Salvataggi paralleli: da Napoli 1996 a Veneto 2017

Mi sto riprendendo dall’ubriacatura di fatti e discussioni sulla crisi risolta (si spera) di Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca. Complice il ponte romano per i SS.Apostoli, c’è stato un calo di tensione e di attenzione sui media e sui social. Tuttavia stamattina, ai Conti della belva, Oscar Giannino è tornato sul tema (ascoltatelo dal podcast al minuto 21:29) con un giudizio molto interessante: a suo dire, il salvataggio delle banche venete segna la vittoria della via italiana alla gestione delle crisi bancarie. Il DL 99/2017 sospende di fatto in Italia la vigenza della BRRD. Il Governo ha detto un no definitivo alla risoluzione basata sulla sistemazione rapida del dissesto con l’accertamento immediato delle perdite e la loro copertura con risorse private, degli investitori e del sistema. Si torna al passato: lo Stato scende in campo, ci mette prima di tutto la sua faccia e la sua firma. Non pretende di quantificare subito il buco patrimoniale, ma copre il bisogno immediato di liquidità, e si impegna a garantire le probabili perdite future, nel tempo che ci vorrà per chiudere la partita (anni). Il conto lo paga il contribuente.

Ma in che cosa consiste la via italiana ai salvataggi bancari? Per raccogliere degli elementi, sono andato a riguardarmi il caso di salvataggio più importante della storia bancaria italiana del dopoguerra: il risanamento, la ristrutturazione e la privatizzazione del Banco di Napoli del 1996, con Prodi premier e Ciampi Ministro del tesoro. Ci sono molti punti in comune con la vicenda veneta che intendo mettere in luce per aiutare a capire meglio il passato e il presente.

Note
Come fonti, ho utilizzato il testo del decreto-legge omologo del DL 99/2017, ovvero il DL 24 settembre 1996, n. 497, convertito nella L 19 novembre 1996, n. 588. Per la narrazione dei fatti e del contesto, c’è il libro di Mariarosaria Marchesano Miracolo Bad Bank ripreso da Luigi Zingales con questo e quest’altro approfondimento, e la Decisione della Commissione europea del 19 luglio 1998 che ha approvato a cose fatte, ponendo delle condizioni, gli aiuti di Stato inglobati nell’operazione.

La crisi del Banco di Napoli in poche righe

La storica banca partenopea cade in dissesto nel 1996. All’inizio degli anni novanta, Il Banco di Napoli aveva dato impulso gli impieghi sia verso le grandi imprese del centro-nord, sia verso le PMI delle regioni meridionali. Dopo il 1992 l’Italia entrava in una fase molto negativa del ciclo creditizio, con tassi di default non inferiori a quelli visti dopo il 2008. Il Banco ha quindi sbagliato il timing del ciclo e ne ha pagato il prezzo con l’esplosione delle sofferenze. Le rettifiche su crediti, sommate a costi del personale sopra la media di sistema, portano a realizzare nel 1994 e nel 1995 perdite di 1.147 e 3.155 miliardi di lire (in tutto circa 2,2 miliardi euro). Il patrimonio ne viene quasi azzerato, pregiudicando il rispetto dei coefficienti prudenziali.

Cingolani sul Foglio ha descritto così l’emersione rapida della crisi d’o Banc’e Napule:

Quando, nel 1995, gli ispettori della Banca d’Italia uscirono da via Toledo 177, dov’erano stati spediti dal governatore Antonio Fazio e dal capo della Vigilanza Vincenzo Desario, si conobbe la reale dimensione dello sfacelo. I crediti a rischio verso la clientela ammontavano a 16 mila 568 miliardi di lire. […​] L’ispezione era scattata subito dopo la morte del signore e padrone del Banco, Ferdinando Ventriglia, avvenuta l’11 dicembre 1994 a 67 anni. Era uno dei banchieri più importanti e potenti d’Italia, lo chiamavano re Ferdinando, e non si trattava solo di uno sfottò perché il professore era Napoli nella sua quintessenza, raffinatezza intellettuale e clientelismo politico. “Per chiedermi i contributi mi chiamano perfino quando me ne sto chiuso al cesso”, diceva con una delle sue frequenti battute plebee.

Il dissesto si annuncia con problemi di liquidità. Nel gennaio 1996 il Banco riceve un finanziamento di 1.000 miliardi di lire dalla Cassa depositi e prestiti. Ma le perdite continuano ad accumularsi, e si prospetta un’insolvenza di proporzioni straordinarie.

Per scongiurare la liquidazione, prende forma un piano di salvataggio molto complesso, che viene lanciato con un decreto-legge in marzo, poi decaduto e riproposto in maggio e infine attuato col definitivo DL 24 settembre 1996, n. 497. In sintesi, il salvataggio prevedeva:

  • lo scorporo dal Banco di crediti deteriorati, partecipazioni e cespiti non immobiliari in un apposito veicolo, la SGA (Società per la Gestione delle Attività);

  • la ricapitalizzazione del Banco così risanato da parte dello Stato, che avrebbe sottoscritto un aumento di capitale di 2.000 miliardi di lire, per la metà mediante accollo e conversione del finanziamento CDP; il Tesoro ha ottenuto le risorse per questo apporto mediante un apposito mutuo della Cassa depositi e prestiti;

  • il successivo collocamento della quota di maggioranza del Banco mediante gara, che si sarebbe completata nel gennaio 1997 con la cessione del 60% a una cordata composta da BNL e INA;

  • la liquidazione coatta amministrativa dell’ISVEIMER, istituto di credito a medio termine controllato dal Banco;

  • la concessione al Banco di anticipazioni straordinarie della Banca d’Italia ai sensi del c.d. decreto Sindona (Decreto del ministro del Tesoro del 27 settembre 1974) allo scopo di finanziare la SGA e le controllate in liquidazione, oltre che di coprire le perdite originate da questi interventi;

  • agevolazioni fiscali sulle imposte indirette;

  • accordo con il sindacato per la riduzione del costo del lavoro e un piano di 800 prepensionamenti.

Anche in quell’occasione le misure si sono spinte agli estremi confini dello spazio normativo conosciuto. Non esisteva ancora un quadro comunitario per gli aiuti alle banche, che sarebbe arrivato dopo la crisi Lehman nel 2008 per poi essere aggiornato dalla vigente Banking communication dell’agosto 2013. La Banking Union e la BRRD erano ben lontane dall’essere anche solo immaginate. L’Italia poteva già contare dal 1986 su un sistema volontario di assicurazione dei depositi, che sarebbe divenuto obbligatorio proprio nel 1996. Il FITD era intervenuto nel 1988 a sostegno della Cassa di risparmio di Prato e successivamente di altre piccole banche, ma non poteva farsi carico di un impegno così pesante e prolungato come questo.

Per le crisi di carattere straordinario, la normativa metteva a disposizione le citate anticipazioni straordinarie della Banca d’Italia al tasso dell'1% fino a una durata di 24 mesi a favore delle banche le quali, surrogandosi ai depositanti e ai creditori di altri istituti in liquidazione coatta amministrativa, dovevano coprire le conseguenti perdite sulle loro esposizioni attive, non recuperabili in tutto o in parte. I fondi dovevano essere utilizzati per acquistare Buoni del Tesoro poliennali dalla Banca d’Italia, che erano poi depositate come garanzia dell’anticipazione. Il meccanismo di indennizzo economico era perciò rappresentato dai margini derivanti dal differenziale tra il rendimento ottenuto sui BTp e il tasso di interesse delle anticipazioni (quello che oggi si chiamerebbe un carry trade).
Questo dispositivo per la crisi del Banco non era sufficiente, sebbene si sia deciso di impiegarlo per finanziare la liquidazione dell’ISVEIMER e la SGA.

Era infatti richiesto un intervento molto più pesante e immediato di ripiano delle perdite in linea capitale, che è stato attuato per due vie:

  • la svalutazione dei crediti e delle partecipazioni in capo al Banco di Napoli prima della loro cessione alla SGA per importi netti presuntivamente in linea con il loro valore di realizzo;

  • la conseguente ricapitalizzazione del Banco, condizione preliminare al suo collocamento sul mercato.

Le differenze rispetto alle banche venete

Prima di commentare le analogie tra i due casi, rimarchiamo la differenza più lampante: il Banco di Napoli è stato risanato e ha continuato a operare come entità autonoma, tant’è che è stato possibile venderne il pacchetto di controllo a BNL-INA (al valore peraltro irrisorio di 60 miliardi di lire per il 60% del capitale sociale) nel gennaio 1997. Dopo circa due anni, il controllo è passato al Gruppo Sanpaolo IMI a un prezzo centuplicato, con una clamorosa plusvalenza che tra l’altro ha risolto i problemi di capitale di BNL. Il tutto emblematico dell’approccio dirigista delle Autorità, che gestivano il capitale delle banche a livello di sistema come un bene pubblico (prassi peraltro non cessata del tutto sia nelle forme "volontarie" veicolate dal FITD o da soggetti come il fondo Atlante, sia attraverso gli interventi "obbligatori" dello stesso FITD e del Fondo di risoluzione).

A differenza del banco partenopeo, le banche venete sono state messe in liquidazione coatta amministrativa, mentre la loro gestione sana è stata ceduta al Gruppo Intesa Sanpaolo.

Note
Se però andiamo all’esito finale delle due storie, tutte le banche malate di cui stiamo parlando sono approdate alla stessa meta: il Gruppo Intesa Sanpaolo.

In entrambi i casi lo Stato ha contribuito a ricapitalizzare la good bank, ma a Napoli l’ha fatto sottoscrivendo un aumento di capitale che ha estromesso dal controllo la Fondazione Banco di Napoli.
Nel caso veneto, lo Stato ha corrisposto un contributo cash per il rafforzamento patrimoniale del gruppo acquirente. Tuttavia in precedenza il Governo aveva incoraggiato l’apporto al capitale per complessivi 3,5 miliardi da parte del Fondo Atlante 1. Un’iniziativa caldeggiata dal Governo, con la quale si confidava di poter mettere in sicurezza le due banche con una ricapitalizzazione preventiva formalmente affidata a un soggetto privato. Tentativo che si voleva ripetere con l’accesso alla ricapitalizzazione precauzionale dello Stato ex DL 237/2016, poi di fatto bloccata da Bruxelles. Leggiamo col senno di poi questi ripetuti e vani tentativi di rianimazione delle due banche come un errore strategico che ha procrastinato l’intervento risolutivo, facendone lievitare il costo.

Per quanto riguarda i rapporti con la Commissione Europea, nel 1996 si è agito in emergenza, senza acquisire preventivamente l’autorizzazione della Direzione Concorrenza, che è stata rilasciata a cose fatte nel 1998. In confronto il caso veneto è stato gestito nel pieno rispetto delle regole, che sono oggi molto più definite e provate sul campo.

Sono molto diversi anche i meccanismi di finanziamento e di copertura delle perdite della bad bank:

  • la SGA ha rilevato pro soluto il portafoglio deteriorato della banca, da cui ha ricevuto finanziamenti a loro volta alimentati dalle anticipazioni straordinarie ex decreto Sindona;

  • in Veneto gli NPL e le partecipazioni non strategiche sono rimaste sulle banche in liquidazione; l’onere di finanziarle è stato assunto dal gruppo Intesa, che ha acquisito un credito pari allo sbilancio tra passività e attività trasferite come good bank; il rischio ultimo di perdite sul portafoglio deteriorato è stato però coperto dallo Stato che garantisce il rimborso entro 5 anni di tale finanziamento dello "sbilancio di cessione" (per i particolari tecnici v. post precedente) [revisione 6/7].

Per quanto riguarda il profilo economico del recupero degli NPL, la SGA dovrebbe aver preso in carico gli attivi deteriorati del Banco di Napoli a valori netti allineati con i previsti realizzi, mentre le bad bank venete in liquidazione hanno mantenuto le partite ai valori di carico svalutati a più riprese dopo il 2014, ma presumibilmente ancora gonfiati da perdite latenti. Questo sarebbe dimostrato dalla concessione a Intesa della facoltà di retrocedere impieghi oggi classificati in bonis fino a 4 miliardi di euro in tre anni. Di conseguenza, nel caso veneto le percentuali di rientro sul valore contabile netto degli attivi saranno molto probabilmente inferiori al 92% vantato dalla SGA per il portafoglio del Banco.

Possiamo quindi dare due interpretazioni sulle specificità del caso veneto [revisione 6/7]:

  • lo Stato ha utilizzato uno strumento di sostegno al reddito a impatto immediato poiché ha concesso un contributo al capitale di 3,5 miliardi (contabilizzato come reddito straordinario da Intesa) al posto delle anticipazioni ex decreto Sindona (che producevano una margine di interesse spalmato nel tempo);

  • lo Stato risulta però esposto al rischio di perdite future sugli attivi deteriorati attraverso le ampie garanzie riconosciute a Intesa, anziché assorbirne indirettamente il costo sulle anticipazioni da Banca d’Italia utilizzate a Napoli.

Note
Va da sé che la tenuta della risk mitigation statale si fonda sul mantenimento della ponderazione zero del rischio sovrano a fini di Vigilanza. Un disturbo potrebbe venire dall’entrata a regime del principio contabile IFRS 9 che costringerebbe ad applicare un impairment alle esposizioni verso lo Stato italiano in caso di abbassamento del suo rating sotto l'investment grade. Sul tema si rinvia a un nostro paper.

Le analogie tra i due casi

In entrambi i casi la crisi è stata causata da politiche del credito espansive protratte oltre il punto di svolta negativa del ciclo, che hanno prodotto tassi di default cumulativi nettamente superiori a quelli medi nazionali. Il Banco di Napoli ha subito però un fattore esogeno di cui non ha colpa, la fine dell’intervento straordinario nel Mezzogiorno. Le due banche venete hanno dal canto loro intenzionalmente aggravato la loro situazione con pratiche scorrette e sconsiderate di raccolta di capitale tra la clientela (gonfiamento del valore delle proprie azioni e finanziamenti per l’acquisto di azioni "baciate") che hanno loro consentito di puntellare le esposizioni eccessive, proponendosi come collettori del rischio scaricato dai loro concorrenti più avveduti.

Troviamo un’altra somiglianza nella presenza di un dominus forte, da una parte Ferdinando Ventriglia a Napoli, dall’altra Gianni Zonin e Vincenzo Consoli a Vicenza e Montebelluna. Con qualità, caratteri e storie personali peraltro molto distanti tra loro. Ventriglia muore per un tumore nel dicembre 1994, nella piena consapevolezza della crisi della sua banca, senza però aver avuto il tempo o la volontà di farla emergere e avviare a soluzione. Dal canto loro i vertici delle due venete hanno difeso ostinatamente la loro strategia di crescita forzata a sostegno del territorio, negando o nascondendo con artifici illegali le falle che si aprivano nei loro bilanci.

Vi sono poi delle analogie tecniche più evidenti tra i rispettivi interventi di sostegno e di ristrutturazione:

  • prima del dissesto, le tre banche hanno ottenuto forme di sostegno alla liquidità (il prestito della CDP a Napoli e le garanzie statali sui bond in Veneto);

  • il portafoglio deteriorato è stato affidato in gestione, a distanza di vent’anni, allo stesso soggetto, la SGA; i passaggi e le soluzioni contrattuali sono differenti, ma opera in tutti i casi un trasferimento del rischio di recupero sullo Stato; sul piano operativo, il piano per le venete replica la divisione del lavoro nell’attività di recupero ideata per il Banco, con il coinvolgimento a fianco della SGA del servizio recuperi e della rete delle good bank (Banco Napoli e ramo passato ad Intesa) nel servicing;

  • al di sopra e al di là dei dettagli, i due piani hanno in comune la complessità, l’orizzonte temporale lungo e la difficoltà di stimarne il costo complessivo, sia a preventivo che a consuntivo; ma questa opacità o inconoscibilità sembrano un problema epistemologico che caratterizza tutti i grandi salvataggi bancari, non solo in Italia.

Note
Segnaliamo un’ultima coincidenza non casuale: anche nell’operazione del 1996, il Governo si è avvalso della banca d’affari Rothschild come advisor nella strutturazione e nella gestione dei rapporti con la Commissione europea.

L’analisi controfattuale: era meglio la risoluzione?

E torniamo alla questione sollevata oggi ai Conti della belva: è vero che il DL 99/2017 segna la restaurazione nel nostro Paese dell’ordine bancario previgente la BRRD, con tutte le sue tare di opacità, mano libera ai comportamenti azzardati, credito piegato ai voleri della politica e dei poteri forti, scarico di perdite sullo Stato? Se questo pericolo è reale, che cosa si può fare per evitarlo?

La questione è grave, e non pretendo di esaurirla qui. Non ho ancora capito se faccio parte degli "accademici collusi e colpevoli con i regolatori" chiamati in causa anche oggi da Giannino. Sicuramente ho una posizione critica sulla BRRD, e non da ieri (l’avevo espressa più di un anno fa in questo intervento). Al tempo stesso, ho sempre denunciato la risposta tardiva e parziale del sistema bancario italiano alle sfide del mondo post 2008.

Nel dibattito acceso che ha preceduto il decreto salva-venete ho tenuto una posizione ferma su un punto: non si doveva accettare il protocollo di cura della BRRD per scelta ideologica o per pressioni esterne. Affermavo il principio di Ippocrate: primum non nocere; prudenza nell’adottare un rimedio che rischia di essere peggiore del male. Non è soltanto un principio di senso comune, ho cercato di fornire argomenti teorici ed empirici in questo post poche ore prima che BCE e SRB dessero il disco verde alla non-risoluzione.

Dal canto loro, gli interventi più critici contro il bail-out muovono un’accusa al Governo e alle Autorità di vigilanza: si doveva agire prima, ammettendo la gravità della crisi e attuando una risoluzione con bail-in del debito senior che sarebbe stata, letteralmente, risolutiva. Come esempi di questa posizione segnalo gli articoli ben scritti di Giugliano e Merler. Al confronto la posizione dell’Economist appare più comprensiva delle ragioni particolari dell’Italia.

Si doveva agire prima, non c’è dubbio. Di chi è la colpa di questo ritardo? Di questo sono meno sicuro. Per molti (non per tutti quelli che ho citato) la colpa maggiore è dei regolatori bancari e finanziari che hanno tirato a campare per nascondere errori e omissioni del loro operato.

È vero che le Autorità hanno assecondato un certo modo di governare e gestire le banche conseguente alla loro storia e congeniale alle persone che in quel milieu si erano formate. In passato andava benissimo vendere azioni ai soci-clienti in un contesto di alta redditività, rischi sotto controllo, normativa stabile. Le obbligazioni bancarie erano soltanto una via diversa di fare raccolta diretta, necessaria per sostenere la domanda crescente di mutui da privati e imprese. Erano meno liquide e redditizie dei titoli di Stato, sebbene fino al 2011 fossero tassate di meno. Tuttavia, come spiegano bene Greco e Vanni nel loro libro sulle popolari, la clientela locale accettava una minor remunerazione e maggiori rischi sul risparmio in cambio del sostegno economico al territorio. Questo scambio non era il massimo della trasparenza e alcune banche possono averne approfittato, ma di qui a trattare la vendita di obbligazioni bancarie come un caso clamoroso di mis-selling con la connivenza delle Autorità ce ne corre. Lasciamo la grave accusa ai casi che se la meritano, ovvero quelli in cui si sono piazzati degli strumenti tecnicamente più rischiosi (subordinati e azioni) in una situazione di conclamato (ma nascosto) squilibrio patrimoniale. È l’ultima circostanza a costituire la prova regina della malefatta.

Dopo la crisi questo modello di business e di risk/capital management è saltato. Abbiamo vissuto tre anni terribili, tra il 2009 e il 2011, nei quali ci si è illusi che non fosse così, che anzi si doveva mettere il turbo a quel modello per esaltarne l’effetto autopropulsivo sull’operatività della banca. Di qui l’uso improprio del classamento sul retail di titoli subordinati emessi per tamponare scompensi patrimoniali e pertanto vulnerabili, per non parlare del collocamento forzato di azioni già prima evocato. Troppe banche hanno atteso troppo prima di svegliarsi dal sogno di potercela fare comunque, anche perché nel frattempo catturate da squadre di cacciatori del credito facile. In molti si sono cullati nell’illusione, fiduciosi nella ripresa che avrebbe ripristinato i bei tempi andati.

Quando a fine 2011 Governo, esponenti politici, associazioni d’impresa, giornali e, ovviamente, regolatori hanno avvertito la spiacevole sensazione del guano che arrivava alla caviglia e continuava a salire, tra loro si è aperta una nobile gara a rincuorare, rassicurare, comprendere e aiutare i malcapitati che per primi erano stati raggiunti dalla bruna massa. Quando poi il livello è salito al polpaccio, o alla cintola, le posizioni si sono divaricate: c’è chi ha continuato a negare, chi invece ha pensato a tirarsene fuori (se non lo aveva fatto prima). Tutti hanno avvertito il disastro incombente, ed è cominciato lo scarico di responsabilità: i politici sulle Autorità, le Autorità sui CdA, i CdA sui dirigenti, i dirigenti sui clienti, i clienti sul Governo.

Non voglio emettere giudizi sommari sulle colpe dei regolatori o di altri soggetti. Non voglio neppure aggiungere argomenti alle cose che ho già scritto sui limiti di efficacia delle nuove procedure di gestione delle crisi bancarie.

Per questo motivo non proporrò qui un’analisi controfattuale della risoluzione delle banche venete che non c’è stata. Tengo da parte le forze per i nuovi dossier di crisi che incombono e che potrebbero ribaltare la scandalosa soluzione presa il 25 giugno, che tra l’altro rovescia quella presa quasi contemporaneamente per MPS. Ogni caso fa storia a sé, i problemi cambiano e con essi le priorità e i mezzi di chi deve fornire risposte.

La vera sfida è superare il modello di business del passato senza conoscere il futuro. Ci vuole tempo, pazienza e una mole enorme di lavoro. L’errore imperdonabile sarebbe quello di chiudere gli occhi davanti a questa necessità.

Secondo voi, la banca che ha collocato obbligazioni senior poi finite sotto la spada di Damocle del bail-in ha commesso una colpa grave, come i commenti degli ultimi giorni vorrebbero far credere? Secondo me no, tuttavia la commette se continua a farlo perché rinuncia in partenza a cercare delle alternative. Aver sostenuto le imprese con le moratorie è stata una scelta sconsiderata? No, ma guai se si persevera nell’errore di finanziare le PMI rinunciando a capirne i bisogni e a guidarne i comportamenti, come non si stanca di ripetere l’amico Alessandro Berti e con lui altre rare voci, come Fabio Bolognini che ha ricordato le molte PMI che rischiano la revoca dei fidi con il subentro di Intesa.

Sulla costruzione che ci attende ci sono tante altre cose da dire. Non è una questione di regole e di processi, ma di persone. Vi do appuntamento a lunedì per tornare sulle cose che mi stanno più a cuore.

Vi auguro una buona domenica, da dedicare agli affetti più cari. Per un giorno (di festa), le banche venete sapranno badare a se stesse.

Luca Erzegovesi
Luca Erzegovesi
Professore di Finanza aziendale

Mi interesso di finanza delle Pmi, crisi bancarie e nuovi modelli di business bancari.

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