La Commissione indaga su azioni gonfiate e banche scoppiate

Sto seguendo i lavori della Commissione banche, al momento impegnata sul dossier Popolari venete. Domenica scorsa mi sono gustato varie audizioni, quella del 31 ottobre dedicata alle Associazioni dei risparmiatori delle due banche, e quelle di Carmelo Barbagallo (Banca d’Italia) e Angelo Apponi (Consob), tenute il 2 novembre. In tutto 9 ore, ma ne è valsa la pena. Ho preso appunti per confrontare quello che si è detto a Palazzo San Macuto con quanto riportato sulla stampa. La Commissione rischia di diventare una tribuna preelettorale, ma rimane un’occasione preziosa per raccogliere documenti e testimonianze dalla viva voce dei protagonisti delle crisi bancarie degli ultimi anni.

Colgo al volo l’occasione per aprire un filone di post sui grandi temi sollevati nel corso dei lavori. Non voglio sostituirmi ai parlamentari nominati né ai loro consulenti ed esperti, ma soltanto percorrere un tratto di strada con loro per collegare i puntini tra le evidenze che sono emerse ed emergeranno. Metto le mie riflessioni a disposizione di chiunque voglia formarsi un giudizio non preconcetto che tenga conto dei diversi fattori in gioco.

Note
Qui di seguito cito dei passaggi che potete ascoltare dai video linkati sopra. Indico la loro posizione nei video in formato [hh:mm:ss]

Lo scandalo delle azioni gonfiate

Affronto come primo tema quello del valore delle azioni delle banche venete. È venuto fuori nelle audizioni delle due Autorità. Tanto la Popolare di Vicenza quanto Veneto Banca hanno fatto aumenti di capitale nel 2013 e 2014 a prezzi di emissione palesemente sopravvalutati rispetto ai multipli price/book value di banche comparabili quotate. Secondo vari componenti della Commissione, questo prova l’inefficacia della supervisione svolta da Banca d’Italia e da Consob, che non hanno saputo proteggere i risparmiatori dalle perdite di un investimento che nasceva a valori manipolati, che avrebbe subito prima una drastica diluizione (con l’ingresso di Atlante nel 2016) e poi un azzeramento (con la liquidazione, e senza nemmeno la possibilità pratica di agire, né contro l’acquirente Intesa né contro le bad bank, per un risarcimento).

La scelta tecnica di fissare un prezzo gonfiato si è combinata con molte circostanze aggravanti: la violazione dei presidi Mifid di tutela dei clienti, il finanziamento delle sottoscrizioni talora imposto con metodi estorsivi, la mancata deduzione delle conseguenti "azioni baciate" dal patrimonio di vigilanza, i favoritismi a clienti importanti che hanno ottenuto il riacquisto di titoli in circolazione mentre ignari piccoli risparmiatori li finanziavano diventando azionisti per la prima volta. Una vera e propria galleria degli orrori che ormai fa parte dell’immaginario collettivo. Ci limitiamo qui a considerare il mostro incontrato nel primo livello del videogame, cioè il prezzo gonfiato delle azioni. È questo il tema su cui è montato il sospetto che Banca d’Italia abbia mancato al suo dovere di collaborazione con Consob, rendendo inefficace il combinato disposto della rispettiva azione.

Note
Non parlerò neanche dell’altro capo d’imputazione mosso a BdI, l’asimmetria di trattamento tra Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca. Per il dott. Barbagallo le dichiarazioni di esponenti delle due banche secondo le quali la Vigilanza avrebbe spinto a un’incorporazione di VB in BPVi non hanno alcun riscontro oggettivo. Ha poi ricordato le ragioni industriali di una fusione "alla pari" tra due debolezze. Rimando sul punto alle mie considerazioni sulla banca lazzaretto.

Sostiene Barbagallo

Nell’audizione del capo della Vigilanza in Banca d’Italia, è stato l’on. Zanetti a sollevare il punto in maniera ferma [3:10:40]: BdI non ha il potere di regolare il prezzo di emissione, ma come è possibile che non sia intervenuta per proteggere i risparmiatori impedendo che prezzi assurdi fossero usati in aumenti di capitale? Qui Barbagallo [3:33:40] ha fornito delle motivazioni tecniche oltre a quella generale (già spesa in risposte precedenti) del segreto d’ufficio. In occasione delle emissioni incriminate era evidente che i prezzi di offerta implicassero dei multipli di valutazione price/book value (P/BV) molto più alti di quelli di banche quotate comparabili. Tuttavia, non c’è una regola che imponga a banche popolari non quotate (come BPVi e VB) di tenerne conto. I prezzi di emissione o di riacquisto sul secondario sono fissati dall’assemblea dei soci su proposta del CdA. Lo stesso CdA incontra dei problemi a proporre prezzi molto inferiori al patrimonio netto per azione: se decidesse di farlo, dovrebbe giustificarlo ai soci in ragione di perdite latenti (esponendosi all’accusa di falso in bilancio) oppure di redditività futura negativa (che dovrebbe essere recepita nei piani strategici e nei budget). Questo «è complicato» [sì, è complicato far passare a un gruppo di soci-clienti il concetto che il costo del capitale è superiore al ROE atteso per giustificare ai loro occhi un valore svilito rispetto al loro prezzo di acquisto]. Si può dare un warning per P/BV molto superiori a 1 [vedremo che compete alla Consob, che lo ha fatto], ma non imporre un pieno adeguamento ai P/BV delle quotate se questi sono molto inferiori a 1.

Che cosa può fare Banca d’Italia? Può rilevare dei vizi logici o delle carenze delle procedure di determinazione del prezzo, per prima cosa la loro arbitrarietà quando risultano indeterminate o disancorate dai "fondamentali" indicati dalla teoria finanziaria e dalle buone pratiche. Lo ha fatto già nel 2001 per BPVi (con richiami ribaditi nel 2008 e nel 2009), raccomandando il ricorso a esperti indipendenti e l’esplicitazione dei metodi di pricing. Sul piano fattuale, BdI ha riscontrato che i prezzi fissati dalla banca erano mediamente inferiori ai livelli teorici basati sui multipli fino al 2009, mentre dal 2011 hanno abbondantemente superato i benchmark di Borsa per effetto del divergente andamento delle quotazioni, in forte calo per le popolari quotate e stabili per le Venete, fino alla caduta nel 2015 con la trasformazione in spa e le note vicende.

Sostiene Apponi

Nella sua relazione scritta (il cui testo non è ancora disponibile sul sito istituzionale per l’inclusione di parti riservate) il direttore generale di Consob ha premesso che è difficile vigilare su banche con azioni non quotate che però hanno strumenti finanziari (le stesse azioni e i bond) diffusi tra il pubblico. Nei confronti delle quotate, l’Autorità dei mercati può agire per l’impugnazione dei bilanci o anche censurare pubblicamente le carenze riscontrate, ma per le Venete non poteva farlo. Sul tema specifico delle condizioni di offerta delle azioni, la Consob ha il potere di approvare i relativi prospetti. Le informazioni ivi contenute devono essere complete e coerenti con le fonti informative di supporto. Qui Consob collabora con le Autorità preposte alla stabilità finanziaria (BdI e Bce), le quali sono tenute a trasmettere informazioni rilevanti per la valutazione dell’emittente da parte degli investitori. Consob non ha il compito di vagliare la veridicità del contenuto informativo dei prospetti, della quale risponde l’emittente.

Sul tema specifico, Apponi fa notare che negli aumenti di capitale del 2014 (quelli fatti per essere in regola con le prescrizioni del Comprehensive Assessment Bce) entrambe le Venete hanno inserito nei prospetti chiare indicazioni sui rischi di illiquidità delle azioni (dovute alla non quotazione) e di sopravvalutazione dei prezzi. Quest’ultima era palesemente documentata da una tabella di confronto dei multipli P/BV rispetto a un campione di banche quotate.

Fin qui tutto bene. Durante il question time coi membri della Commissione sono emersi dei problemi di comunicazione tra Banca d’Italia e Consob. Li ha sollevati l’on. Augello [1:06:00], ricordando che BdI aveva riscontrato fin dal 2001 l’irrazionalità dei criteri di fissazione dei prezzi in BPVi. A detta del dott. Apponi, tale rilievo non è stato mai trasmesso alla Consob [1:15:30], pertanto la stessa Consob non era stata edotta dei vizi logici della procedura riscontrati dall’altra Autorità. Se ne prende atto, ma che dire del trattamento delle operazioni incriminate? Qui l’esponente di Consob dichiara di aver ricevuto nel 2013 comunicazioni da BdI che segnalavano prezzi sopravvalutati, ma precisa che non erano corredate da argomentazioni sull’arbitrarietà della metodologia con la quale erano ottenuti. La mancata comunicazione da via Nazionale è ribadita nella risposta all’on.Tancredi [1:23:05].

Il caso scoppia con la domanda dell’on. Zanetti [1:27:05], nella quale ci si meraviglia che una carenza delle procedure di pricing riscontrata da BdI nel 2001, nel 2008 e nel 2009 non fosse mai stata comunicata alla Consob. Emergerebbe così una mancanza della Banca d’Italia. La Consob riscontra e denuncia nel 2014 i vizi della metodologia, quando ormai i buoi erano "scappati e morti di vecchiaia". Zanetti conclude «Dobbiamo mandare a casa la Banca d’Italia o la Consob?».

Ma non è finita qui. Nell’intervento successivo, l’on. Paglia [1:32:04], per risolvere la contraddizione tra le due versioni, lancia l’idea di un confronto all’americana tra i rappresentanti delle due Autorità. Paglia torna sul fatto che BdI aveva segnalato a Consob nel 2013 il prezzo di offerta eccessivo. Questa comunicazione (a quanto appreso dal DG di Consob) è avvenuta secondo modalità [la mancata precedente segnalazione dei vizi metodologici] che l’hanno fatta ritenere non degna di seguito, il che sembra stravagante.

Non conosciamo la risposta che Apponi ha reso in forma segretata. In altri passaggi del suo intervento ha fornito elementi utili a chiarire il punto, rimarcando le diverse filosofie delle due Autorità: BdI, custode della stabilità, temeva che la sopravvalutazione portasse al fallimento degli aumenti di capitale e alla bocciatura da parte della Bce; Consob, paladina della trasparenza, non era preoccupata di questo, quanto della completezza delle informazioni sulle quali gli investitori potevano giudicare da loro stessi la congruità del prezzo.

La corrida all’italiana e il confronto all’americana

A quel punto gli animi si sono un po' scaldati. Dopo il «Chi buttiamo dalla torre?» di Zanetti, Paglia esterna: «La combo delle due esposizioni non mi è piaciuta. Questa meno dell’altra». Villarosa chiede conto dell’esposto Adusbef del 2008 che denunciava pressioni scorrette di BPVi per la vendita delle azioni, ma l’esponente Consob ammette di non conoscerlo. Del Barba (che poi pubblicherà con Bonifazi le dieci domande molto critiche sull’operato delle Autorità) apprezza la tenacia con cui Consob ha perseguito gli abusi, a differenza di BdI, ma riscontra la totale inefficacia dell’azione di entrambe. Giustifica poi la severità nel fare domande agli auditi come antidoto alla cattura del Parlamento [e magari, indirettamente, a quella delle Autorità]. Tabacci evoca le barzellette su Polizia e Carabinieri come metafora della collaborazione perfettibile tra BdI e Consob. Sul punto, nota l’assurda divergenza dal 2012 tra il prezzo delle azioni delle venete che saliva e l’indice settoriale di Borsa che scendeva. In proposito domanda le ragioni del mancato intervento della Consob: «Non vi è venuto in mente che quelle operazioni fossero volutamente opache per attrarre azionisti sulla base di informazioni tendenziose?».

Che giornata per il dott. Apponi! Prima tre ore di attesa per il protrarsi della seduta precedente, e poi questo fuoco di fila da tutte le parti. Sia pur affaticato, ha comunque risposto con garbo e serenità a tutte le obiezioni: la Consob non era investita dei poteri per bloccare gli aumenti di capitale; nei limiti delle sue funzioni ha assicurato una completa e corretta rappresentazione dei rischi delle azioni collocate.

Note
Dal canto suo Carmelo Barbagallo ha mostrato una notevole "resilienza" (per restare in tema con gli obiettivi della BdI), reggendo una sessione di cinque ore senza cali di concentrazione. Lo spiego anche con la sua formazione giuridica, che insegna a gestire un confronto dialettico su più piani attingendo a un repertorio di principi teorici e tecnici e a una gran massa informazioni fattuali e nozioni normative. Cosa che i laureati in economia (come me e il dott. Apponi) non sviluppano in uguale misura. L’uomo di legge emerge anche nell’argomentazione sui prezzi ammissibili delle azioni: un economista finanziario ha un’unica legge, quella del prezzo unico di equilibrio fissato dal mercato o da un agente razionale. Un giurista gli ribatte: dove sta scritto? Da nessuna parte. Nel codice sta scritto qualcosa di molto più preciso e vincolante: il prezzo lo stabilisce l’assemblea sovrana dei soci, che non è necessariamente un cenacolo di economisti finanziari e che può essere convinta dell’accettabilità di un prezzo divergente dall’equilibrio teorico. Questo può portare a decisioni nefaste? Sì, ma la devianza dal fair value non è argomento sufficiente, sul piano legale, a impedire le stesse decisioni. A proposito, anche Danièle Nouy e Sabine Lautenschläger sono laureate in giurisprudenza.

Alla fine la Commissione ha deciso di riconvocare, su richiesta di vari membri, tra cui il vice Presidente Brunetta [2:15:00], i capi operativi delle due Vigilanze per giovedì 9 novembre, per una sorta di incidente probatorio volto a riconciliare le versioni apparentemente discordi raccolte nella prima audizione sul punto delle azioni gonfiate e sulle altre cattive condotte delle banche venete.

Il dito e la luna

Non è un mistero, in Commissione prevalgono, per numero e intensità, le voci critiche verso Banca d’Italia, Consob o tutt’e due. La querelle sul prezzo delle azioni ha sollevato "la" questione: a che serve un’attività di supervisione, per di più specializzata per finalità e funzioni, nel momento in cui risulta incapace di intercettare condotte rischiose e a prevenirne gli effetti nefasti sui risparmiatori? Può l’inefficacia dipendere dall’insufficiente collaborazione tra via Nazionale e via Martini?

Dal punto di vista della Commissione banche, conta soprattutto verificare il nesso causale tra i presunti errori e omissioni delle Autorità e i grossi guai che sono capitati alla banche e ai risparmiatori. Ma davvero le Venete nel 2013 e 2014 sono state libere di raccogliere e poi bruciare più di un miliardo di euro perché Consob non sapeva della difettosa procedura di pricing delle azioni?

La verità giuridica (e quella politica) hanno molte facce

Basta il buon senso per rispondere "No!" all’ultima domanda. Ma un organo di inchiesta non può essere guidato dal comprensivo buon senso. La Commissione banche deve celare nel guanto di velluto dell’etichetta parlamentare il pugno di ferro di un procedimento paragiudiziario. L’audito sa di essere un potenziale inquisito. Nel caso delle due autorità questo è apparso con evidenza. Da qui lo stimolo a dimostrare la regolarità del proprio operato portando alla luce mancanze altrui. Sì, perché i convenuti sembrano stare sulla stessa barca, ma in realtà sono reciprocamente avversari.

Il tema «è colpa sua, non mia» diventa dominante quando la ricerca di uno o più responsabili decade a fine autonomo rispetto alla ricostruzione onesta dei fatti e dei nessi causali che li legano. Non dico che sia successo questo il 2 novembre, ma certamente alcuni membri della Commissione non hanno fatto mistero delle loro tesi accusatorie. Vedremo nel confronto del 9 novembre con quanta risolutezza queste saranno giocate per mettere in imbarazzo e in cattiva luce l’uno o l’altro supervisore. Perché una cosa è indignarsi della gravità dell’accaduto, un’altra imputarne ipso facto la colpa (grave) al controllore che non l’avrebbe impedito, dando per assodato che lo avrebbe potuto. È cosa fin troppo nota che alcuni membri della Commissione hanno a cuore gli interessi di colleghi di partito accusabili dall’elettorato e dall’opinione pubblica delle stesse colpe imputate agli auditi.

Come nell’affaire Dreyfus, quando è in gioco la ragion di Stato, o la difesa di partiti politici o istituzioni, la ricerca della verità passa in ultimo piano, anzi, viene estromessa dal dibattimento come un pericoloso fattore destabilizzante agitato da sognatori (in quel frangente fu accusato di esserlo Charles Peguy) che poi alla fine sarebbero anche loro manipolati. Prevale l’imperativo di aprire la strada verso la soluzione più conveniente alla propria parte e più dannosa per gli avversari. Questo percorso non è meno instabile, in quanto può biforcarsi in innumerevoli varianti che sarebbero logicamente incompatibili tra loro, ma che coesistono come insieme di alternative di compromesso, da mettere sul tavolo in ordine di preferenza decrescente "nella denegata ipotesi" che la soluzione ottimale rispetto ai propri interessi non venga accettata. Si formano per questo fine delle coalizioni strane tra attori che hanno obiettivi pratici agli antipodi, ma che si alleano per produrre un danno a un comune avversario.

Dinamiche di questo genere si vedono nel dibattito sulle crisi bancarie, e possono interferire pesantemente con i lavori della Commissione. Lo prova la convergenza di una parte del Pd che fa capo al segretario Renzi e del Movimento cinque stelle nell’attacco alla Banca d’Italia, tradotta nelle mozioni parlamentari avverse alla riconferma di Ignazio Visco. Strana compagnia tra il capo del Governo che recepì il bail-in e il partito che lo vorrebbe abolire.

Sanzionare, riformare e prevenire: è realmente possibile?

Chi alla fine deciderà sui colpevoli dei dissesti bancari? La Commissione non interagisce con un giudice indipendente, ma redigerà lei stessa una sorta di relazione istruttoria per il giudizio definitivo che sarà espresso dai cittadini nelle prossime elezioni politiche. Di qui la forte risonanza mediatica del dibattito nelle due direzioni, dalla Commissione verso l’opinione pubblica e viceversa.

C’è però un’opportunità per non cadere nella trappola della gogna mediatica fine a se stessa. La Commissione è espressione del Legislatore, e pertanto alla diagnosi raggiunta dovrebbe seguire una terapia di interventi sull’assetto delle Autorità di settore e sulle loro regole di funzionamento. Il punto non è tanto assicurare i colpevoli al giudizio popolare quanto eliminare le disfunzioni che sono emerse. Non è una cosa semplice. Anche per la ristrettezza dei tempi è probabile che ci si fermi alla diagnosi e alla proposta di sanzioni esemplari. Ma la terapia di riforma della Vigilanza (per quanto è nelle competenze della legge nazionale) riuscirebbe davvero a evitare il ripetersi di crisi bancarie?

Nelle audizioni i due esponenti di BdI e Consob hanno ammesso onestamente i limiti della loro possibilità di intervento. Nella risposta all’on. Paglia [2:54:10], Barbagallo ricorda l’estrema cautela che deve essere usata nel vietare o forzare le scelte gestionali delle banche, per non cadere in un’impostazione dirigista. Nell’assetto attuale, la Vigilanza ha in mano degli strumenti di prevenzione (non sempre efficaci) che agiscono sul contesto nel quale le banche prendono decisioni "sensibili". Parliamo del monitoraggio dei piani strategici, dell’organizzazione, del sistema dei controlli. Il controllo di merito avviene soltanto a priori attraverso un apparato normativo [sempre più invasivo, aggiungo io] che condiziona pesantemente le scelte di bilancio (pensiamo ai requisiti di capitale), il pricing e la comunicazione alla clientela. La Vigilanza può imporre il rispetto di queste norme. Si può obiettare che i Supervisori conservano un’ampia discrezionalità, gelosamente difesa dalla sig.ra Nouy, nel calibrare le richieste e le imposizioni ad bancam con lo SREP. La Vigilanza unica si è dotata di strumenti di rigore più incisivi sulla governance come il divieto a compiere specifiche operazioni e la rimozione dei vertici aziendali.

Dal canto suo anche Apponi ha spiegato come Consob possa regolare il flusso di informazioni riscontrabili verso il mercato, senza però assicurarne la veridicità né tanto meno estrarne giudizi e valutazioni prospettiche che competono agli investitori. Con la MIFiD 2 potrà brandire la product intervention (divieto della distribuzione di un prodotto giudicato nocivo per gli investitori o dannoso per l’integrità dei mercati o la stabilità del sistema). Come sempre il rimedio è arrivato dopo l’esplosione epidemica del male. Vedremo se potrà funzionare.

Può questo sistema rafforzato di regole e controlli prevenire efficacemente le crisi? Certo, dà ai supervisori il mandato per anticipare il momento dell’irruzione in forze nella banca già in difficoltà. Lo abbiamo visto anche nelle Venete, dove la pulizia drastica degli Npl con emersione ampia delle azioni baciate è cominciata nel 2015. Non sono sicuro che consenta di tenere a freno una banca che sta ancora nella fase ascendente della parabola di un business ciclico e rischioso. Anche qui, la strumentazione si è perfezionata (vigilanza macroprudenziale), ma restiamo ancora nel campo dell'intelligence e delle regole generali. Gli interventi ad hoc che legano le mani a specifiche banche per specifiche attività rimangono un’eccezione, e a maggior ragione quando inquadrano nel mirino banche importanti di paesi importanti (ovvio e forse abusato il riferimento a Deutsche Bank). Per quanto indipendente, la Supervisione è parte di una filiera normativa e istituzionale che risponde alla Politica, e quest’ultima alla fine risponde agli interessi organizzati del sistema bancario e imprenditoriale che si fanno sentire con moniti più imperiosi di quelli delle Autorità tecniche (le quali possono essere a loro volta catturate).

Quello che abbiamo appreso dall’esperienza post-crisi è che lo scandalo della mala gestio costringe a "fare qualcosa" e questo qualcosa è prima di tutto una solenne presa d’atto del problema nei forum internazionali (G20, Basilea, FMI, Ue) e poi una serie di misure per affrontarlo. Alla fine si risponde con un apparato di regole, principi di governance e buona gestione, funzioni di controllo amministrativo o interno. Un’enorme massa di carta. Il mercato può anche accettare l’ipertrofia regolamentare in quanto fonte a sua volta di business (per i provider di servizi professionali) e di vantaggi competitivi per i big rispetto alle banche minori. Non tollera però che le regole leghino le mani alle scelte di business, e laddove questo avviene cerca tutti i modi per eluderle con l’innovazione finanziaria o semplicemente trasgredendole finché riesce (come è accaduto in Veneto).

Ultima annotazione: la proliferazione di regole, funzioni e organi di controllo ha in sé il germe delle propria inefficacia. La frammentazione delle competenze, infatti, complica l’azione coordinata e soprattutto scarica i diversi attori dalle responsabilità sul risultato finale (evitare la crisi). Alla mala parata, ogni organo potrà dimostrare che ha svolto correttamente i processi di sua competenza. Tutti gli interventi sono riusciti, ma il paziente è morto. Un comune cittadino può restarne scandalizzato (ne abbiamo avuto un assaggio nelle audizioni del 2 novembre), ma non è colpa di nessuno in particolare, perché nessuno alla fine risponde della vita del paziente.

Lo stiamo vedendo anche nella tutela dalle cattive condotte bancarie e finanziarie, guarda caso ancora ripartita tra soggetti diversi (BdI vigila su trasparenza e correttezza dell’offerta di servizi bancari, Consob sui servizi di investimento con i dispositivi MIFiD, e poi c’è il mondo poco conosciuto dei prodotti assicurativi sotto l’egida dell’IVASS e di quelli previdenziali, appannaggio della Covip, il tutto abbracciato dalla competenza dell’Autorità della concorrenza in tema di pratiche commerciali scorrette). Nelle Venete si sono commessi degli abusi che tagliano trasversalmente i diversi ambiti, primo fra tutti il fenomeno delle azioni baciate che sono uno strumento (atipico) di raccolta di capitale incrociato con un finanziamento e con l’offerta di un prodotto di investimento. Chiaramente non funzionano presidi separati della presunta correttezza dei tre momenti nel momento in cui la criticità sta nella loro congiunzione con terribili implicazioni di conflitto di interessi, trasferimento di rischi sulla clientela e stabilità patrimoniale dell’intermediario.

La soluzione sta allora nella riunione delle competenze in un unico supervigilante? Paesi diversi adottano diverse soluzioni, e il dibattito teorico ha censito i pro e i contro dell’una e delle altre. Il merger potrebbe essere fattibile, e qualcosa del genere è accaduto per le assicurazioni con il passaggio delle competenze all’Ivass, ente subentrato all’Isvap proprio per integrare la vigilanza assicurativa con quella bancaria. Ma non aspettiamoci miracoli. Il vigilante non potrà svolgere un ruolo troppo invasivo in chiave di prevenzione di un male del quale non può riscontrare dei sintomi "oggettivamente" allarmanti. Sul piano pratico, la riorganizzazione delle competenze potrebbe comunque aver senso, se non altro per ottenere sinergie nell’impegno di risorse in capo ai vigilanti e ai vigilati.

La luna nera delle azioni con l’elastico che poi si rompe

Mi sono avventurato in riflessioni naïf in tema di diritto, campo che non è il mio. Mi serviva per far vedere quanto sia difficile per una Commissione d’inchiesta parlamentare raggiungere una verità giusta e condivisa. Torno ora nel mio seminato per verificare se la finanza può darci un sentiero più solido verso la meta che la regolazione o la politica non possono raggiungere.

Mi spinge in quella direzione una precisazione del dott. Apponi: all’on. Del Barba [2:01:00] faceva notare che la sopravvalutazione delle azioni era un fenomeno sistematico per tutte le banche non quotate (anche le non popolari). Non stiamo perciò parlando di un’irregolarità o di una frode perpetrata da un singolo, ma di una prassi normale in un comparto del sistema bancario. Il baratro, la luna nera che il dito nasconde, sono quindi collegati al modello di capital management delle banche non quotate (non solo popolari). Un modello che nasce con un tallone d’Achille fin dai tempi lontani di Luigi Luzzatti: la banca popolare all’italiana si differenzia dalla volksbank tedesca (e dalla versione italiana delle casse Raiffeisen/rurali) per la presenza di titoli di capitale a responsabilità limitata che pagano dividendi che sono normalmente proposti ai clienti che depositano i loro risparmi e soprattutto agli affidati che ottengono prestiti. Il secondo caso è proprio quello delle azioni baciate oggi assurte a sentina di tutti i mali, ma per lungo tempo accettate come forma di mutualizzazione del rischio di credito che tra l’altro produce un aggravio (meno piccolo di quanto appare) del costo del finanziamento netto. Ma, come in tutte le cose, est modum in rebus. Si può accettare che un risparmiatore abbia azioni della banca, ma in quota minoritaria sulla sua ricchezza. Va bene che un’impresa che ha bisogno di 100 si faccia erogare 104 e acquisti azioni per 4.

Queste azioni devono però passare di mano quando un cliente esce e l’altro entra. Ecco quindi la necessità di un mercato secondario, che alcune banche di questa tipologia hanno confinato nei propri sportelli e altre hanno portato nella piazza del mercato di Borsa, fin dai tempi del Mercato ristretto in piazza Affari. In entrambi i casi l’emittente ha un grosso potere nel "fare" il mercato (le regole sono cambiate nel tempo). Se non c’è il riscontro di una quotazione su liberi scambi, la banca può amministrare con molta discrezionalità il prezzo delle sue azioni, e potendolo fare diffonde nei soci l’attesa di impegnarsi a ricomprarle a quei prezzi. Si ha un bel dire che non può e non deve essere così, ma la banca finisce per vendere il prodotto "della casa" come il Kinder Pinguì, che nutre come una merenda (è sicura come un deposito) ed è buono come un gelato (rende come un’azione).

Questo modello regge in un contesto di buona redditività bancaria (con crediti sani) e crescita dei volumi intermediati, condizioni che assicurano buoni dividendi e un flusso netto di nuovi clienti-soci. Nelle condizioni incontrate dal 2009, e ancor di più dal 2012, i pilastri sono tutti e tre crollati congiuntamente. Il rintocco dell’ora delle tre streghe ha trasformato il dignitoso (per quanto già vulnerabile) modello Luzzatti in uno schema Ponzi: una massa di capitale che non si riesce più a remunerare, né a restituire, se non acquisendo nuova raccolta che si sa già in partenza farà una fine peggiore di quella in essere. Tutte le brutture sono venute fuori da lì: il credito a manetta, per avere una crescita dei volumi che nascondesse o diluisse il degrado dei crediti e per pompare i margini immediati; i prezzi gonfiati, per dare il messaggio che si mantenevano le promesse passate; la forzatura delle emissioni e dei ricollocamenti con la cattura di risparmiatori in spregio alla MIFiD e con l’abuso delle sottoscrizioni finanziate.

Se uno schema Ponzi traballa, l’orchestra del Ponzi di turno continua a suonare nel salone del Titanic e si cerca di non affondare finché si può, prima di tentare la fuga su una scialuppa (raramente ci si riesce). Alcuni membri della Commissione lo hanno capito con chiarezza nell’audizione dei risparmiatori truffati: i cattivi comportamenti erano regolati da politiche e procedure ordinate e strutturate dall’alto, non da pochi funzionari infedeli. Un sistema bancario capace di riorganizzare verso fini perversi i suoi canali distributivi è un problema serissimo (on. Paglia [50:20]). Nei commenti finali all’audizione di Consob, il vice Presidente Brunetta solleva di nuovo la questione: le cronache hanno fatto affiorare il peccato in 4 o 5 banche di territorio, ma il fenomeno rischia di essere più diffuso, cosa che mette i brividi. Come ha inciso sulla diffusione e sull’emersione della mala gestio la riforma delle Popolari? Come è possibile che simili condotte si siano diffuse senza possibilità di contrasto?

Già, perché le Autorità non sono state capaci di prevenire la degenerazione del modello di business delle banche poi dissestate? Avevo già abbozzato delle risposte qui e qui. Le sintetizzo: prima del patatrac è difficile dimostrare oggettivamente che lo schema è insostenibile. È difficile in caso di truffe conclamate (pensiamo a Madoff che cominciato negli anni novanta a fingere una gestione fasulla di patrimoni scoperta nel dicembre 2008), figuratevi quando lo schema Ponzi è la mutazione in Mr Hide di un rispettabilissimo Dr Jekyll che ha esercitato per anni la sua nobile professione. In secondo luogo, anche quando le Autorità vedono chiaramente il disastro in arrivo non si precipitano a premere il panic button (come spiego qui). Non lo fanno prima di aver messo in pista una soluzione che, nel 99% dei casi, è un bail-out. Il segreto d’ufficio è un’ulteriore motivo tecnico della mancata esternazione oppure consente di darne una giustificazione postuma.

Il costoso soprammobile delle perizie indipendenti

Torniamo sul punto tecnico del prezzo gonfiato e dei rilievi mossi al riguardo dalla Banca d’Italia. Questa puntata di Report dell’aprile 2016 racconta modo colorito quanto ripreso nelle audizioni del 2 novembre sui prezzi delle azioni BPVi (qui la trascrizione):

GIOVANNA BOURSIER
Come funzionavano le cose dentro la Popolare di Vicenza, Banca d’Italia lo sa dal 2001, quando durante un’ispezione sanziona i vertici perché il valore dell’azione non era ispirato da criteri di oggettività, ma deciso dai consiglieri della banca mettendosi d’accordo tra loro. Lo ribadisce nel 2008: “manca il parere di esperti indipendenti”. E nel 2009: “il prezzo non è adeguato alla redditività”. Nel 2011 arriva l’esperto, il prof. Bini della Bocconi, che alza il prezzo a 62 euro e 50.

AL TELEFONO MAURO BINI - UNIVERSITÀ BOCCONI
Io sono convinto che il titolo non fosse sovrastimato. Era un prezzo in realtà che veniva determinato sulla base in realtà dei piani aziendali e delle dotazioni patrimoniali delle banche.

GIOVANNA BOURSIER FUORI CAMPO
Quindi la banca è sempre solida fino a quando 2 anni fa a vigilare arriva la Bce e dice: le garanzie sui crediti non sono sufficienti, dovete aumentare il capitale. La perdita nel 2014 è di 758 milioni. A quel punto l’azione crolla.

GIOVANNA BOURSIER
Le hanno detto che non andava bene, per questo lei smette di fare la valutazione del prezzo, quando lo fa scendere a 48?

AL TELEFONO MAURO BINI - UNIVERSITÀ BOCCONI
Non posso dire questo. Nel senso in realtà che alla fine del 2013 le banche non potevano più utilizzare il fondo acquisto azioni proprie, che è quello che di fatto utilizzavano per regolare questi scambi.

Mauro Bini è uno stimato collega che ha fatto la Bocconi (e ha da poco compiuto 60 anni), come me. Non ho dubbi che abbia applicato per la sua perizia le metodologie più appropriate. Tuttavia, non ha forgiato lui i dati immessi in quei modelli, li ha recepiti dai piani aziendali e dalle dotazioni patrimoniali della banca (così come esposte nei bilanci e nelle segnalazioni di Vigilanza). Nella seconda risposta Bini accenna al vero motivo del cedimento del prezzo dal 2014: il blocco della movimentazione del fondo acquisto azioni proprie, lo strumento che consentiva di gestire le azioni come raccolta pronti contro termine, regolando i prezzi di riacquisto. Lo schema Ponzi di cui sopra. Ma il compito del perito non è quello di svelare gli schemi Ponzi bensì quello di fornire un parere indipendente sul nesso tra il prezzo poi approvato dall’assemblea e le ipotesi sulla redditività attesa e l’adeguatezza patrimoniale della banca, come da prescrizioni della Vigilanza. Il collega è figura ben nota nel mondo delle professioni, e un amico mi ha raccontato di una sua testimonianza di fronte a una platea di commercialisti. Se ho inteso bene (relata refero) Bini ha distinto tra la valutazione richiesta in una perizia indipendente e quella fatta da un investitore che ci mette i soldi, o li vuole realizzare con una vendita. La prima si dovrebbe più correttamente chiamare "calcolo valutativo" proprio perché, come detto, il perito non ci mette la materia prima (le ipotesi) e nemmeno la skin in the game. Il prezzo lui lo assevera, non lo negozia. Ancora una volta, come nel caso della Consob, non risponde della veridicità dei dati.

Note
Aggiungo il link a una breve sinossi di testi del collega Bini sugli standard di valutazione indipendente, segnalati da Carmine Catalano, un professionista che segue assiduamente come me questi temi sul suo profilo Facebook.

Alla luce di queste disincantate riflessioni, pensate ancora che la mancanza di un coerente modello di pricing stigmatizzata dalla Banca d’Italia nel 2001, nel 2008 e nel 2009, non comunicata (a quanto pare) alla Consob, e "rimediata" (abbiamo visto come) nel 2011, sia stata una delle cause sostanziali degli aumenti di capitale predatori del 2013 e 2014? Serve a qualcosa montarci sopra un confronto all’americana tra le due Autorità? Io non perderei del tempo a dissezionare il dito, quando sulla storia incombe una spettrale luna nera.

La vera questione: rispondere ai bisogni e al desiderio di giustizia

Bene, penso di essermi soffermato abbastanza sullo spunto delle azioni gonfiate. I lavori della Commissione banche non sono finiti. Non tiro nessuna conclusione. Abbozzo soltanto un’ipotesi forse utile per impostare correttamente il secondo confronto con Banca d’Italia e Consob fissato per giovedì 9 novembre. Un’ipotesi difensiva, se volete. Quando si fronteggia un rischio estremo, come è una crisi bancaria di portata sistemica, cercare una soluzione è più importante che lanciare subito l’allarme. La mancata rivelazione è una colpa quando nasconde l’inattività sul fronte degli interventi risolutivi. E' facile accertare quello che le Autorità sapevano, non altrettanto quello che potevano fare e che hanno fatto.

La mia è un’ipotesi, non una difesa d’ufficio: possono esserci state delle risposte tardive o inadeguate. Per prima cosa si indaghi sui condizionamenti che le hanno rese tali, che sono normalmente più d’uno. Li si censisca, mettendoli a sistema, senza accanirsi sull’uno o sull’altro perché funzionali all’una o all’altra tesi accusatoria. In chiaro: la domanda non si riduca a «chi è quel meschino che …​» ha recepito la Brrd, ha autorizzato i prospetti, ha dato sanzioni esigue, non ha commissariato, non ha informato la Consob o la Procura, non ha rinviato a giudizio, ecc., (l’elenco potrebbe continuare).

La Commissione, organo del Parlamento, sia a sua volta giudicata dai fatti e non dai pronunciamenti. Lo ripeto, può essere piegata a fini impropri, ma rimane uno strumento preziosissimo per capire e per affrontare in maniera più efficace, e concorde, le sfide alla stabilità finanziaria che ci aspettano, e le modifiche normative che possono aiutare a gestirle.

Titoli di coda: la sciarada grottesca di Federico Fubini

Nell’articolo uscito domenica 5 novembre sul Corriere, Federico Fubini passa ai raggi X quattro prospetti informativi di CariChieti, BancaMarche, Etruria e popolari Venete. Arriva alla conclusione raggiunta in Commissione banche: il dissesto era sotto gli occhi di tutti [non soltanto delle Autorità]

«La lettera rubata» di Edgar Allan Poe andrebbe probabilmente allegata ai fascicoli della Commissione parlamentare sulle banche. È la storia di un testo compromettente, sottratto per ricattare, che la polizia cerca ovunque senza successo.

Alla fine l’ispettore Dupin la troverà sul caminetto della casa del principale sospetto, mai notata proprio perché messa sotto gli occhi di tutti, come lo sono oggi i prospetti dei titoli delle banche finite in dissesto in questi anni. Più di tanti interrogatori-fiume, quei testi rivelano le difficoltà o i ritardi della Banca d’Italia e l’ignavia della Consob, ma soprattutto le omissioni dei governi (anche) in questa legislatura. Ne emerge che parte della distruzione di ricchezza deriva dall’incapacità della politica di adeguare la legge italiana alle comuni pratiche internazionali di protezione del risparmio.

I prospetti (tra cui il «capolavoro di omertà» di CariChieti) non dichiaravano le criticità che (lo si sapeva già) sarebbero emerse negli esercizi futuri. Lo facevano capire dicendo che non si aspettavano ripercussioni «almeno per l’esercizio in corso» e che non venivano formulate «previsioni o stime degli utili futuri». Le Autorità avrebbero potuto far inserire avvertimenti più espliciti e magari prendersi il rischio di ritardare o bloccare le operazioni. Possono essere state "tardive o ignave", ma non sono loro i responsabili ultimi:

Alla luce di quanto raccontano i prospetti di Banca Etruria, Veneto Banca e Popolare Vicenza, l’inquisizione parlamentare sulle autorità di vigilanza appare comunque una sciarada grottesca. La banca di Arezzo, in un caso emblematico (non unico) di fine 2013, precisa che la vendita dei suoi bond sono «destinate alla clientela» e «potranno essere sottoscritte dai soci». Vicenza e Veneto pubblicano prospetti con decine di pagine dedicate ad avvertenze sui conflitti d’interesse della banca che vende i bond: l’istituto gestisce il risparmio del cliente, ma gli piazza la stessa carta con cui si finanzia, calcola da solo le cedole, fa da intermediario. Nel gergo internazionale questo si chiama "self-dealing", abuso delle funzioni fiduciarie del gestore per avvantaggiare se stesso a danno del cliente. Ed è illegale. Per debellare il rischio, da cui è discesa molta della distruzione di ricchezza di questi anni, sarebbe bastato poco: un decreto di due righe in cui si vieti alle banche di piazzare i propri titoli ai clienti - deve poterlo fare solo un soggetto indipendente - e si impedisca loro di mirare a chi si è già esposto con depositi o capitale nella stessa azienda di credito. Non è mai stato fatto. Né dal governo di Enrico Letta, né da quello di Matteo Renzi, né da quello di Paolo Gentiloni.

Già, il self-dealing, o self-placement. Un campo minato. Non è però così scontato che sia messo al bando nelle "comuni pratiche internazionali di protezione del risparmio". RBS, Bankia, ricordano niente? Ok, niente benaltrismo. Vediamo che cosa dice la normativa. La pratica in questione è chiaramente intercettata e scoraggiata dalla MIFiD 2 (che non è ancora in vigore) laddove impedisce di trattare il collocamento di propri prodotti come semplice esecuzione di ordini su iniziativa del cliente. Eba ed Esma hanno emanato nel 2014 delle linee guida molto chiare sul self placement di propri prodotti tra i clienti retail, che devono essere tutelati specialmente in presenza di forti pressioni sulla banca a ricapitalizzarsi. Giustissimo. Peccato che il sistema finanziario italiano sia storicamente bancocentrico. La banca one-stop shop è la regola, sulla quale si basa la raccolta a medio termine, il mercato del risparmio gestito (e di buona parte di quello assicurativo e previdenziale) e la raccolta di capitale. Dobbiamo percorrere un lungo esodo da questa terra divenuta paludosa verso un nuovo assetto che va costruito. Le linee guida sono chiare e scarosante, ben vengano le Autorità europee che le sollecitano. Ma non è un problema di compliance normativa. È un lavoro gigantesco da fare.

Secondo voi, davvero il Governo poteva proporre e il Parlamento approvare nel 2014 un decreto d’urgenza che rendeva tassative le cautele e le limitazioni al self-placement? Come avrebbe reagito l’industria bancaria? Avrebbe chiesto tempo. Come sta chiedendo tempo per adeguarsi ai requisiti Mrel che vanno ad impattare sulla raccolta obbligazionaria.

I giornalisti che seguono i lavori della Commissione banche hanno una grande responsabilità. Se solo possono, non partecipino anche loro alla "sciarada grottesca" (che suona come la ca..ta pazzesca del rag. Fantozzi). È un gioco che non finisce mai: la colpa non è dei banchieri, è della Banca d’Italia, no è della Consob, no è ancora della Banca d’Italia, no è della Bce, no è della DG Comp, no è del governo del 2012, no del governo del 2013, no di quello del 2014, no è dell’industria bancaria. O forse è colpa dei giornalisti mainstream, che non hanno denunciato per tempo i guai in gestazione come ha fatto una minoranza di cronisti investigativi. O dei professori di finanza, che non hanno fatto ricerca applicata all’altezza dei cambiamento d’epoca e si sono limitati a compendiare acriticamente il moloch normativo di Basilea. Senza dimenticarsi di chi ha ispirato e soprattutto tratto profitti (o scaricato perdite) operando con le banche dissestate: i grandi prenditori large corporate dell’immobiliare e di altri settori dove si concentrano le posizioni in sofferenza; i consulenti con entrature nei CdA che li hanno assistiti; i bancarottieri "strategici" che hanno scientemente messo in ginocchio centinaia di Pmi fornitrici, anche sfruttando le maglie larghe del concordato in bianco; e via discorrendo. Materia da PM, senza dubbio. L’altra luna nera del mazzo di tarocchi la si pesca qui.

Chi ha commesso dei reati, o delle gravi negligenze, va sanzionato. È meno facile di quanto sembri, e comunque non aiuta più di tanto a ristorare chi ha subito ingiustamente danni e sofferenza morale. Il vero problema non è dimostrare di essere senza peccato, è come si fa ad andare avanti.

Scusate la lunghezza. Ci risentiamo dopo l’audizione di giovedì.

Luca Erzegovesi
Luca Erzegovesi
Professore di Finanza aziendale

Mi interesso di finanza delle Pmi, crisi bancarie e nuovi modelli di business bancari.

Correlato