oggi 14 dicembre, è stata la volta di Consob (vice DG D’Agostino e Presidente Vegas), seguiti da Maria Cannata, responsabile del Debito pubblico al Mef.
In questo post, voglio fare un passo indietro rispetto alla scena su cui si rappresenta il processo alle crisi bancarie. Ve lo anticipo: non voglio convincervi di una mia opinione, ma semplicemente proporre un percorso, un metodo col quale possiate verificare le opinioni degli altri, e anche le vostre. Sul tema specifico delle colpe accertate e censurate voglio tornare fra qualche giorno, con le riflessioni che sto laboriosamente accumulando da più di un mese.
Le colpe addossate ai supervisori
«Compagni, il problema è a monte, è politico!». Magari sospettate che voglia recitare la parte dell’attivista timido che interviene in assemblea con l’eskimo e gli occhialini tondi. No, non è mia intenzione. Andiamo subito al sodo: di che cosa sono accusate Banca d’Italia e Consob? Rapido riassunto, aggiornato all’audizione con Banca d’Italia del 12 dicembre (qui il video):
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sono andate in dissesto (o in carenza patrimoniale) sette banche, le quattro risolte nel novembre 2015, le due Venete e Mps;
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le crisi hanno avuto una lunga gestazione, seguita dalle Autorità (specialmente da Bankitalia) con numerose attività (ispezioni, vigilanza rafforzata, moral suasion, prescrizione di rimedi patrimoniali e cambiamenti organizzativi, amministrazione straordinaria);
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nonostante ciò, le crisi sono andate fuori controllo e hanno avuto esiti infausti per i clienti che hanno perso i loro risparmi investiti in titoli delle stesse banche;
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il principale misfatto è stato aver consentito alle banche già traballanti di collocare presso la loro clientela azioni e altri strumenti di capitale negli anni 2012-2014, titoli che avrebbero perso completamente o quasi il loro valore nella successiva fase di salvataggio con burden sharing; questo vale per le 4 banche e per le venete, sia pur con soluzioni giuridiche agli antipodi (risoluzione vs liquidazione coatta); il caso di Mps si differenzia doppiamente in quanto le prime emissioni incriminate datano al 2008 (acquisto di Antonveneta), e la chiusura è stata una ricapitalizzazione precauzionale;
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più genericamente si imputa (questa volta soltanto a Bankitalia) di non aver ideato e messo in atto soluzioni alternative che evitassero il burden sharing.
Cerchiamo di essere più specifici sui due capi di imputazione principali:
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le emissioni di titoli poi falcidiati si sarebbero autorizzate perché
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Banca d’Italia non avrebbe comunicato tempestivamente e integralmente alla Consob (e suo tramite al mercato) le informazioni sulla massa di crediti deteriorati (casi Etruria e Carife) e sulle scorrette pratiche di valutazione in esse seguite (come sarebbe emerso, ad esempio, in tema di fissazione del prezzo delle azioni proprie nelle popolari venete), o su altre operazioni di manipolazione dei dati di bilancio (come nella contabilizzazione dei derivati Alexandria e Santorini in Mps);
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la Consob non avrebbe approfondito i sintomi di criticità che comunque emergevano dalle informazioni in suo possesso;
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entrambe le Autorità non avrebbero vietato o impedito in altro modo (moral suasion, avvertimenti pubblici) l’effettuazione delle operazioni; qui avrebbero pesato anche l’insufficiente collaborazione e la divergenze tra gli obiettivi/funzioni (tutela della stabilità vs trasparenza);
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la soluzione finale con burden sharing non sarebbe stata scongiurata dalla Vigilanza bancaria perché
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ci si sarebbe lasciati imporre arrendevolmente in sede europea la tempistica di entrata in vigore del bail-in, senza deroghe o esenzioni per gli strumenti in mano ai privati; qui la responsabilità sarebbe condivisa con il Ministero dell’economia (anzi proprio al Mef in Commissione sono state mossi i rimproveri più aggressivi);
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non si sarebbe utilizzato il rimedio alternativo che si era immaginato (le ricapitalizzazioni a carico del Fitd) perché il Governo avrebbe negoziato in maniera intempestiva e maldestra il via libera al suo impiego (anche qui la colpa è condivisa col Mef);
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le svalutazioni dei crediti deteriorati sarebbero emerse in tempi e modi arbitrari, e avrebbero subito un’accelerazione inattesa con l’avvio della Vigilanza Unica in capo alla Bce nel 2014, in discontinuità con la "tolleranza" della Banca d’Italia negli anni precedenti;
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i singoli dossier si sarebbero gestiti con pesi e misure difformi, perdendo tempo nella messa a punto di soluzioni inefficaci quando non stravaganti; per fare qualche esempio
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si sarebbero lasciati in carica vertici aziendali inaffidabili meritevoli di essere rimossi, indugiando più a lungo nelle situazioni che dopo si sarebbero rivelate più critiche (Popolare di Vicenza); in altri casi (in realtà nel caso unico della Bcc di Bene Vagienna) si sarebbero attuati commissariamenti prematuri imposti come "prognostici";
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si sarebbero proposte aggregazioni tra banche in difficoltà (esempi abusat quelli delle "nozze" tra Banca Etruria e Popolare di Vicenza e tra la stessa BPVi e Veneto Banca, sui quali gli animi si sono ancora una volta scaldati nell’audizione di Barbagallo del 12 dicembre).
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Le Autorità hanno replicato a tutte le contestazioni. Non c’è bisogno che mi ci soffermi, anche perché sono cose note, e ripeterei ciò che ho già scritto sulle seconde audizioni di Bankitalia e Consob. La verità processuale (basata sui fatti accertati e sulle carte) svuota o depotenzia le accuse di aver male operato. Dalle accuse di aver omesso, le Autorità si difendono invocando il segreto d’ufficio al quale sono tenute (specie la Vigilanza bancaria) e la limitatezza dei poteri concessi al tempo dei fatti, e specificamente:
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Bankitalia non poteva attuare azioni di rigore (amministrazione straordinaria) se non al ricorrere di una situazione di carenza patrimoniale o di irregolarità gravi e accertate della gestione; prima del recepimento della Brrd (novembre 2015) non erano attivabili altre misure di intervento precoce (removal dei vertici o commissari in affiancamento) di cui si sarebbe potuto fare buon uso;
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Consob aveva poteri limitati nei confronti delle banche non quotate, e non poteva vietare il collocamento dei titoli non disponendo ancora della product intervention introdotta con la MIFiD II.
A queste controdeduzioni ne aggiungo una mia: perché le Autorità si sarebbero macchiate di negligenza, scarsa collaborazione istituzionale, comportamenti discriminatori con l’effetto di far fallire tutti i piani che avrebbero potuto evitare le risoluzioni con le relative conseguenze nefaste? Hanno forse subito interferenze estranee di "poteri forti"? Hanno prevalso simpatie o antipatie personali? Sono state influenzate dagli ex colleghi passati alle dipendenze delle banche attraverso le "porte girevoli"? Oppure sono state trattenute dalla paura di sbagliare, o dalla tardiva comprensione dei problemi in campo?
Sarò limitato io, ma non trovo nei fatti degli indizi materiali di mancanze del genere. Nessuno è perfetto, e neanche il personale della Vigilanza lo è, ma eventuali esitazioni o schematismi possono aver avuto un peso minimo nel complesso di cause che hanno ritardato gli interventi risanatori. Qui di seguito intendo appunto tratteggiare questo complesso di cause.
Non la pensano come me gli esponenti del Movimento Cinque Stelle che sostengono un ricorso contro la Banca d’Italia alla Corte europea dei diritti dell’uomo:
strategia:
— Luca Erzegovesi (@lerzegov) 10 dicembre 2017
- ricorso per violazione diritto di proprietà contro Bankitalia che non ha tutelato stabilità del sistema, motivato da assenza norma nazionale;
- se Corte Ue respinge, riconosce che esiste tutela giuridica nazionale, quindi ok, si agisce contro Bankitalia in Italia https://t.co/irVFV4jJCp
Gli stessi esponenti M5S, insieme con alcuni colleghi del Pd, sperano nella chiamata in giudizio penale dei Supervisori ad opera di qualche procura, a cominciare da quella di Arezzo.
Ma è arrivato il momento di sfilare le lenti giuridico-processuali per fare un passo indietro, come promesso.
I moventi delle malefatte in banca: le due facce del misconduct risk
Cerchiamo di fare un po' di ordine nelle colpe attribuite ai Supervisori e vediamo se interessano anche altri soggetti che hanno avuto a che fare con le banche problematiche. E se parliamo di comportamenti impropri, come in un gioco di guardie e ladri non possiamo fermarci alle eventuali responsabilità delle guardie. Le malefatte vanno ricondotte ai malfattori. Come ha affermato il presidente Casini sul caso Etruria «siamo tutti sufficientemente intelligenti per non confondere i ladri con le guardie».
La crisi finanziaria globale ha prodotto una proliferazione di condotte scorrette e rischiose tra gli intermediari finanziari di molti paesi. L’attenzione per il rischio di cattivi comportamenti è perciò molto cresciuta. L'European Systemic Risk Board (ESRB) ha pubblicato un rapporto sul misconduct risk nel giugno 2015, nel quale si stima in 200 miliardi di euro il cumulo delle sanzioni pagate dalle banche a livello globale tra il 2009 e il 2014 (di cui 50 miliardi di euro dalle banche Ue). Nello stesso anno il tema è entrato nel radar del Financial Stability Board (FSB) che ha pubblicato un ultimo progress report nel giugno 2017. Anche il Parlamento europeo nel marzo 2017 ha chiesto approfondimenti sul tema specifico delle sanzioni di Vigilanza.
Gli organismi finanziari internazionali intendono rispondere a queste minacce alla fiducia del pubblico con due armi principali:
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la vigilanza e i controlli sui processi di governance delle banche;
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i sistemi di punizione dei comportamenti cattivi in capo agli intermediari e alle persone che ne sono responsabili.
Sono messi sotto stretta osservazione per entrambi gli aspetti i sistemi di remunerazione e di incentivo dei manager e le politiche di dividendo.
Le birbonate dei ricchi
Il segmento dei mutui subprime in cui la crisi è scoppiata fornisce una casistica copiosa di cattive condotte tenute su vasta scala: dalle pratiche dissennate e predatorie di erogazione del credito, alle carenze della documentazione legale nell’originazione e nella cessione dei prestiti, alla strutturazione di securitization complesse (CDO) per scaricare rischi nascosti agli investitori (con la complicità delle agenzie di rating), alla manipolazione dei prezzi di mercato secondario. Tutti fenomeni resi in maniera spettacolare dal film The big short. Per non parlare dell’occultamento delle esposizioni invendute su veicoli fuori bilancio (SIV) operanti con alta leva e trasformazione delle scadenze. Ma non era finita lì. Gli anni successivi sono stati segnati dagli scandali clamorosi della manipolazione del Libor e delle quotazioni dei cambi, a beneficio di cordate collusive fra i trader dei gruppi maggiori che ritoccavano di qualche punto base il fixing per chiudere con maggiori profitti le rispettive posizioni miliardarie in derivati su tassi. Fino ad arrivare alle pratiche fraudolente di overselling di servizi legati ai conti correnti emerso alla Wells Fargo.
Qual è il fondamento di questo imponente ciclo di genesi, diffusione e repressione delle pratiche scorrette? È l’assunto «il crimine paga», la montagna di profitti che quelle pratiche consentono di ottenere a scapito dei clienti e della collettività, che paga il conto delle scommesse andate male. Uno sport per ricchi, nel quale alcuni soccombono (i più avventati, i meno scaltri o quelli politicamente sacrificabili, come Lehman). Mentre pochi infelici soccombono, i più prosperano per anni, e fanno a tempo a mettere al sicuro il malloppo. Se questa è la minaccia, si capisce la ratio delle contromisure proposte da ESRB e FSB: quello che va contrastato sono i modelli di business pervertiti verso la ricerca di profitti illeciti. Pertanto si devono colpire prima di tutto i redditi mal guadgnati col cattivo business, e tramite quelli gli azionisti. Il rimedio consiste nell’imporre una rule of law unita a una market discipline ispirate al principio «il crimine non paga».
Note
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Questa forma di azzardo morale produce anche enormi rischi sistemici, in concreto porta al dissesto una parte degli intermediari e alla paralisi interi segmenti del mercato monetario e finanziario, al che gli Stati sono costretti a rispondere con salvataggi pubblici. Tutti i gruppi bancari che sono stati colpiti dalle multe plurimiliardarie del Dipartimento della giustizia USA non sarebbero arrivati a subirle se non fossero stati salvati dai piani di intervento pubblico attuati tra il settembre 2008 e la prima metà del 2009. Per molti aspetti, quelle gigantesche oblazioni sono una parziale restituzione del grosso trasferimento di valore fatto coi bail-out, necessaria per placare un’opinione pubblica infuriata verso le banche rimaste impunite per le malefatte compiute fino al 2008 (e in seguito reiterate). Ah, la parte caricata su gruppi bancari extra-USA (Deutsche Bank, Barclays, ecc) può essere maliziosamente classificata alla voce dazi straordinari, come le multe per il software anti-emissioni truccato da Volkswagen. |
Le birbonate dei poveri
Tra le megabanche sottoposte alle megamulte non troviamo i nomi di istituti spagnoli, portoghesi, italiani o greci. I paesi del Sud Europa non sono però immuni dalla mala gestio bancaria. Le cattive condotte che allignano da noi sono però diverse da quelle dei paesi ricchi, e sono principalmente di tre tipi:
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cattiva gestione del processo del credito (approvazione di operazioni ad alto rischio con garanzie inefficaci, monitoraggio carente, ritardata attivazione delle azioni di tutela e di recupero);
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falsa o fuorviante rappresentazione della situazione economico patrimoniale e dei rischi nell’informativa esterna per il mercato e per gli organi di vigilanza (bilanci, prospetti informativi per aumenti di capitale e o emissioni di titoli, rapporti periodici e informativa price sensitive);
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collocamento irregolare di azioni e di altri strumenti di capitale viziato da tre ordini di mancanze
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fornitura di informazioni distorte o fuorvianti su redditività, liquidità, adeguatezza del patrimonio, valore di mercato delle azioni che celano gravi squilibri economico-patrimoniali (vedi punto precedente) anche con operazioni volte a celare perdite e a riportarle nel tempo (derivati Alexandria e Santorini);
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mis-selling e altre pratiche commerciali scorrette e/o in violazione delle regole di protezione degli investitori (forzatura dei profili MIFiD);
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aumenti fittizi di capitale mediante strumenti innovativi (es. Fresh Mps), finanziamenti "baciati" e assunzione di impegni di riacquisto di propri titoli in violazione dei requisiti di Vigilanza e produttivi di effetti discriminatori tra azionisti;
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responsabilità del dissesto della banca per scelte di gestione dissennate e azzardate, peggio se con dolo e vantaggi per soggetti particolari, ad esempio
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erogazione di credito ad alto rischio (v. 1);
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dissipazione di risorse con spese di consulenza per operazioni di fusione e acquisizione, aumenti di capitale, piani strategici e industriali o di altro tipo.
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Mappatura tra violazioni e sanzioni giuridiche
Tutti i casi di dissesto che si sono verificati in Italia contemplano un sottoinsieme più o meno completo delle mancanze sopraelencate, che investono uno o più livelli della piramide sanzionatoria definita dall’ordinamento giuridico, e specificamente:
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sono in tutti i casi violazioni delle regole di sana e prudente gestione, trasparenza e correttezza esplicitamente censite e punite dalle regole di vigilanza (Banca d’Italia o Consob);
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costituiscono quasi sempre violazioni degli impegni contrattuali degli esponenti aziendali che danno titolo per azioni civili risarcitorie;
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possono essere associate in presenza di altri presupposti (in primis l’intento doloso) alle fattispecie di reato perseguite nelle azioni penali.
Con riferimento agli impatti penali, possiamo facilmente mappare la lista di violazioni sulle principali fattispecie di reato che sono emerse nei dissesti delle quattro banche, delle banche venete e del Monte dei Paschi di Siena:
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bancarotta dissipativa, fraudolenta o preferenziale (1, 4);
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truffa (3.b);
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ricorso abusivo al credito (2, 3.a);
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false comunicazioni sociali, comprensive del falso in bilancio (2, 3.a);
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falso in prospetto (2, 3.a);
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ostacolo alla vigilanza (2, 3.c).
Nell’elenco spicca la distinzione tra:
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reati associati a crisi aziendali provocate dolosamente o con colpa grave (a), che producono diffusi e iniqui danni patrimoniali oltre a ingiusti arricchimenti;
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reati patrimoniali generici (b,c) che offendono direttamente diritti di persone fisiche (dignità, libertà e sicurezza economica, equo trattamento) e giuridiche (integrità patrimoniale);
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altri reati societari e finanziari (d,e,f) dove il bene giuridicamente tutelato in prima istanza ha natura generale e sistemica (buon funzionamento del mercato, efficace esercizio dei poteri di vigilanza); in seconda istanza, si tutelano i diritti dei clienti e delle controparti danneggiati dall’instabilità e dai comportamenti scorretti dell’intermediario.
C’è un’evidente sovrapposizione tra i reati del terzo tipo e le condotte già colpite dalle sanzioni di Vigilanza: l’imputabilità in sede penale amplifica e rafforza i dispositivi posti nelle mani dei supervisori.
Tanti peccatori, un peccato non molto originale
Rispetto ai peccati dei ricchi, quelli dei poveri si distinguono per la scarsa originalità. Di solito quello che va in crisi e produce danni è un modello di banca tradizionale che sviluppa aggressivamente gli impieghi in settori ciclici (immobiliare) e al di fuori del suo bacino territoriale storico, non corregge la sovraesposizione nella fase di inversione del ciclo (anzi, la espande), gonfia i redditi riportati con la tardiva e parziale rilevazione delle rettifiche su crediti, gonfia anche la dotazione di capitale con operazioni elusive e forzate, se non con la mera falsificazione dei bilanci.
C’è una precisa catena causale che dalle scelte strategiche azzardate e intempestive fa discendere perdite e scoperture patrimoniali, e da queste i tentativi di tamponare le falle per tirare avanti con un modello strategico e assetti di governance non più sostenibili. Le devianze e le forzature si aggravano per effetto dei vincoli che gli stessi stakeholder impongono alla banca: principalmente il mantenimento del controllo societario senza capitali freschi da immettere, unito alle pretese di ricevere un flusso di dividendi minimo (finché si riesce a esporre un reddito positivo) e di continuare a spingere il credito alla clientela di riferimento, quest’ultima allargata negli anni di crescita a go-go.
Note
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È il caso da manuale delle banche dissestate sottoposte al controllo di una o più Fondazioni, come Mps, Carife, Banca Marche, Carichieti (ma ce ne sono altre). Il caso delle popolari (come Etruria e le Venete) è simile, con enfasi minore sulla pretesa di alti dividendi e maggiore sulla generosa concessione del credito ai soggetti vicini agli stakeholder locali. |
La colpa originaria è quindi quella di non cogliere il punto di svolta del ciclo e di ritardare e limitare le soluzioni esperite, cosicché gli squilibri si aggravano fino a diventare sovrastanti. Tuttavia, nel momento in cui commettono questo peccato, i vertici delle banche locali lo sbandierano come un comportamento altruista ed eroico: «Si vince o si muore» come i garibaldini a Calatafimi o i signorotti di Game of thrones.
Quelli che scappano con la cassa
In questa reazione a catena che distrugge le banche ci possono essere specifiche condotte particolarmente avventate o dolose, che producono danni ancora più pesanti e altrimenti evitabili: pensiamo alla concessione di credito a soggetti palesemente in dissesto per pressioni politiche o benefici personali carpiti da dirigenti o amministratori collusi, o anche ai riacquisti discriminatori di azioni proprie dai clienti-investitori. Sono banali tentativi di aiutare sé o altri a "scappare con la cassa" prima del crac, tutti puntualmente puniti dal diritto penale fallimentare se e quando la banca poi cade in stato di insolvenza.
Ma i gesti compiuti con dolo mentre la nave affonda hanno una carattere che li distingue da una truffa perpetrata ai danni di un’azienda sana: sono parte della messinscena che nasconde la patologia incipiente o galoppante. Servono a tirare avanti. Chi ne trae ingiusto profitto esercita un potere di ricatto sui vertici dell’azienda: «Voi sapete che io so, datemi soddisfazione altrimenti vado a dirlo in giro». E se lo dice in giro, casca il palco. Ci può essere chi in parziale buona fede tollera o asseconda queste condotte riprovevoli quasi fossero un male necessario. «Si vince o si muore». Se arrivano i nostri, si vince. E i "nostri" (la politica e il governo, la Vigilanza) sono loro malgrado catturati in questa strategia semidisperata. Anche su di loro pesa il ricatto del "prendere tempo". Vedremo dopo quello che "i nostri" possono fare, e se è giusto che lo facciano.
Note
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La banca in pre crisi vive una calma surreale, come l’aviatore nell’occhio del ciclone di "Volo di notte". In simili frangenti, un’azione palesemente sconsiderata o dolosa non ha sempre un nesso causale univoco col dissesto della banca. Il pilota della banca (che a differenza di quello di Saint-Exupery tiene a bordo numerosi passeggeri) dirà che tutto procede in sicurezza, mentre a poche centinaia di metri infuria l’uragano. Non è scontato che ci sia una chiara alternativa più virtuosa al girare intorno per evitare di attraversarlo. In un mondo ideale si dovrebbe ammettere onestamente la criticità della situazione per poi formulare il miglior piano di risanamento possibile; nella realtà, smettendo di dissimulare emergerebbe la situazione di crisi irreversibile fino a quel momento celata, con il conseguente panico della clientela (con le vie di fuga già chiuse). Quando si calcia avanti la lattina per la prima volta, ci si condanna a ripeterlo finché si può, e man mano si allentano i freni etici a compiere azioni sconsiderate (spesso deprecabili) approfittando della fiducia altrui. |
La vertigine sull’orlo del precipizio stempera il senso di colpa del banchiere, che arriva ad autogiustificare il gioco scorretto. Lui sa bene che gettando la spugna, insieme con la maschera, farebbe precipitare la situazione, e i clienti perderebbero comunque. Queste autogiustificazioni trovano nuovi pretesti nel mondo nuovo post Brrd, che ha esposto gli investitori e i grossi depositanti alla mannaia del burden sharing, mentre si riducevano (o più correttamente, si complicavano) le possibilità di risanamento preventivo mediante risorse pubbliche o di sistema.
La gerarchia degli errori e delle colpe
Se dovessimo scrivere una Divina commedia delle crisi bancarie, come disporremmo i peccati commessi tra i vari mondi dell’aldilà? Quali peccati imperdonabili sarebbero puniti nei gironi infernali? Quali sarebbero invece espiabili sulle balze della montagna del purgatorio? Non è facile costruire un sistema morale delle crisi bancarie.
La gravità del peccato dipende dall’intenzionalità, dalla reiterazione, dalla gravità delle conseguenze. Per la teologia morale tomista in fondo all’inferno stanno i fraudolenti (coloro i quali hanno tradito la fiducia altrui). Per il diritto bancario devono essere puniti con particolare severità i "traditori della patria", quelli che hanno attentato alla stabilità del sistema, specialmente se l’hanno fatto per arricchirsi, e sono riusciti in entrambe le imprese criminali (fare i soldi e far saltare una banca o un intero mercato). Di gravità intermedia sono le colpe di coloro che hanno combinato disastri agendo con impeto distruttivo per la propria tendenza a prevaricare gli altri anche con la violenza (l’equivalente della "matta bestialitade" di Dante). Si può essere più indulgenti verso chi ha dato sfogo alla propria istintività per fini mal giudicati dalla ragione e dalla coscienza. A parte i lussuriosi, che giocano un ruolo di contorno, troviamo sulla scena bancaria gli avari e i prodighi (più i secondi dei primi, che di solito tendono a essere anche imbroglioni, e come tali puniti più severamente).
Non essendo un Dante Alighieri, mi limito a giudicare i peccati, e non i peccatori. Arrivo così a distinguere i seguenti livelli, in ordine di gravità decrescente:
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scelte strategiche originarie prese nella fase del ciclo ascendente (o presunta tale); si tratta di scelte tipicamente caratterizzate da rischio imprenditoriale; la gravità massima si associa alla scelta di modelli di business smaccatamente predatori o insostenibili; può essere la colpa di un singolo, di un gruppo di intermediari devianti, fino a contagiare un’ampia parte del sistema;
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frodi e abusi commessi nella fase ascendente del ciclo;
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mancata revisione o (peggio) rafforzamento di precedenti scelte strategiche non più sostenibili dopo l’inversione del ciclo; può essere considerato un errore di timing che produce scostamenti negativi dei risultati dalla media di sistema; questa scelta è ancora interessata da un’alea imprenditoriale che non configura necessariamente un errore se presa in buona fede, con una trasparente rilevazione dei rischi assunti e con adeguato supporto patrimoniale;
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frodi e abusi commessi nella fase discendente del ciclo o in situazione di emergenza conclamata;
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falsificazioni di dati e comunicazioni aziendali per tamponare e prendere tempo;
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difetti dei processi decisionali e di controllo: si tratta di irregolarità o mancanze che possono essere commesse frequentemente e in sé non producono effetti gravi né fatali se a monte si sono prese scelte strategiche corrette; cito ad esempio la mancata raccolta di informazioni in un’istruttoria di fido, una delibera di CdA senza contraddittorio, l’acquisizione di una garanzia senza una perizia indipendente del suo valore; sono il pane che nutre le sanzioni di vigilanza; sono colpiti più severamente quando si associano al dissesto (questione di fatalità, come un eccesso di velocità unito a un incidente mortale).
Come si vede, al vertice della piramide delle responsabilità metto le scelte prese al vertice della piramide organizzativa della banca, che sono ancora più dannose quando si diffondono con dinamiche collusive all’intero sistema. Ritengo più censurabili le azioni con cui la banca prende un azzardo liberamente rispetto a quelle con cui cerca di tamponare le conseguenze di una scelta azzardata precedente, e ciò a maggior ragione se tra i due momenti si è avuto un ricambio degli amministratori e del top management.
Se parliamo di frodi e abusi, il giudizio cambia a seconda di chi prende l’iniziativa. Può trattarsi della scelleratezza di un singolo o di un piccolo gruppo di complici, e qui la colpa è chiaramente attribuita. Può essere invece l’esecuzione di un ordine dall’alto, che a sua volta discende da una strategia malsana, e qui la colpa si ribalta in larga parte (non completamente) sui livelli gerarchici superiori. Il caso archetipico di specie è dato dalle molte pratiche commerciali scorrette messe in atto per ricapitalizzare le banche già a grave rischio di dissesto. Chi e in quale misura ne deve rispondere? I CdA che hanno deliberato gli aumenti di capitale, o i direttori finanziari che li hanno progettati, o anche i responsabili commerciali che hanno assegnato alla rete un budget di collocamento? Sono perseguibili i direttori di filiale che hanno alzato il telefono per sollecitare i clienti, insieme con lo sportello di consulenza della filiale che ha falsificato o forzato i profili MIFiD? Le sanzioni giuridiche possono colpire tutti. Gli alti livelli sono esposti all’imputazione per falso in prospetto e aggiotaggio (o manipolazione del mercato); la banca e i suoi amministratori e dirigenti sono esposti alle azioni di responsabilità per danni; ma anche i livelli esecutivi possono essere querelati per truffa come è avvenuto per i dirigenti, direttori e addetti alla vendita di Banca Etruria rinviati a giudizio a Firenze e nelle Marche.
Note
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Chiaramente i sindacati si oppongono strenuamente all’imputabilità di reati al personale bancario e anche al suo coinvolgimento in procedimenti risarcitori civili. Abi e sindacati hanno sottoscritto un accordo sulle pratiche commerciali che impegna a tutele contro direttive contrarie alla normativa sulla protezione degli investitori. |
It’s the economy, stupid. Quanto pesa la ruota della fortuna
Avrete notato quanto pesa nella mia gerarchia delle colpe il ciclo economico e creditizio e la sua interazione con i modelli di business. Si sente spesso nel dibattito sulle crisi bancarie: non dimentichiamo il quadro macroeconomico, la doppia recessione, la più grave dal dopoguerra, etc. etc. Sì, è il fattore senza dubbio dominante. Parliamo di un rischio sistematico (nel senso del CAPM, ovvero impattante sull’intero mercato e non diversificabile). Chiaramente non può essere eliminato nemmeno dal capoazienda più onesto e capace. L’unica difesa è scansarlo per quanto si può col market timing. Quanto è colpevole chi non lo scansa e rimane col cerino acceso? È una questione fondamentale dei modelli di gestione delle banche e della teoria delle crisi finanziarie di Minsky e Kindleberger. Non la approfondisco in questa sede, ma non dimentichiamo la sua presenza, ingombrante e minacciosa come il convitato di pietra del Don Giovanni.
Le colpe di chi doveva vigilare o intervenire
Un altro tema spinosissimo è la condivisione della colpa tra chi commette una mancanza e chi gliela lascia commettere. Chi sono i potenziali corresponsabili e correi? Nel dibattito in Commissione banche sono state chiamate in causa, in primo luogo, le Autorità di supervisione le quali sono accusate di non aver intercettato le cattive condotte, o di averle tollerate in mancanza di soluzioni alternative. Abbiamo riepilogato sopra gli addebiti mossi in Commissione banche.
Chiariamo una premessa decisiva: se di peccato si tratta, appartiene ai peccati di omissione. Va quindi giudicato rispetto all’azione virtuosa che si sarebbe dovuto compiere, e che è stata omessa. Tutti preferiremmo che i difensori della sicurezza e del bene collettivo dispiegassero subito un esercito imponente che consegue in pochi giorni la vittoria finale. Non è così semplice. Spesso l’unica risposta tattica è quella di temporeggiare.
Non c’è stata nessuna guerra lampo vittoriosa dei governanti e dei controllori, purtroppo, negli anni in cui si sono colti i sintomi di dissesto probabile nelle sette banche poi "salvate". Quei sintomi erano evidenti alle autorità di Vigilanza ma anche ai clienti più avveduti, agli amministratori e al resto del sistema bancario. Ma allora perché non si è organizzata subito la spedizione di soccorso? Prima di puntare il dito, si deve dare risposta a una fila di domande:
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quando si è capito di aver raggiunto il punto di non ritorno delle crisi?
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Quanti miliardi di capitale dovevano essere messi in campo?
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Chi doveva stanziarli? Il Governo? Il sistema bancario?
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Come si doveva procedere, nel rispetto dei noti vincoli agli aiuti di Stato e alle procedure di crisi?
La prima domanda ha una risposta ovvia, ribadita dalle evidenze emerse in Commissione banche su tutti i dossier messi sotto inchiesta. I guai sono diventati grossi tra la fine del 2011 e il 2013, per effetto della micidiale sequenza: crisi del debito sovrano, politiche di austerità, nuova recessione, whatever it takes di Draghi, stretta su vigilanza e aiuti alle banche a livello europeo, emersione più rapida delle perdite su Npl rialimentati dalla nuova recessione, margini bancari compressi, sforbiciate al capitale. Si è arrivati a metà 2011 con una certa situazione del sistema bancario e con un certo piano di rientro dagli squilibri accumulati fino al quel punto. La raffica di shock successivi, per lo più avversi, ha prodotto un’altra situazione del sistema bancario e ha stravolto i piani di rientro precedenti.
Rispondere alle successive tre domande oggi, cinque anni dopo i fatti, è un esercizio tardivo. Ci è utile, tuttavia, per capire una cosa importante: il soggetto colpevole di omissione di soccorso non è la sola Banca d’Italia (con la Consob), ma un soggetto collettivo. È mancata un’unità di crisi che scendesse subito in campo. Chi avrebbe dovuto farne parte?
Fraternità interbancaria
Non si parla spesso della parte sana del sistema bancario. Chi doveva sopportare il grosso dell’impegno di capitale per soccorrere le malate? Stando alle prassi di salvataggio vecchie (Fitd) e nuove (fondo di risoluzione), le banche più solide. Chiaro che non avrebbero fatto salti di gioia all’idea di anticipare al 2013 i conferimenti miliardari che sono poi serviti. Ma non era soltanto questa la remora. Tutte le banche paventavano di essere tassate per la causa dei salvataggi, ma ancora di più i potenziali cavalieri bianchi erano terrorizzati all’idea di portarsi in casa carenze di capitale, oneri di ristrutturazione, rischi legali. Nell’ottica dei loro azionisti, è stato meglio aspettare che la crisi diventasse conclamata, e che lo Stato o il Fitd andassero avanti a coprire le spese di pulizia degli Npl e la maggior parte del gap di capitale, come è avvenuto per Ubi con Banca Marche, Carichieti ed Etruria, per Bper con Carife, per il gruppo Intesa con le due venete (accreditiamogli però il sacrificio sofferto con le fondazioni socie e altri cirenei su Atlante 1). Fuori dai riflettori, si è coinvolto allo stesso modo Crédit Agricole nelle Casse di risparmio di Cesena, Rimini e San Miniato.
Note
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La precedente e travagliata iniezione di capitale del Fitd in Banca Tercas non era stata altrettanto generosa e risolutiva, tant’è che l’acquirente Popolare di Bari ha dovuto successivamente raccogliere capitale e fare importanti operazioni di derisking sui crediti deteriorati, che invece facevano parte del pacchetto-pulizia negli altri casi citati. |
Negli anni di incubazione della crisi il resto del sistema ha preferito sfruttare l’errore di timing del ciclo commesso dalle banche moriture per riposizionarsi riducendo l’esposizione a rischio. Questo è avvenuto in maniera passiva (semplicemente ritirandosi dal mercato), ma anche proattiva, andando a proporre alle banche minori quote in prestiti ristrutturati rivolti a clienti fino a quel momento appannaggio della direzione corporate delle grandi banche.
Note
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Non voglio così giustificare le banche minori, quasi fossero soggetti incapaci: vale il principio caveat emptor. Le banche di territorio hanno scelto deliberatamente di forzare la loro crescita in regioni e fasce di clientela non conosciute e quindi pericolose, anche facendo gioco di squadra tra loro stesse con operazioni in pool, fondi esteri, Sgr immobiliari, e altri veicoli. Sarebbe però comunque interessante ricostruire l’interazione tra le strategie delle banche maggiori o più accorte e quelle delle banche minori o meno avvedute. |
La politica e i cordoni della borsa
I fondi di origine interbancaria, utilizzati nei casi appena evocati, non sarebbero comunque bastati. E allora entra in scena la politica, che avrebbe dovuto approvare un piano di intervento massiccio e complesso, e soprattutto destinare una fetta consistente della spesa pubblica discrezionale per finanziare una bad bank di sistema (per parcheggiare gli Npl delle banche in crisi assorbendo o rinviando una parte delle rettifiche di valore) o un piano di ricapitalizzazione su vasta scala. C’era spazio nel bilancio dello Stato? Eravamo disposti a tagliare o a spendere la flessibilità contrattata con Bruxelles per aiuti alle banche invisi agli elettori? Sì, qualche miliardo si è speso con i Tremonti e i Monti bond, che sono però rientrati dopo pochi anni (anche per il deterrente rappresentato dal loro costo). Nel caso di Mps quegli strumenti di capitale stati il ballon d’essai di un aiuto più cospicuo rinviato al 2017.
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Dovevamo fare come la Spagna nel 2012, bussare alla porta dell’ESM? Ci andava bene accettare tutte le condizionalità che ciò avrebbe implicato? Attenzione anche qui ai tempi: la Spagna nel 2012 ha tamponato i buchi di una bolla immobiliare scoppiata quattro anni prima, l’Italia nel 2012 stava prendendo le misure di un nuovo e inatteso shock recessivo; se si fosse deciso di fare qualcosa non sarebbe partito nulla prima del 2013-2014. E, giusto per la cronaca, non mi stanco di ripetere che in Spagna nonostante il mega piano risanatore si sono avuti (prima e dopo lo stesso) casi di mis-selling, falsi in prospetto, sopravvalutazione di asset deteriorati non meno gravi di quelli accaduti in Italia. |
Ma non era soltanto un problema di soldi e di volontà di spenderli per le banche. I Governi e il Parlamento si sono trovati a gestire una rivoluzione normativa nel mutato quadro della regolamentazione europea, tradotta nella stretta sugli aiuti di Stato e nelle regole della Brrd. Era chiaro che ci stavano legando le mani rispetto alle crisi bancarie che si stavano aggravando, ma non si è potuto dire di no a Francoforte e a Bruxelles. Volete gli acquisti Bce di BTp? Bene, vi prendete anche il burden sharing e il bail-in e dovete far timbrare da noi i piani di messa in sicurezza delle banche. Sicuramente l’intero processo è stato gestito in maniera complicata e tardiva: si accettava la prescrizione delle pillole amare sperando di non doverle assumere in caso di malattia, ricorrendo piuttosto ai rimedi della nonna (come poi in parte è avvenuto). Se la Brrd fosse stata recepita a fine 2014 (anziché a novembre 2015) avremmo potuto attuare interventi precoci sulla governance, come ricordava Barbagallo nell’audizione del 12 dicembre. Tuttavia, non è un caso che si sia aspettato l’ultimo momento, per allontanare il più possibile lo spettro del bail-in. Tra tentativi di elusione o di rinvio, si è finito per sottovalutare sia la minaccia incombente, sia lo sforzo (finanziario e non) richiesto per scongiurarla.
Pertanto, il processo legislativo è stato lento e distratto su molti aspetti cruciali. Sul piano operativo, che aiuto ha dato la politica a mettere in campo un’unità di crisi con un disegno di ampio respiro e di pronta esecuzione? Anche qui, non ha certo premuto per fare presto. Il caso più lampante è quello di Mps, che ha atteso il dicembre 2016 per lanciare un aumento di capitale sul mercato dalle scarse possibilità di successo. Che poi il ritardo sia dovuto al referendum costituzionale di novembre è un dettaglio di cronaca. A discolpa dell’esecutivo allora in carica, citerei piuttosto le regole europee che hanno imposto di tentare e vedere fallire l’aumento di capitale sul mercato prima del disco verde alla ricapitalizzazione precauzionale
Note
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Matteo Renzi si è ascritto il merito della riforma delle banche popolari varata in urgenza nel gennaio 2015. In effetti quel provvedimento ha accelerato la riorganizzazione delle maggiori banche popolari quotate (fusione tra Banco popolare e Bpl, razionalizzazione dell’assetto societario di Ubi, ecc.) e l’allargamento del loro azionariato che ha facilitato i successivi interventi di ricapitalizzazione. Nel caso delle popolari venete, la pressione a trasformarsi in SpA ha contribuito ad accelerare l’emersione dei problemi già colti con il Comprehensive assessment del 2014 e ha di fatto imposto il salvataggio in due fasi prima con l’apporto patrimoniale del fondo Atlante 1 e dopo con la cessione/liquidazione. La riforma non è stato però un provvedimento pensato per accompagnare e risolvere situazioni di pre-dissesto, tant’è che non le ha risolte nel caso delle venete. La riforma è tra l’altro ancora incompiuta, essendo rimaste in sospeso le situazioni della popolare di Sondrio e di quella di Bari a seguito dei ricorsi al Consiglio di Stato e all’Alta Corte contro le disposizioni di Vigilanza che limitano il recesso dei soci dissenzienti in sede di trasformazione. |
Infine, la politica ha interferito dando appoggio e copertura alle politiche creditizie delle banche di territorio, e agli azionisti di controllo che le difendevano in simbiosi con le tecnostrutture. Quando la situazione è precipitata c’è stata una corsa a prendere le distanze dalla gestione avventata. È facile oggi dare la colpa delle perdite al credito erogato senza garanzie, in conflitto di interessi o con intento doloso. Ma prima, dal 2008 fino al 2015, chi premeva a livello nazionale e locale, affinché le banche fornissero un sostegno creditizio alle imprese a qualunque costo? Chi sottoscriveva con Abi e associazioni datoriali le successive versioni dell'"Avviso comune sul credito" (detto moratoria)? Chi plaudente presenziava alle assemblee delle popolari venete e delle banche controllate da fondazioni? Chi prestava ascolto e aiuto all’arroccamento dei CdA in carica da anni contro il ricambio prescritto dalla Vigilanza? Non stiamo a elencare chi e quando, già lo sta facendo la Commissione d’inchiesta nei sette casi più sfortunati. Si potrebbero citare numerosi altri esempi. E volutamente non mi soffermo sull’esposizione personale di Matteo Renzi e di Maria Elena Boschi nei casi più clamorosi (rispettivamente Mps e Banca Etruria.)
Lo schema volontario del Fitd: perché non era in campo dal primo minuto?
Il Mef e la Banca d’Italia sono accusati di essersi fatti bloccare dalla DG Comp gli interventi di ricapitalizzazione del Fitd. In effetti ci sono stati delle incomprensioni, nate dalla diversa interpretazione della natura di quegli interventi: sono o non sono aiuti di Stato? Lo ha riassunto il presidente del Fitd Maccarone nell’audizione del 13 dicembre, riassunta in questo comunicato:
L’interpretazione della norma sugli aiuti di Stato da parte della Commissione Ue relative all’intervento del Fondo interbancario di tutela dei depositi (Fitd) su Banca Tercas "ha avuto un’influenza nefasta sulla possibilità di intervenire sulle banche" del Centro -Carife, Marche, Etruria e Chieti- poi risolte con decreto nel novembre 2015. Lo ha detto nel corso di un’audizione davanti alla commissione di inchiesta il presidente del Fondo interbancario di tutela dei depositi, Salvatore Maccarone, ricordando come la decisione della Commissione si è "sviluppata quando già si stava" valutando un intervento su Cariferrara. L’interpretazione della Commissione sulla norma degli aiuti di stato, ha aggiunto Maccarone, "ha caratterizzato in maniera notevole la sorte di Tercas e la sorte delle quattro banche" che ha visto "una distruzione di ricchezza pesante perché gli interventi che si sono avuti sono stati molto più costosi di quello che sarebbe stato l’intervento del Fondo".
Al niet della Commissione Ue il sistema bancario rispose con lo Schema volontario del Fitd. Lo stesso Maccarone ha ricordato la corsa contro il tempo fatta per attivarlo nel novembre 2015: a inizio mese si era capito che DG Comp non ammetteva interventi del Fitd "obbligatorio"; l'11 novembre il consiglio Fitd deliberava la creazione dello schema volontario; il 19 novembre i commissari Hill e Vestager mandavano al ministro Padoan una lettera con cui lasciavano aperta la porta per interventi volontari; il 21 però interveniva la risoluzione delle quattro banche; lo Schema fu attivato soltanto con l’assemblea costitutiva del 26 novembre, fuori tempo massimo, e fu quindi dotato delle sole risorse necessarie per "riciclare" l’apporto a favore di Tercas che la Commissione aveva invalidato.
L’intempestiva risposta ai desiderata (per quanto contestabili) della DG Comp sarebbe pertanto la causa della débacle delle quattro banche. Mi permetto di dissentire. L’iniezione di capitale a carico del Fitd è misura accessoria rispetto alla sistemazione di una banca commissariata giudicata incapace di continuare un’operatività autonoma. La prima condizione del risanamento è l’integrazione in un gruppo solido. È quello che è poi accaduto (cessione a Ubi e Bper per corrispettivo simbolico), previa cessione delle sofferenze unita a extra-rettifiche sulle inadempienze probabili, con un impegno di 4,5 miliardi di risorse del fondo di risoluzione (oltre al burden sharing di azioni e subordinati). Bene, pensate che bastasse utilizzare lo Schema volontario per trovare uno o più acquirenti disponibili a pagare di più o a trattenere una maggiore parte delle attività deteriorate? Lo dubito fortemente.
Note
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Questo mito dello schema volontario, evocato più volte nei lavori della Commissione banche, mi sembra come i commenti ai talk show sportivi dopo l’eliminazione dell’Italia nelle qualificazioni ai Mondiali 2018: perché Insigne non era in campo con la Svezia dal primo minuto? |
Il nobile (per quanto rimborsato) sacrificio di Atlante
Quando si accusano il Governo e la Banca d’Italia di aver fatto troppo poco per evitare i dissesti bancari ci si dimentica della storia, breve e intensa, del fondo Atlante 1. Già, ma che cosa c’entra il fondo promosso da una SGR vicina alla Fondazione Cariplo con le Istituzioni pubbliche interessate alle questioni bancarie? Ufficialmente non c’entra nulla, ma abbiamo testimonianze attendibili di una moral suasion molto energica esercitata nei confronti della cordata di gruppi bancari, fondazioni e compagnie di assicurazione scesa in campo a fianco di Alessandro Penati:
Chi sono i non-uscieri dietro Atlante? Guzzetti 20 marzo al Politecnico https://t.co/6am8eWPXy1 https://t.co/RngcSiCbPV pic.twitter.com/PsiHDLKee2
— Luca Erzegovesi (@lerzegov) 29 maggio 2017
Note
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Va ricordato che Atlante 1 non aveva come fine originario l’acquisizione di banche da risanare, bensì l’investimento nelle tranche a maggior rischio delle cartolarizzazioni di crediti deteriorati, funzione che è stata poi ripresa dal successivo fondo Atlante 2, intervenuto nel piano di ristrutturazione di Mps e di altre banche assistite dal Fitd. |
Nella Commissione d’inchiesta si è discusso a lungo degli ultimi anni delle banche venete, ma (forse mi sbaglio) non si è dato risalto ai 3,5 miliardi che il Fondo Atlante 1 ha iniettato nelle due banche poi messe in liquidazione coatta amministrativa. Qui lo dico e qui lo nego, ma il Fondo Atlante è stato un super-schema volontario sostenuto da attori di sistema sollecitati all’uopo. Quelle risorse sono state bruciate dalle perdite fatte emergere durante la gestione Quaestio-Viola. Per completezza e correttezza, si ricorda anche che il Mef ha "restituito" una somma simile con il salvataggio pubblico attuato tramite il DL 99/2017, nella forma di un contributo al patrimonio del gruppo Intesa. Quel contributo ha ristorato l’apporto in Atlante di Intesa (direttamente) e quelli delle fondazioni sue socie (indirettamente). Gli altri compagni di avventura hanno perso tutto (primo della lista Unicredit che ha messo 845 milioni alla costituzione più i rabbocchi successivi). La finanza dei salvataggi volontari e dei successivi bail-out funziona a volte come la ruota della fortuna evocata prima a proposito degli avari danteschi.
Non c’è dubbio che Atlante sia stato un esempio poderoso di early intervention incoraggiato (diciamo così) dalle Autorità. Nelle intenzioni, doveva assicurare la continuità aziendale delle due banche, fuse in un nuovo istituto. L’ingresso del fondo a rimedio di un collocamento in Borsa impraticabile ha inizialmente comportato la quasi totale diluizione degli azionisti preesistenti (dai precedenti valori gonfiati dei prezzi deliberati dall’assemblea). È seguita una gestione ad interim volta ad avviare un piano di ristrutturazione che avrebbe dovuto ricevere il sostegno patrimoniale pubblico (come Mps). Alla fine le due strutture operative hanno subito un’emorragia di raccolta e di clienti che ha vanificato il progetto industriale di fusione in una nuova banca autonoma, e ha reso necessario il salvataggio che ben conosciamo con la cessione a Intesa dei rami sani.
Che insegnamento possiamo trarre dal sacrificio di Atlante? Che si doveva intervenire prima. Però nessuno dica che non si è fatto nulla. Purtroppo, quando si è cominciato a fare, la situazione era già compromessa. Come sempre, del senno di poi son piene le fosse (e probabilmente lo saranno anche le Relazioni della Commissione d’inchiesta).
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C’è chi addirittura accusa i promotori del primo salvataggio delle Venete di aver illuso gli investitori privati, inducendone alcuni a investire in titoli subordinati che poi sarebbero rimasti intrappolati nel passivo delle ex banche in liquidazione, con scarse probabilità di recupero. Effetti collaterali. Ma prima era accaduto ben di peggio, come vediamo al punto successivo. |
La porcata più grossa (scusate, ma quanno ce vo')
Ho scritto troppo, ma temo di non aver soddisfatto i molti che rimangono indignati del principale misfatto evocato all’inizio: quello commesso dalle banche già traballanti collocando presso la loro clientela azioni e altri strumenti di capitale negli anni 2012-2014. L’ho detto in altre occasioni (mi ha citato anche Andrea Greco su Repubblica-AF): "Il misselling , per quanto in parte rimediato dai "ristori", ha lasciato una ferita aperta".
Ho trattato in un precedente post quanto sia difficile proteggere gli investitori non professionali, per quanto copiosi siano la regolamentazione e l’apparato di controlli e di sanzioni. C’è però una cosa che fa particolare rabbia agli investitori che si ritengono truffati: che le banche siano andati a cercarli a casa per proporre strumenti che mai avevano sottoscritto prima, abbiano forzato il loro profilo MIFiD di tolleranza del rischio, abbiano fornito rassicurazioni verbali sulla sicurezza dell’investimento. Tutto questo avveniva quando già erano emersi squilibri patrimoniali profondi, non completamente documentati nell’informativa pubblica. Ma non è finita qui. I prezzi di collocamento non erano equi rispetto al rischio (dico un eufemismo nel caso delle azioni delle popolari venete emesse nel 2013-14).
Non basta? Basta e avanza, ma non è ancora finita. Quelle operazioni sono state portate a termine in situazione di emergenza, sotto la minaccia del dissesto per violazione dei requisiti patrimoniali. Le strutture delle banche, dall’alta direzione al personale di rete, erano messe alla frusta per tenere il fronte. «Quel capitale ci serve, se non arriva andiamo tutti a casa» (a cominciare dal top management). A questo punto mi inserisco da osservatore distaccato: capisco la situazione, mi state descrivendo una carenza patrimoniale che non poteva essere coperta sul mercato, ci si doveva appoggiare su una forma di supporto esterno. Perché allora vi siete rivolti alla signora Giovanna da Ferrara (quella del campanello)? A questo punto dobbiamo anche noi andare in modalità segretata e un po' drammatizzata.
Parla DG, il direttore generale di una delle sette banche
DG:«Immagini una città sotto assedio, circondata da forze nemiche soverchianti, il Signore e la sua corte non vogliono arrendersi. Che cosa dovevo fare? Non potevo chiamare in soccorso una truppa di lanzichenecchi (con che li pagavo? Con i forzieri vuoti senza bottino da spartire?). Ho distribuito balestre e archibugi tra giovinetti e madri di famiglia e li ho convinti a salire sugli spalti. Per rincuorarli, non ho detto che il nemico era alle porte, e avrebbe lanciato l’assalto, questione di settimane. Eravamo sotto assedio, il nemico avrebbe invaso la loro città, le loro case».
Io: «Direttore, lei racconta meglio di Walter G. Scott, ma non mi risulta che i depositanti di una banca che viene venduta siano in pericolo di essere stuprati o saccheggiati.»
DG: «Ma come, lei dimentica il bail-in!»
Io: «Già, ma voi avete convinto dei poveretti a spostarsi dalle retrovie alle prime e seconde linee, sotto il fuoco dei primi assalti. Il bail-in lo avrebbero evitato.»
DG: «Ma era in gioco la banca! Un patrimonio di tutti, la nostra storia, le radici, il territorio!»
Alla parola "territorio" vado in trance da shock iperglicemico. Sogno di trovarmi ai piedi delle mura interne del borgo assediato. Vedo un gruppo di giovani signori che indossano corazze decorate sopra eleganti costumi. Parla uno di loro
Giovane: «Questo assedio mi spaventa. Per fortuna abbiamo appena rifatto le fortificazioni. L’appalto l’abbiamo vinto noi, e il Banco ci ha concesso un prestito generoso.»
Io: «Ma come potrete resistere, l’acqua e il cibo sono razionati»
Giovane: «Sì, ma abbiamo le nostre scorte strategiche.»
Io: «Non temete la furia nemica?»
Giovane: «Siamo arruolati con lettera di congedo a vista, possiamo restituire le corazze e lasciare il Borgo con carri, mobilio e gioielli di famiglia. Basta essere avvisati per tempo dell’assalto»
Io: «E questi ragazzi che resteranno qui a morire per voi?»
Giovane: «Il sergente reclutatore gli ha fatto firmare una carta che spiegava tutti i pericoli cui sarebbero andati incontro. È nobile combattere per la causa del Banco. Un patrimonio di tutti, la nostra storia, le radici, il territorio!»
Io: «Siete dei codardi.»
Giovane: «Tu menti! Perderemo comunque le nostre case. E alcuni si vedranno restituire la lettera di congedo con un ghigno beffardo, e periranno qui come tutti gli altri.»
Rende l’idea? Le banche pericolanti come borghi assediati. Una situazione irredimibile con le sole forze interne. Avrebbero dovuto essere cacciati i signori deboli e incapaci, i generali temerari e i cortigiani infingardi. Non lo si è fatto finché non sono caduti i primi morti e feriti. Il popolo è rimasto dentro le mura, ed è passato troppo tempo prima che fosse tratto in salvo.
Non è materia da talk show
Fa arrabbiare, vero? Di più, mette addosso un senso di mortificazione, di vergogna. E anche di compassione, per tutti coloro che hanno sofferto ingiustamente, e a maggior ragione se traditi nella fiducia. Sia ben chiaro, non tutti sono vittime allo stesso modo: alcuni sapevano più di altri; c’è chi ha perso come gli altri, ma prima ha avuto dei vantaggi (credito, visibiilità, relazioni).
Comunque, ora è andata. Cerchiamo almeno di capire che cosa è successo veramente. Di chi è la colpa? Servono tempo e saggezza in grande quantità per emettere un giudizio. Mi limito per ora a ribadire: il soggetto colpevole è un collettivo. Una compagine (una comunità, una nazione) che aveva di fronte una realtà, e ha chiuso gli occhi; doveva agire, e si è tirata indietro; doveva lavorare insieme, e si è chiusa nel proprio "particulare". In tutti ha taciuto la voce della responsabilità: «Chiama in gioco me, I care».
Ci sono ovviamente dei responsabili diretti. In loro, quello che ha tolto lucidità è l’amor proprio. Quello che ha paralizzato è l’incapacità di ammettere «Abbiamo sbagliato, aiutateci». Quello che ha spinto a mentire e a ingannare è la mancanza di compassione, di sé prima che degli altri.
Questo mi basta per risolvere la questione che ritengo prioritaria: abbiamo vissuto un dramma, come facciamo a sanare le ferite, a ritrovare la via della fiducia e della collaborazione, a ricostruire? Il primo problema non è chi ha ragione, ma come si fa ad andare avanti. Certo, è importante anche risalire alle responsabilità di individui, organizzazioni e istituzioni. Tuttavia, non cedo di un millimetro sul punto: tutti siamo responsabili sul piano morale, esistenziale.
Il prossimo post, il più sofferto che abbia scritto finora, tratterà dei procedimenti che il diritto e la politica mettono a disposizione per accertare le colpe e punire i colpevoli. Ritroveremo lì tutti gli attori, i convenuti e gli arbitri di questi procedimenti: gli amministratori e i sindaci, i dirigenti e i dipendenti, gli organi di vigilanza, i governanti, i politici, i magistrati, i giornalisti, i consulenti, i professori. Nessuno escluso. Ci saranno spunti interessanti, paradossi, e qualche sorpresa.
Questo preambolo non vuole essere un’assoluzione generale. È soltanto una necessaria premessa. E anche (come spero di dimostrare) la conclusione più importante.
Sui titoli di coda
Tutto quello che mi resta da dire è riassunto in questa citazione (se non è chiara, chiamatemi):
La miglior difesa non è l’attacco.
La miglior difesa è la creazione, quando si può.
Cahiers de la Quinzaine - 16 agosto 1902