Abstract
Dal 2007 le performance di Borsa delle azioni bancarie italiane hanno avuto un andamento molto negativo. Dal gennaio 2007 al dicembre 2016, l’indice Thomson Reuters Total return TRI Italy-financials è sceso del 67,5%, un calo molto più forte rispetto sia al TRI Europe-Financials (-38,1%) e al TRI Italy (-30,9%). La mediana del multiplo Price/Tangible Book value per share di un campione di banche italiane quotate è scesa da 1,85 a fine 2007 a 0,41 a fine 2016. Investire capitale in una banca equivale, con multipli di valutazione inferiori a 0,5, a distruggerne più della metà del valore. La fragilità delle quotazioni dell'equity ha ostacolato la ricapitalizzazione sul mercato delle banche che erano pressate dalle Autorità a ripristinare i loro margini di solvibilità.
Questo paper tratta le tecniche di valutazione delle azioni bancarie adottate dagli investitori nell’attuale quadro regolamentare e macrofinanziario. Scopo dell’analisi è quello di dare ragione dell’andamento fortemente erratico dei prezzi delle azioni bancarie, tanto sul mercato di Borsa, quanto nelle operazioni di aumento di capitale, individuando nel contempo le leve sulle quali agire per migliorare i parametri di valutazione. Il tema è trattato in due paper collegati. La prima parte, svolta in questo lavoro, tratta del quadro regolamentare e dei casi di ricapitalizzazione sul mercato da parte di banche che non versano in situazione di crisi conclamata; ci si concentra pertanto sul valore di mercato del CET1, la componente di capitale primario di una banca. La seconda parte tratterà i casi di risanamento e risoluzione delle banche in dissesto o a rischio di dissesto, insieme con la valutazione degli strumenti di capitale addizionale (AT1) e supplementare (T2).
Si inquadra dapprima la regolamentazione prudenziale vigente in materia di requisiti di capitale, caratterizzata da continue innovazioni della normativa e delle prassi di supervisione, che avvengono in una fase storica di cambiamento dei modelli di business. Si trattano poi i criteri di misurazione del capitale richiesto e del capitale disponibile, la cui differenza misura un eccesso o un ammanco di capitale che impatta sul valore delle azioni. Chiariti i vincoli regolamentari, si propone un approccio valutativo semplice e immediatamente riscontrabile con le quotazioni di mercato, basato sul multiplo di valutazione Prezzo/Patrimonio netto tangibile per azione (PB). Dopo un riassunto dei concetti fondamentali per la valutazione degli aumenti di capitale, il modello del PB viene adattato per esplicitare l’effetto dei fabbisogni di capitale sulla valutazione di mercato di una banca che non versa in una situazione di crisi palese e che si rivolge al mercato per reperire le risorse mancanti. Si trattano in particolare l’impatto dei crediti deteriorati in eccesso e gli interventi di riorganizzazione del modello di business. La descrizione dei modelli è corredata da due esempi esplicativi relativi alle banche popolari venete ricapitalizzate dal Fondo Atlante nell’aprile e nel giugno 2016 e all’operazione del gruppo Unicredit annunciata nel dicembre 2016 e attuata nel febbraio 2017.
Affinare i modelli di valutazione delle azioni aiuta nella diagnosi e nella soluzione dei problemi delle banche sottocapitalizzate. Rimedi apparentemente risolutivi possono rivelarsi impraticabili. Un’analisi rigorosa consente di accertare preventivamente la loro inefficacia. I modelli aiutano inoltre a stimare il rapporto tra costi e benefici degli interventi che fanno uso di fondi pubblici e consortili, mettendo in luce la redistribuzione di valore tra gli attori coinvolti.

Avvertenza: questa pubblicazione ha uno scopo didattico. È stata scritta per divulgare nei confronti degli operatori, dei media e degli studenti universitari una metodologia coerente per valutare le azioni bancarie nell’attuale contesto regolamentare e di mercato.
Gli esempi riportati servono per mostrare l’applicazione pratica dei modelli di valutazione e non rappresentano raccomandazioni di investimento, né veicolano giudizi di merito sulla qualità del management e sul valore delle banche considerate.
Si tratta di un work in progress. Commenti e osservazioni sono benvenuti, così come segnalazioni di casi e informazioni interessanti per arricchire gli esempi riportati e svilupparne di nuovi.
Contatti: luca.erzegovesi@unitn.it, twitter:@lerzegov

1. Introduzione

Dal 2007 le performance di borsa delle azioni bancarie italiane hanno avuto un andamento molto negativo. Dal gennaio 2007 al dicembre 2016, l’indice Thomson Reuters Total return TRI Italy-financials è sceso del 67,5%, un calo molto più forte rispetto sia al TRI Europe-Financials (-38,1%) e al TRI Italy (-30,9%) (v. Figura 1).
L’indice subisce un calo forte e progressivo nel periodo iniziale, fino al punto di minimo segnato a inizio marzo 2009. Tale fase è dominata dalla maturazione e dal successivo scoppio, nel settembre 2008, della crisi finanziaria globale, con ricadute drammatiche sull’economia e sui mercati finanziari internazionali nei mesi successivi. In questa fase tutti i tre indici considerati subivano un crollo: i settori Financials perdevano tre quarti del loro valore in Italia così come in Europa, facendo peggio della Borsa italiana. Successivamente, l’indice Italy-financials ha stabilmente fatto peggio degli altri due, recuperando di meno nel 2009, e tornando a perdere terreno dalla metà del 2010 alla metà del 2012. Nella successiva ripresa fino al maggio 2015 il divario non si è ridotto, per poi ampliarsi nuovamente nella fase negativa tra maggio 2015 e luglio 2016: in quel periodo l’indice TRI Italy-financials è sceso del 52,3%, più del TRI Europe-Financials (-31,5%) e del TRI Italy (-29%); nonostante il sucessivo recupero, rimane il peggior performer tra inizio e fine 2016 (-28,7% contro, rispettivamente, -5,1% e -8,3%).

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Figura 1. Andamento degli indici azionari di Total return

Fonte: Thomson Reuters Total return indices. Base=100 al 5 gennaio 2007. Dati settimanali.

Per effetto della caduta più accentuata delle loro quotazioni, i titoli bancari hanno perso rilevanza nella capitalizzazione delle società quotate al Mercato Telematico Azionario della Borsa Italiana: la loro quota è scesa dal 29,6% a fine 2007 al 16,6% a metà 2016 (v. Figura 2).

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Figura 2. Quota del settore bancario sulla capitalizzazione della Borsa Italiana

Fonte: Mediobanca (2016), tabella IV.

Molti fattori spiegano questa distruzione di valore, ancora più evidente se si confronta la capitalizzazione di borsa con il valore contabile del patrimonio netto delle banche: la mediana del multiplo Price/Tangible Book value per share di un campione di banche quotate è scesa da 1,85 a fine 2007 a 0,41 a fine 2016. Investire capitale in una banca con caratteristiche mediane equivale, con multipli di valutazione inferiori a 0,5, a distruggerne più della metà del valore. La media dello stesso multiplo ponderata per la capitalizzazione di borsa scende da 2,28 a fine 2007 a 0,73 a fine 2016, toccando un minimo di 0,49 a fine 2011 (v. Figura 3).

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Figura 3. Andamento del multiplo Price/Tangible Book value per share per un campione di banche quotate

Fonte: Nostre elaborazioni su quotazioni di Borsa e dati di bilancio, fonte Thomson Reuters-Eikon. Il campione comprende: Banca popolare dell’Emilia Romagna,Banca Popolare di Sondrio, Banca popolare di Milano, Cassa di risparmio di Genova, Credito Emiliano, Credito Valtellinese, Intesa Sanpaolo, Monte dei Paschi di Siena, UBI Banca, Unicredit. Sono state escluse le banche (come Banca Mediolanum, Mediobanca e Fineco Bank) orientate verso i servizi di investimento e la gestione del risparmio.

Il crollo dei multipli Price/Book value rispetto ai livelli pre-crisi superiori a 2 è un fenomeno globale (v. Figura 4). Tuttavia, i sistemi bancari hanno mostrato una capacità di ripresa molto differenziata: gli Stati Uniti sono tornati dal 2012 su livelli superiori all’unità, mentre l’Eurozona e il Giappone presentano valori di mercato ancora scontati rispetto ai valori di libro.

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Figura 4. Andamento del multiplo Price/Book value per macroaree geografiche

Fonte: International Monetary Fund (2017), Figura 1.22.2

Accanto al mercato di Borsa, opera un mercato dell'equity delle banche popolari e di altre banche non quotate animato dagli stessi emittenti. Questi per molti anni hanno applicato alle compravendite di azioni proprie prezzi stabili o crescenti, così come deliberati dalle assemblee sociali su proposta degli amministratori. I multipli Price/Tangible book value calcolati in base a prezzi così determinati sono risultati nel tempo maggiori, con un divario crescente, rispetto a quelli delle popolari quotate (v. Figura 5).

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Figura 5. Andamento del multiplo Price/Tangible Book value per share per banche popolari non quotate e quotate in Borsa

Fonte: Nostre elaborazioni su quotazioni di Borsa e dati di bilancio, fonte Thomson Reuters-Eikon, bilanci di esercizio e documenti societari.

I vertici delle banche che parevano beneficiare di questa prodigiosa tenuta del valore dell'equity la giustificavano per il fatto di non essere esposti all’abnorme volatilità dei mercati, letta come una circostanza passeggera e al fondo irrazionale. Così argomentava nel 2010 Vincenzo Consoli, amministratore delelgato di Veneto Banca [2]:

Veneto Banca vale 3,3 miliardi di euro e non ha alcuna intenzione di quotarsi a Piazza Affari perché la borsa «non dà stabilità» ai titoli azionari. È quanto ha affermato Vincenzo Consoli, amministratore delegato di Veneto Banca Holding, nel corso della presentazione dei risultati 2009. Secondo il banchiere «Veneto Banca vale circa 3,3 miliardi di euro, 2,7 miliardi sono di patrimonio e poi ci sono 600 milioni di avviamento». Dal 2008, ha sottolineato, «le azioni Veneto Banca hanno reso anno dopo anno mediamente il 10,38 per cento che è un grandissimo rendimento e che è stato fatto su un’azienda solida, sana, tranquilla, che non porta alle preoccupazioni che hanno le aziende quotate quando il mercato si deprime e all’euforia quando il mercato va bene». Si tratta, ha proseguito, di un «titolo che rende bene e che ha un valore importantissimo che è la stabilità». «Come è possibile - si è domandato Consoli - che nel giro di qualche mese il titolo Unicredit passi da 7 a 0,56 euro?».

In realtà, a dispetto dell’interpretazione ai tempi fornita del banchiere di Montebelluna, con il calo dei prezzi di borsa, i mercati avevano segnalato la vulnerabilità di alcune banche italiane agli shock macroeconomici (recessione e deflazione) in un quadro di accresciuta avversione al rischio degli investitori. Questa vulnerabilità era per giunta aggravata dai noti problemi strutturali del settore bancario: il peso eccessivo dei crediti deteriorati, le reti distributive sovradimensionate e costose, il ritardato ricambio degli assetti proprietari e di governance.

Le politiche fortemente espansive della Banca Centrale Europea iniziate nel giugno 2012 non sono state sufficienti a compensare questi fattori di debolezza: se da un lato hanno sorretto efficacemente i prezzi dei titoli sovrani, dall’altro hanno determinato tassi bassi o negativi che hanno compresso il margine di interesse, principale fonte di reddito per gli intermediari creditizi con modelli di business tradizionali. Inoltre, le nostre banche detengono una quota delle emissioni sovrane domestiche nettamente superiore a quella rilevata per le banche francesi, o tedesche. Ciò determina in Italia una pericolosa interdipendenza tra rischio sovrano e solvibilità bancaria: questa vulnerabilità è stata una delle cause principali della perdita di valore di Borsa delle nostre banche nella fase acuta della crisi del debito sovrano a cavalllo tra il 2011 e il 2012. Negi anni seguenti è passata in secondo piano, ma resta un nodo da sciogliere.

Non sono soltanto le Borse a sottoporre ad esame le banche italiane. Il quadro di vigilanza prudenziale introdotto da Basilea III e applicato con rigore nel Meccanismo di Vigilanza Unico (MVU) europeo impone il rispetto di requisiti patrimoniali accresciuti rispetto al precedente regime, da soddisfare in via prevalente con capitale di migliore qualità (Common equity Tier 1 o CET1). Le banche sono tenute a detenere capitale in eccesso rispetto ai requisiti minimi fissati dal cosiddetto Primo Pilastro del framework di Basilea. La Banca Centrale Europea (BCE), posta al vertice del MVU, in collaborazione con l’Autorità Bancaria Europea (European Banking Authority, EBA), ha esercitato pressioni nei confronti delle banche "significative" sottoposte alla sua supervisione. A partire dal Comprehensive assessment del 2014 [3], alcune banche italiane sono state sollecitate a ricapitalizzarsi per ripianare le perdite emerse o latenti nei bilanci e per fronteggiare quelle potenzialmente emergenti negli scenari avversi degli stress test.
Nel proprio ambito di competenza, la Banca d’Italia ha esercitato analoghe pressioni nei riguardi delle banche "meno significative".

Il controllo assiduo e proattivo dell’adeguatezza patrimoniale di tutte le banche vigilate è un elemento essenziale dell’attività di supervisione prudenziale (Secondo Pilastro di Basilea) che si svolge mediante il processo SREP [4] e con l’attività ispettiva in loco. Nell’ambito della supervisione prudenziale le Autorità stabiliscono requisiti aggiuntivi rispetto a quelli di Primo pilastro

Le banche giudicate fragili o a rischio di dissesto non possono ricapitalizzarsi a loro piacimento, ma devono rispettare i tempi e i modi indicati dalle autorità, attenendosi alle procedure di risanamento o di risoluzione stabilite in funzione della gravità della crisi dalla Direttiva europea sul risanamento e la risoluzione delle banche, la cosiddetta BRRD (European Union, 2014). Inoltre, l’intervento non deve configurare aiuti di Stato non ammessi dalla Comunicazione in materia della Commissione Europea dell’agosto 2013 (European Commission, 2013).

In forza di tale impianto normativo, una banca che necessita di un rafforzamento del capitale deve per prima cosa esplorare con priorità le soluzioni di mercato, rappresentate principalmente da aumenti di capitale azionario.
Talora le soluzioni di mercato non sono percorribili perché la crisi è a uno stadio troppo avanzato, o perché gli stakeholder vi si oppongono, o perché non si trovano investitori interessati. In casi del genere, la banca può richiedere apporti di capitale "non di mercato" provenienti dallo Stato, dal Fondo Interbancario di Tutela dei Depositi e dalle analoghe forme di sostegno mutualistico previste tra le banche di credito cooperativo [5]. Per il principio del burden sharing una banca non può ricevere supporto esterno dallo Stato e dai sistemi di garanzia dei depositi di natura obbligatoria se prima non coinvolge nel risanamento patrimoniale gli azionisti, sottoposti alla riduzione (write-off ) dei loro titoli e i titolari di altri strumenti di capitale e di obbligazioni subordinate, sottoposti alla riduzione o alla conversione in azioni.

Dal 1° gennaio 2016 si applica una forma rafforzata di burden sharing che impone il bail-in, cioè la riduzione o la conversione in azioni di una quota del debito non assicurato o garantito (che comprende principalmente le obbligazioni non garantite e i depositi non coperti dall’assicurazione obbligatoria). Dopo aver fatto pagare lo scotto del burden sharing e, qualora necessario, del bail-in, la banca può accedere alle forme di sostegno pubblico prima ricordate e ad altre previste dalla BRRD, come i Fondi di Risoluzione nazionali, il Fondo di risoluzione europeo o gli interventi in caso di crisi sistemiche dell'European Stability Mechanism.

La fragilità delle quotazioni dell'equity ha vanificato diversi tentativi di ricapitalizzazione sul mercato.

Nei mesi di aprile e giugno 2016, non hanno avuto successo le operazioni di due istituti non quotati, Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca, entrambi trasformati in SpA al fine di accedere alla quotazione in Borsa. Le azioni di nuova emissione sono state pressoché integralmente sottoscritte dal Fondo Atlante [6], un fondo chiuso appositamente costituito su iniziativa dei maggiori gruppi bancari, a un prezzo in entrambi i casi pari a 0,10 euro per azione. Nei precedenti aumenti di capitale effettuati nel 2014, il prezzo di collocamento dei titoli di nuova emissione era, rispettivamente di 62,5 e di 36 euro [7].
Le due popolari venete non sono state ammesse alla quotazione in Borsa per mancanza del requisito di flottante. Nei mesi successivi il nuovo socio di controllo ha riscontrato carenze patrimoniali ben più gravi di quelle rappresentate al momento dell’offerta al pubblico. I vertici strategici intendono risolvere la situazione con la fusione tra i due istituti unita alla ricapitalizzazione precauzionale da parte dello Stato prevista dalla BRRD all’articolo 32.4, d-iii, a cui fa riferimento il DL 23 dicembre 2016, n. 23 (c.d. "Salva-risparmio") [8]

Con la stesso tipo di intervento statale si intende risolvere la carenza di capitale contestata dalla BCE al Monte dei Paschi di Siena con l’esercizio di stress test del 2016 [9]. Infatti la complessa ricapitalizzazione sul mercato di questo istituto, tentata fra il 19 e il 21 dicembre 2016 [10], non è andata a buon fine. Prima di tale operazione, il prezzo di Borsa delle azioni della banca senese era sceso da 123,20 euro a fine dicembre 2015 a 18,7 euro a fine ottobre 2016, con la successiva sospensione dalle quotazioni a un prezzo di 15,08 in data 23 dicembre 2016 [11].

Pochi mesi dopo, nel febbraio 2017, ha avuto fortuna migliore l’operazione del gruppo Unicredit da 13 miliardi di euro [12].

Con questo paper non ci si propone di approfondire i molti problemi sopra evocati che ripropongono con urgenza la "questione bancaria" (Penati, 2013) oggi in Italia. L’oggetto che si intende trattare è più circoscritto, e concerne le tecniche di valutazione delle azioni bancarie adottate dagli investitori nell’attuale quadro regolamentare e macrofinanziario. Scopo dell’analisi è quello di dare ragione dell’andamento fortemente erratico dei prezzi delle azioni bancarie, tanto sul mercato di Borsa, quanto nelle operazioni di aumento di capitale, individuando nel contempo le leve sulle quali agire per migliorare i parametri di valutazione.

Il tema scelto sarà trattato in due parti mediante due paper tra loro collegati:

  • la prima parte, svolta in questo lavoro, tratta del quadro regolamentare sui requisiti di capitale, dei modelli fondamentali di valutazione delle azioni, e dei casi di ricapitalizzazione sul mercato da parte di banche che non versano in situazione di crisi conclamata; ci si concentra pertanto sul valore di mercato del CET1, la componente di capitale primario di una banca.

  • la seconda parte, che si prevede di pubblicare entro luglio 2017, tratterà la normativa sulla gestione delle crisi bancarie e la valutazione delle azioni nei casi di risanamento e risoluzione delle banche in dissesto o a rischio di dissesto; in quella sede saranno inclusi nel quadro valutativo gli strumenti di capitale diversi dalle azioni facendo uso di modelli di tipo "strutturale" [13] per la valutazione del "capitale investito" di una banca a fronte di una struttura finanziaria composita fatta di CET1, altri strumenti di capitale e passività più esposti al rischio di impresa, come le obbligazioni soggette a bail-in.

Questa prima parte ha la seguente struttura.

Nella prima sezione si inquadra la regolamentazione prudenziale vigente in materia di requisiti di capitale, evidenziando la stratificazione di richieste e obblighi scaturenti dalle regole di Primo pilastro, da quelle sui buffer macroprudenziali, dalle indicazioni ad hoc trasmesse dalla supervisione prudenziale (SREP), e dalle regole ulteriori che prescrivono dotazioni minime di capitale e passività attivabili per risanare le banche in crisi (requisiti TLAC per le banche sistemiche di rilevanza globale e requisiti MREL stabiliti dalla direttiva BRRD dell’UE). Emerge come l’adeguatezza del patrimonio sia oggi per una banca un traguardo in movimento, a causa delle continue innovazioni della normativa e delle prassi di supervisione, che tra l’altro avvengono in una fase storica di cambiamento dei modelli di business. Sotto queste continue perturbazioni non è facile riconciliare i volumi e il mix del capitale minimo da detenere con la dotazione di capitale disponibile. Aumenta la probabilità di incorrere in carenze di capitale che devono essere prontamente sanate col ricorso al mercato. In ogni caso, le banche si trovano vincolate nelle politiche dei dividendi. Questo impatta sui flussi di cassa attesi dagli azionisti e quindi sul valore di mercato dell'equity.

Nella seconda sezione si esaminano i criteri di misurazione del capitale richiesto e del capitale disponibile. La differenza tra queste due grandezze esprime, se positiva, un fabbisogno di capitale da colmare che impatta negativamente sul valore delle azioni. Si considerano, nell’ordine, i principi contabili IFRS, la formazione del capitale disponibile (con un approfondimento sulle componenti da dedurre per deferred tax asset e i c.d. filtri prudenziali per redditi non realizzati sul portafoglio titoli di Stato AFS), la determinazione del capitale richiesto dalla normativa e dal processo di supervisione per le varie tipologie di rischio (con un focus sugli stress test), per concludere con un modello che interpreta la formazione del capital gap (\$KGAP\$), ovvero del divario tra capitale richiesto e disponibile.

Nella terza sezione, dopo una breve rassegna dei modelli del prezzo delle azioni bancarie secondo approcci basati sui flussi attesi dell'equity, si propone un approccio valutativo semplice e immediatamente riscontrabile con le quotazioni di mercato, basato sul multiplo di valutazione Prezzo/Patrimonio netto tangibile per azione (indicato col simbolo \$PB\$) [14]. Secondo il modello proposto, il valore dell'equity (\$E\$) si ottiene come

\$E = PB_e xx K - KGAP\$,

dove \$PB_e\$ è il multiplo di valutazione applicato al capitale richiesto \$K\$ per determinare il valore \$PB_e xx K\$ che la banca si vedrebbe riconoscere se operasse con una dotazione di capitale uguale a quella richiesta; a tale valore si sottrae la differenza tra capitale richiesto e capitale disponibile \$KGAP\$, che porta a ridurre il valore dell'equity in presenza di un ammanco di capitale (\$KGAP>0\$) e ad aumentarlo nel caso di eccedenza di capitale (\$KGAP<0\$). Il multiplo di equilibrio \$PB_e\$ riflette la differenza tra il \$ROE\$ atteso e il rendimento adeguato per il rischio richiesto dagli investitori.

La quarta sezione ha una funzione di utilità, che consiste nel riepilogare alcuni concetti fondamentali di valutazione delle azioni nel corso di aumenti di capitale. Si distingue tra cash offer e rights offer, trattando nel secondo caso la discontinuità dei prezzi causata dallo stacco del diritto d’opzione. Si evidenzia il nesso tra valutazione fondamentale del capitale netto e impatto dell’operazione sul prezzo e sulla composizione dell’azionariato, oltre che sulla diluizione dei vecchi azionisti.

Nella quinta sezione il modello del multiplo \$PB\$ viene adattato per esplicitare l’effetto dei fabbisogni di capitale sulla valutazione di mercato di una banca che non versa in una situazione di crisi palese e che si rivolge al mercato per reperire le risorse mancanti. Tecnicamente, si desume la formazione del multiplo \$PB_o\$ osservato dalle quotazioni di Borsa e dal valore corrente del capitale proprio tangibile. Dato \$PB_e\$, \$PB_o\$ riflette le perdite latenti nel bilancio della banca \$XLOSS\$ e gli effetti degli interventi di ristrutturazione che il mercato giudica necessari per farle emergere e coprirle.
Quando le perdite latenti sono dovute a crediti deteriorati esposti in bilancio con rettifiche inadeguate rispetto alle perdite attese, \$PB_o\$ può essere spiegato dal CET1 ratio (\$sr_A\$) e dal Texas ratio [15] (\$tr_A\$) rilevati per la banca e confrontati con i rispettivi valori congrui \$sr_R\$ e \$tr_R\$:

\$ PB_o = 1 - (tr_A - tr_R) - (1-PB_e) {sr_R}/{sr_A} \$

Si evidenzia in tal modo come lo sconto rispetto all’unità del \$PB_o\$ osservato, dato il livello di equilibrio \$PB_e\$, sia spiegato dal fabbisogno di capitale richiesto per (a) innalzare il solvency ratio da \$sr_A\$ a \$sr_R\$ e (b) abbassare il Texas ratio corrente da \$tr_A\$ al livello congruo \$tr_R\$. Mentre il primo effetto incide "alla pari" sul \$PB_o\$, il secondo è modulato dal multiplo di equilibrio \$PB_e\$: quando questo è inferiore all’unità si accentua l’effetto depressivo sui valori di mercato di un CET1 ratio inferiore alla soglia target (\${sr_R}/{sr_A} > 1\$).

In un mercato che attribuisce valori modesti alle banche gravate da alti \$KGAP\$ e bassi multipli di valutazione non è scontato che una banca possa reperire con un aumento di capitale le risorse necessarie per tornare pienamente solvibile. Si dettagliano le condizioni alle quali questo può avvenire a prezzi di equilibrio e il correlato effetto di diluizione della quota di partecipazione detenuta dai soci attuali. Si considera anche il caso di un aumento di capitale sottoscritto a prezzi superiori all’equilibrio da soggetti di natura pubblica o consortile che sono disposti a concedere un sussidio ai soci esistenti.

Per risollevare il valore di mercato di una banca, e rendere così possibile una ricapitalizzazione senza sussidi, occorre comunicare un convincente piano di riorganizzazione del suo modello di business. Un piano di riassetto tipico dovrebbe avere i seguenti ingredienti: emersione di perdite da realizzo o altri oneri straordinari per ristrutturazione della rete ed esuberi del personale che riducono il capitale tangibile \$TC\$ e aumentano il \$KGAP\$; produzione di utili da realizzo di attività (tipicamente partecipazioni) che incrementano il capitale tangibile \$TC\$ e riducono il \$KGAP\$; riduzione degli \$RWA\$ per gli interventi sul volume e sulla composizione degli attivi, e conseguente riduzione del fabbisogno di capitale \$K\$ e di \$KGAP\$; aumento del multiplo di equilibrio \$PB_e\$ per gli effetti del piano sulla redditività attesa del capitale proprio.

Sommando tali effetti, si arriva a interpretare la creazione di valore di mercato dell'equity per effetto del piano con la seguente formula di scomposizione della variazione di \$E\$ al netto dell’aumento di capitale:

\$varE - C = varPB_e K_a - (1 - PB_{e,p}) varK - IC + PLUSMINUS - newXLOSS\$

dove \$varE\$ è la variazione della capitalizzazione di borsa, \$C\$ l’importo sottoscritto con l’aumento di capitale, \$varPB_e\$ è la variazione del multiplo di equilibrio conseguente al gradimento (o meno) del piano da parte del mercato, \$K_a\$ è il capitale richiesto in assenza del piano, \$PB_{e,p}\$ è il multiplo \$PB\$ modificato dal piano, \$varK\$ è la variazione di \$K\$ prodotta dal piano, \$IC\$ sono i costi di emissione dell’aumento di capitale, \$PLUSMINUS\$ è il saldo tra profitti e perdite una tantum prodotte dal piano e \$newXLOSS\$ sono le eventuali maggiori perdite latenti stimate dal mercato ma non fatte emergere nel piano.

Secondo la scomposizione proposta, nel caso in cui si parta da una situazione con \$PB_e<1\$, una riorganizzazione ben architettata crea valore se produce una crescita del multiplo di valutazione (\$varPB_e>0\$), oppure se ottiene una diminuzione del capitale richiesto (\$varK<0\$), tenendo conto del saldo tra gli impatti economici straordinari e la ricognizione di nuove perdite latenti (\$- IC + PLUSMINUS - newXLOSS\$).

I molti fattori in gioco dischiudono una grande varietà di scenari possibili, favorevoli o sfavorevoli. In ogni caso, l’esito dello scommessa fatta dalla banca è rimesso al giudizio che il mercato darà sulla credibilità dei numeri presentati (le principali grandezze in gioco sono legate a eventi e azioni future) e alla fiducia nella capacità della banca di migliorare la produzione di reddito.

La descrizione dei modelli è corredata da due esempi esplicativi relativi alle banche popolari venete ricapitalizzate dal Fondo Atlante nell’aprile e nel giugno 2016 e all’operazione del gruppo Unicredit annunciata nel dicembre 2016 come piano Transform 2019 e attuata nel febbraio 2017.

Perché utilizziamo il caso della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca nella parte dedicata alle banche che non versano in stato di crisi conclamata? Perché al tempo dei fatti considerati nel nostro esempio (aprile - maggio 2016) le criticità latenti non erano ancora emerse in tutta la loro gravità. Inoltre, si tratta di un caso emblematico di un’operazione di "quasi mercato" che incorpora l’apporto di un sussidio.

Affinare i modelli di valutazione delle azioni non basta certo a risolvere i problemi delle banche italiane. Tuttavia, può aiutare molto nella loro diagnosi, e così facilitare la messa a punto delle soluzioni. Per la complessità del problema, e per la severità degli squilibri economici e patrimoniali da correggere, è facile che rimedi apparentemente risolutivi si rivelino impraticabili. Un’analisi rigorosa consente di accertare preventivamente la loro inefficacia. I modelli aiutano inoltre a stimare il rapporto tra costi e benefici degli interventi che fanno uso di fondi pubblici e consortili, mettendo in luce la redistribuzione di valore tra gli attori coinvolti.

I tempi sono drammaticamente cambiati. I piani di rafforzamento patrimoniale che in passato erano discussi nel Consiglio di amministrazione di una banca, o in consessi riservati tra i vertici della banca e le Autorità nazionali, oggi vengono subito portati alla ribalta del dibattito politico, e sono sottoposti allo scrutinio ossessivo degli investitori, dei media e dell’opinione pubblica, in Italia e all’estero. In parallelo, gli stessi passaggi valutativi devono passare il vaglio severo delle autorità di supervisione e di regolazione della concorrenza, italiane ed europee. Una comunicazione chiara, frutto di un’analisi ragionata, aiuta a sfatare le prese di posizione reattive che spesso inquinano il dibattito sui temi bancari. Un clima di confronto più sereno e basato sui fatti può facilitare le soluzioni che meglio conciliano gli interessi pubblici divergenti che sono in gioco.

2. Requisiti prudenziali e valutazione delle azioni bancarie

L’attività bancaria presenta delle caratteristiche particolari che influenzano la valutazione delle azioni.
In primo luogo, le banche sono imprese operanti in mercati concorrenziali, ma la loro attività è regolamentata e soggetta alla supervisione delle Autorità di vigilanza. Il quadro normativo vigente si basa sul framework approvato dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria (Basel Committee on Banking Supervision, BCBS). Attualmente vige la regolamentazione nota come Basilea III (Basel Committee on Banking Supervision, 2011), tradotto nella Direttiva CRD IV (European Union, 2013a) e nel Regolamento CRR sui requisiti prudenziali per le istituzioni creditizie (European Union, 2013b). Le Disposizioni di Vigilanza per le banche della Banca d’Italia (Banca d’Italia, 2013) rinviano al CRR o lo estendono su materie ivi non regolate o riferite a discrezionalità rimesse alle Autorità nazionali.

2.1. I requisiti minimi obbligatori di patrimonio e di liquidità (Pillar 1)

In primo luogo, l’apparato di vigilanza vigente fissa delle soglie irrinunciabili per i presidi dei rischi di perdita sul patrimonio e di squilibrio di liquidità. La normativa impone di rispettare i requisiti minimi detti di Primo pilastro (Pillar 1) come condizione irrinunciabile per l’esercizio dell’attività bancaria.

Due sono i requisiti principali di Pillar 1, che condizionano in maniera stringente la gestione finanziaria delle banche:

  • i solvency ratio, coefficienti di solvibilità che fissano la dotazione minima di capitale a copertura dei rischi di credito, di mercato e operativo [16], determinata in base alla composizione dell’attivo ponderato per grado di rischio (Risk Weighted Asssets, \$RWA\$);

  • i liquidity ratio, coefficienti a copertura del rischio di liquidità che regolano la dotazione minima di attività liquide non vincolate (liquidity coverage ratio, LCR) e di provvista oltre il breve termine (net stable funding ratio, NSFR).

Senza approfondire il tema dei ratio di liquidità, che è collaterale rispetto ai modelli qui considerati, riepiloghiamo in estrema sintesi le regole sui solvency ratio [17] così come sono state modificate da Basilea III, con applicazione nell’Unione Europea dal 1° gennaio 2014:

  • è confermata la soglia minima del capitale totale nella misura dell'8% dei \$RWA\$;

  • cambia radicalmente la composizione per qualità degli strumenti di capitale

    • aumenta al 4,5% degli \$RWA\$ la parte di Common Equity Tier 1 (CET1), il capitale della migliore qualità quanto a capacità di assorbimento delle perdite in condizioni di continuità aziendale (going concern); il CET1 è composto principalmente da capitale versato e riserve di utili;

    • si limita all'1,5% degli \$RWA\$ la parte di Additional Tier 1 (AT1), composta da strumenti di durata perpetua a rendimento predeterminato (preferred shares o obbligazioni subordinate) idonei ad assorbire perdite in caso going concern; per svolgere tale funzione, gli strumenti AT1 prevedono la facoltà per l’emittente di sospendere il pagamento di cedole e dividendi senza che ciò determini un evento di default, oltre alla facoltà di ridurre il debito o di convertirlo in azioni nell’eventualità che il solvency ratio scenda al di sotto di una soglia predeterminata; devono, in aggiunta, rispettare altre condizioni anti-elusive;

    • si limita al 2% degli \$RWA\$ la quota di strumenti Tier 2 (T2), composti da obbligazioni subordinate della durata minima di 5 anni, idonee ad assorbire perdite in caso di liquidazione (gone concern).

Il leverage ratio

Basilea III ha poi introdotto un coefficiente di capitale minimo, detto leverage ratio, riferito all’attivo non ponderato per il rischio. Tale requisito deve essere soddisfatto congiuntamente al solvency ratio e mira a frenare lo sviluppo eccessivo dei volumi intermediati nelle fasi espansive del ciclo, che potrebbe celare l’assunzione di rischi che non sono correttamente apprezzati dai metodi per il calcolo degli \$RWA\$, in particolare dagli approcci basati sui rating interni (rischio di credito) o sui modelli interni di tipo value-at-risk (rischio di mercato), descritti nella sezione seguente. In tale visione, il leverage ratio rimedia al possibile uso elusivo dei modelli interni e al rischio di errata specificazione degli stessi.
Indirettamente, lo stesso dispositivo limita l’esposizione al rischio di credito sovrano che ai sensi della CRD IV/CRR non è controllata dal solvency ratio, essendo prevista una ponderazione nulla dei titoli di Stato dei paesi UE ai fini del calcolo degli \$RWA\$.

Le banche sottoposte alla CRD IV/CRR sono tenute a pubblicare il leverage ratio dal 1° gennaio 2015.
In data 11 gennaio 2016, il BCBS ha comunicato il raggiungimento di un accordo in seno al Group of Governors and Heads of Supervision (GHOS) per il quale dovrebbe essere applicato un requisito minimo di leverage ratio nella misura del 3% dell’attivo totale non ponderato per il rischio da coprire con capitale Tier 1 (CET1 + AT1), a far tempo dal 1° gennaio 2018. L’Unione Europea ha recepito tale previsione nel Banking reform package messo a punto dalla Commissione nel novembre 2016 [18].

2.2. La vigilanza macroprudenziale e i buffer di capitale

La riforma di Basilea III ha introdotto dei requisiti aggiuntivi intesi a creare un cuscinetto (buffer) di capitale di migliore qualità idoneo a proteggere il capitale di primo pilastro. Questi buffer si caratterizzano per i loro meccanismi di applicazione dinamici: i requisiti non sono rigidi e costanti nel tempo, ma si adattano alle condizioni macroeconomiche e alla percezione del rischio sistemico.

La regolazione dei buffer patrimoniali fa parte degli strumenti di vigilanza macroprudenziale, che sono un’altra novità "filosofica" portata da Basilea III. La crisi finanziaria globale del 2007-2008 ha infatti messo a nudo i limiti di un sistema di presidi patrimoniali calibrati su scenari di crisi che coinvolgono singoli intermediari e non tengono conto adeguatamente della correlazione tra fattori scatenanti e degli effetti di contagio. Con la vigilanza macroprudenziale si è inteso mettere in campo un sistema di monitoraggio e di azione preventiva inteso a prevenire e a contrastare l’accumulo di rischi sistemici per fattori endogeni attivati dai comportamenti correlati delle banche e degli altri agenti economici. In questa visione, i buffer patrimoniali fungono da freno in quanto impongono assorbimenti di capitale più onerosi nelle circostanze seguenti:

  • nell’operatività degli intermediari di rilevanza sistemica, che possono essere indotti ad assumere rischi eccessivi per moral hazard sfruttando il loro status di banche too-big-to-fail; sono inoltre focolai di contagio per l’elevata interconnessione con il resto del sistema finanziario;

  • nelle fasi espansive caratterizzate da una crescita eccessiva del debito, spesso alimentata da movimenti di capitale tra paesi, nelle quali è bene ostacolare la formazione di strutture finanziarie instabili.

Oltre ai buffer, sono previsti altri dispositivi macroprudenziali intesi a contrastare la formazione di bolle speculative in settori esposti a oscillazioni cicliche, tipicamente quello immobiliare. A questo fine, fanno parte dei dispositivi macroprudenziali le maggiorazioni dei coefficienti di rischio sui prestiti per l’acquisto di case e i massimali di loan-to-value (LTV) applicati alle relative percentuali di valore finanziabile (art. 124 CRD IV).

Il tema della vigilanza macroprudenziale è stato lanciato dal Financial Stability Board nel 2011 in risposta a una richiesta del G-20 [19]. Nello stesso anno l’Unione Europea istituiva un’autorità dedicata, l’European Systemic Risk Board (ESRB) [20]. All’ESRB sono affidate la vigilanza macroprudenziale del sistema finanziario nell’UE e la prevenzione e mitigazione del rischio sistemico. Nell’ambito di tale mandato, l’ESRB tiene sotto osservazione e valuta i rischi sistemici, emettendo ove opportuno segnalazioni e raccomandazioni.
A livello nazionale, la funzione di vigilanza macroprudenziale è svolta dalla Banca d’Italia.

La calibrazione dei buffer è in parte rimessa alle Autorità di supervisione nazionali, nel rispetto di linee guida, soglie minime ed eventuali procedimenti di notifica, consultazione o autorizzazione nei confronti di Autorità sovranazionali (Comitato di Basilea, Financial Stability Board, Commissione Europea).

In caso di violazione dei buffer minimi, le Autorità di supervisione non applicano le misure di rigore previste in caso di mancato rispetto dei requisiti di Pillar 1 e/o nelle situazioni di crisi (vedi oltre), ma si attivano meccanismi correttivi più blandi in parte automatici intesi a ripristinare il cuscinetto di protezione minimo.
Nello specifico (art.141 CRD IV), il mancato rispetto dei buffer comporta limitazioni al cosiddetto MDA (maximum distributable Amount). Il MDA è inteso come quota massima dei profitti generati e non ancora inclusi nel CET1 che si può a discrezione della banca distribuire agli investitori in strumenti di capitale Tier 1 (dividendi azionari, riacquisti di azioni, interessi su strumenti AT1) e al personale (parte variabile delle retribuzioni, prestazioni pensionistiche addizionali). Quando la banca non rispetta il requisito complessivo a titolo di capital buffer (combined buffer requirement), la quota distribuibile in base alla quale si calcola MDA è ridotta in funzione dell’entità dell’ammanco, come si dettaglia nella Tabella 1.

Tabella 1. Determinazione delle percentuali di maximum distributable amount (MDA) in presenza di copertura insufficiente dei requisiti di combined buffer.
% copertura requisito combined buffer % MDA

0 - 25%

0%

25 - 50%

20%

50 - 75%

40%

75 - 100%

60%

Fonte: Nostra elaborazione su CRR, art. 141.

In aggiunta, l’intermediario che non rispetta i buffer richiesti deve presentare un idoneo capital conservation plan in cui prospetta il percorso inteso a ricostituirli.

I requisiti a titolo di capital buffer devono essere soddisfatti esclusivamente con CET1.

Illustriamo ora brevemente le tipologie di buffer previste dalla normativa di vigilanza dell’Unione Europea.

Capital conservation buffer (CCB) [21]

Regolato dall’art. 129 CRD IV, si applica a regime nella misura del 2,5% degli \$RWA\$ a far tempo dal 1° gennaio 2019.
Costituisce un argine generico a difesa del CET1 minimo. Le norme transitorie di Basilea III hanno consentito un phase-in period del quale l’Italia non aveva inizialmente usufruito, optando per l’applicazione immediata del coefficiente massimo del 2,5%. Successivamente nell’ottobre 2016 la Banca d’Italia ha reintrodotto il regime transitorio che prevede coefficienti dell'1,25% nel 2017 e dell'1,875% nel 2018 [22].

Counter-cyclical capital buffer (CCyB) [23]

Regolato dagli artt. 130 e 135-140 CRD IV, è applicato dalle autorità di supervisione nazionali per aumentare la dotazione di capitale nelle fasi espansive dei cicli creditizi, a copertura delle perdite che successivamente emergono nelle fasi di contrazione.
Si applica dal 1° gennaio 2016. Il relativo coefficiente è compreso tra 0 e il 2,5% degli \$RWA\$.
La calibrazione di tale coefficiente si basa sullo scostamento del rapporto tra credito bancario e PIL dal suo trend di medio-lungo periodo (credit-to-GDP gap): scostamenti positivi segnalano fasi espansive e quindi inducono ad applicare coefficienti più elevati.

Sin dalla sua introduzione nel 2016, la Banca d’Italia ha sempre applicato requisiti nulli a titolo di CCyB in ragione della contrazione rilevata del credito bancario aggregato [24].

Attualmente gli unici paesi UE che applicano un CCyB non nullo sono Norvegia e Svezia (1,5% dal giugno 2016) e Repubblica Ceca (0,5% dal gennaio 2017) [25].

Buffer per il rischio sistemico

Sono di tre tipi e li raggruppiamo in una sottocategoria a parte perché la loro applicazione non è cumulativa, ma reciprocamente esclusiva, ovvero, quando un’istituzione è soggetta a più di uno dei tre buffer in questione, si applica quello che prevede il coefficiente maggiore.

Li possiamo classificare nel modo seguente:

  • vi sono innanzitutto due buffer per le istituzioni di importanza sistemica, e precisamente

    • il Global-Systemically Important Institution (G-SII) buffer (art. 131 CRD IV), che fa parte delle azioni concordate nell’ambito del Financial Stability Board per disciplinare le istituzioni di peso sistemico globale [26]; il G-SII buffer deve essere applicato dal 2019 alle istituzioni classificate come tali [27] con un coefficiente compreso tra 1 e 3,5% degli \$RWA\$; in Italia l’unica G-SII è il gruppo Unicredit [28], al quale si applica un coefficiente crescente negli anni (secondo il regime transitorio previsto dalla CRD IV) pari a 0,5% nel 2017, 0,75% nel 2018 e 1% nel 2019; i requisiti per le G-SII non si limitano al capital buffer qui considerato, ma comprendono il più oneroso impegno a mantenere una Total Loss Absorbing Capacity (TLAC) ovvero un ammontare minimo di capitale e di passività utilizzabili a copertura delle perdite in caso di dissesto; tale requisito è disciplinato dal framework per la risoluzione delle crisi bancarie (v. oltre I requisiti sul buffer di assorbimento delle perdite in caso di risoluzione (TLAC e MREL)).

    • l'Other-Systemically Important Institution (O-SII) buffer [29] (art. 131 CRD IV) è analogo al precedente e si applica a intermediari finanziari che raggiungano una rilevanza sistemica a livello nazionale; può essere applicato a discrezione delle Autorità di vigilanza nazionali con coefficienti compresi tra 0 e 2% degli \$RWA\$; la Banca d’Italia nel novembre 2016 ha designato tre O-SII e fissato i relativi coefficienti nel periodo transitorio (dal 2018 al 2020) e a regime (dal 2021); si tratta dei gruppi Unicredit (0,25% e 1%), Intesa Sanpaolo (0,19% e 0,75%) e Monte dei paschi di Siena (0,06% e 0,25%); al gruppo Unicredit non applica il buffer O-SII essendo già sottoposto a un buffer G-SII a coefficiente più elevato. [30].

  • vi è poi un systemic risk buffer (SRB) (artt. 133-134 CRD IV) che ha una funzione generica di contrasto ai rischi sistemici di lungo termine, aventi profilo non ciclico, che non sono coperti da CCB e CCyB; è applicabile dal 2014 come discrezionalità nazionale; può essere applicato in maniera più elastica in termini sia di istituzioni assoggettate sia di coefficienti; il perimetro di applicazione può variare e comprendere tutte le banche di un paese, singoli istituti o gruppi; ad esempio può riguardare singole istituzioni (Nordea in Danimarca, 2016), i maggiori gruppi di un paese (svolgendo così le stesse funzioni dell’O-SII buffer con aliquote maggiorate, come in Svezia, 2014), oppure le banche controllate da gruppi ubicati in paesi con rating sovrano non investment grade (Romania, 2015); l’applicazione in un paese può prevedere aliquote crescenti con il peso dei settori a maggior rischio sistemico, tipicamente l’edilizia commerciale (Ungheria 2015) [31]; la normativa europea non impone limiti massimi ai coefficienti dell’SRB (riferiti come i prcedenti agli \$RWA\$); tuttavia, trattandosi di un requisito che può interessare banche appartenenti a gruppi esteri e così condizionare il loro accesso al mercato domestico, al di sopra del livello del 3% i coefficienti devono essere notificati alla Commissione europea, e per livelli superiori al 5% è necessaria l’autorizzazione della stessa Commissione.

2.3. La supervisione prudenziale: SREP, stress test e requisiti di Pillar 2

Gli obblighi che le banche devono rispettare in tema di capitale minimo non finiscono qui: l’impianto di Basilea III e dell’Unione Bancaria Europea prevedono infatti una funzione di supervisione proattiva sull’adeguatezza patrimoniale di ogni singolo intermediario, affidata alle Autorità di vigilanza (BCE e Banca d’Italia). Questa funzione si esplica nelle seguenti attività:

  • un'attività ricorrente che interessa tutte le banche, imperniata sul Supervisory Review and Evaluation Process (SREP) [32], che consiste nella revisione degli esercizi di valutazione dell’adeguatezza patrimoniale e del rischio di liquidità svolti dalle banche nei resoconti ICAAP e ILAAP annuali [33]; lo SREP si basa su un processo di valutazione per fasi, basato su elementi qualitativi e quantitativi, e si traduce in un giudizio su una scala da 1 a 4 (il punteggio aumenta con la rilevanza delle criticità riscontrate).

  • attività non ricorrenti svolte nei confronti di gruppi di banche o di singoli istituti

    • le attività di comprehensive assessment [34] svolte nei confronti delle banche più significative; nella prima "campagna" lanciata nel secondo semestre 2014 questo processo di valutazione si è articolato in due momenti:

      • l'Asset Quality Review (AQR) volta ad aumentare la trasparenza delle esposizioni bancarie con riferimento alla correttezza della classificazione per stato di rischio e all’adeguatezza delle garanzie collaterali e degli accantonamenti; possono qui emergere delle perdite attese non adeguatamente coperte, con la conseguente richiesta di rettifiche di valore incrementali da effettuarsi tempestivamente;

      • lo stress test, una prova della resistenza dei bilanci bancari a scenari avversi; sperimentato per la prima volta dal CEBS [35] nel 2009, si è affermato negli anni seguenti come strumento fondamentale di supervisione; attualmente è svolto in due modalità

        • l'EBA EU-wide stress test riguarda un numero ridotto di banche significative (37 nel 2016); è coordinato dall’EBA e i suoi risultati sono pubblici;

        • l'SSM SREP stress test riguarda un maggior numero di banche significative (56 nel 2016); è coordinato dalla BCE e i suoi risultati non sono resi pubblici;

    • i controlli ispettivi, effettuati su banche significative e non, che possono portare a richieste di interventi correttivi per rimediare perdite o rischi latenti o altri elementi di fragilità strategica o patrimoniale; seguono un percorso che equivale, nella sostanza, a quello del comprehensive assessment.

Nel tempo ha assunto importanza crescente lo stress test, che è entrato a far parte dei processi ordinari di risk control. Le banche vigilate svolgono tale esercizio internamente e ne riportano i risultati nel resoconto ICAAP. Le Autorità di vigilanza possono effettuare un regulatory stress test su banche di ogni dimensione con cadenza annuale nell’ambito dello SREP.
L’esito dello stress test può evidenziare un rischio potenziale di sottocapitalizzazione al ricorrere di circostanze avverse, al quale consegue la richiesta un piano di riequilibrio che comporta la riduzione delle esposizioni o il rafforzamento del capitale.

I fabbisogni di capitale delle banche sono influenzati dall’esito della valutazione SREP. Essa rappresenta infatti l’occasione per indicare dei requisiti patrimoniali aggiuntivi di Pillar 2 da soddisfare con capitale della migliore qualità (CET1).

I requisiti di Pillar 2 hanno una funzione duplice:

  • coprono rischi non misurati dai coefficienti obbligatori di Pillar 1, come ad esempio il rischio di tasso di interesse del banking book e il rischio di concentrazione delle esposizioni creditizie;

  • trattano situazioni particolari ed eventuali criticità delle singole banche che attengono ad aspetti qualitativi (come la governance del rischio) o ad aspetti quantitativi che non sono colti dai ratio minimi obbligatori.

Dal punto di vista procedurale, dopo l’esame della situazione di una banca le Autorità formulano un giudizio che può essere accompagnato dalla richiesta di interventi a livello strategico (modello di business) e organizzativo (governance e risk management). Al giudizio SREP si accompagna la fissazione del requisito di capitale aggiuntivo di Secondo pilastro.

A far tempo dallo SREP 2016 si è deciso di suddividere questa indicazione sul requisito di capitale aggiuntivo in due componenti [36]:

  • il Pillar 2 requirement (P2R), che è un requisito obbligatorio imposto dai supervisori per fronteggiare rischi non adeguatamente coperti dal capitale di Primo pilastro;

  • la Pillar 2 Guidance (P2G), che rappresenta un’indicazione non vincolante con la quale le Autorità esprimono l’aspettativa che la banca si doti di un capitale eccedente i requisiti minimi di Pillar 1 e 2 al fine di fronteggiare futuri scenari avversi (forward-looking and remote situations), tenendo conto della sensibilità particolare della banca ai fattori che li possono determinare.

E' importante sottolineare che l’indicazione P2G, a differenza del requisito P2R, non deve essere reso pubblico nell’informativa al mercato. In European Banking Authority (2017, p. 5) si esprime l’aspettativa (o forse l’auspicio) che le banche non divulghino tale dato volontariamente, e che comunque lo facciano rispettando le regole sulla diffusione di insider information stabilite dalla Market Abuse Regulation [37].

Sempre in European Banking Authority (2017, pp. 3-4) si precisa che il "quasi-requisito" di P2G può essere coperto dal capitale allocato sui buffer macroprudenziali che rispondono agli stessi scopi, e precisamente:

  • è utilizzabile il capital conservation buffer, in via generale;

  • è utilizzabile il countercyclical capital buffer, a esito di una valutazione caso per caso secondo criteri concordati con le Autorità macroprudenziali;

  • non sono invece utilizzabili i buffer di tipo G-SII, O-SII e systemic, che sono impegnati nella copertura di rischi aggiuntivi che l’intermediario procura al sistema finanziario a prescindere dal verificarsi di scenari avversi.

Come il P2R, anche la P2G deve essere soddisfatta con capitale CET1.

Secondo la metodologia dichiarata da BCE ed EBA, la calibrazione congiunta di P2R e P2G segue una visione olistica che tiene conto di aspetti qualitativi e quantitativi e non può essere ridotta a una regola meccanica. La componente P2G è tuttavia associata esplicitamente ai risultati dello stress test: deve essere infatti sufficiente a compensare l’abbattimento del capitale regolamentare che si stima nell’ipotetico scenario avverso dello stress test. Da qui si può indurre per comparazione (come ormai invalso nell’opinione corrente) che il requisito correlato P2R debba assicurare una dotazione di CET1 (e di capitale totale) superiore ai rispettivi minimi di Pillar 1 nello scenario base dello stress test.

Sulla rilevanza degli stress test nella definizione dei requisiti di capitale si torna più avanti.

Le Autorità hanno distinto le due componenti per poter modulare gli effetti di una violazione del requisito complessivo di Pillar 2:

  • una banca che non rispetta il P2R viola i requisiti minimi obbligatori, e deve essere sottoposta ad azioni di rigore non derogabili del supervisore intese a ripristinare la compliance ai requisiti minimi;

  • nel caso in cui la banca, pur rispettando il P2R, non disponga di un CET1 adeguato rispetto ai buffer macroprudenziali, è soggetta alla limitazione automatica dei dividendi e delle cedole su strumenti AT1 (MDA), oltre a doversi impegnare ad adottare un Capital conservation plan;

  • se invece il capitale disponibile della banca risulta capiente rispetto a P2R e combined buffers, ma non a P2G, allora non scattano automatismi, ma opera comunque una moral suasion da parte del Supervisore che può tradursi in richieste pressanti di azioni correttive per allineare il capitale disponibile alle "aspettative" espresse in esito dello SREP [38].

2.4. I requisiti sul buffer di assorbimento delle perdite in caso di risoluzione (TLAC e MREL)

La prima ondata di riforme avviata dopo la crisi globale e implementata col framework di Basilea III ha puntato sul rafforzamento del capitale di migliore qualità fissando requisiti più severi per la componente CET1. Tale fine è stato perseguito con l’innalzamento al 4,5% del coefficiente minimo di CET1 del Primo pilastro e introducendo i nuovi buffer macroprudenziali.
Negli anni in cui si elaboravano tali misure di rafforzamento preventivo, i Governi degli Stati Uniti e di molti importanti paesi europei stavano affrontando le crisi conclamate di alcune grosse banche globali. Il default della banca d’investimento Lehman Brothers nel settembre 2008 aveva indotto il Governo USA a varare in emergenza il TARP, primo dei piani di bail-out con un budget di 700 miliardi di dollari. Il Lehman moment rischiava di portare alla paralisi dei mercati monetari e dei derivati, con pericolosi effetti di contagio tra paesi. Per scongiurare il ripetersi di momenti fatali come quello, i Governi sono scesi in campo per assicurare la continuità operativa dei maggiori gruppi bancari, gravati da massicce perdite di valore degli attivi, con azioni di sostegno mediante ricapitalizzazioni, concessione di garanzie statali, finanziamenti.

Nei consessi finanziari internazionali, si è sempre ribadito che occorre evitare ad ogni costo il fallimento di un gruppo bancario sistemico ("failure is not an option") per gli effetti dirompenti che una liquidazione potrebbe avere. Nel contempo, è maturata la convinzione che il ricorso generalizzato a salvataggi pubblici di banche di importanza sistemica fosse incompatibile con un’architettura robusta dei sistemi finanziari. Oltre a comportare un costo incontrollato e politicamente inaccettabile, i bail-out incentivano comportamenti irresponsabili tanto degli intermediari che si aspettano di poterne beneficiare, quanto degli investitori nei titoli di capitale emessi dai primi.

Si è quindi affermata una nuova filosofia nella gestione delle crisi bancarie, per la quale deve essere il mercato a farsi carico dei costi della loro risoluzione. Secondo questo approccio, il deficit patrimoniale che emerge in una banca in dissesto deve essere ripianato dai creditori della banca stessa, limitando la protezione pubblica ai depositi che beneficiano dell’assicurazione obbligatoria e ad altre passività di natura operativa che sarebbe complicato esporre al rischio di default. Secondo Ervin, riconosciuto come primo ispiratore di questo approccio [39], il bail-in attua una ristrutturazione rapida, analoga nello spirito al Chapter 11 del diritto fallimentare USA, con lo scopo principale di preservare il valore dell’attivo dell’intermediario in crisi rispetto allo scenario di liquidazione [40].

Al centro del nuovo modello di crisis management sta l’istituto della risoluzione mediante bail-in delle passività della banca, che tecnicamente si traduce nella conversione delle stesse in capitale proprio e/o nella loro riduzione per assorbimento delle perdite patrimoniali. Nel caso del dissesto di una banca sistemica, è importante che le risorse attivabili mediante bail-in siano sufficienti non soltanto a coprire le perdite, ma anche a ricapitalizzare l’istituto, del quale deve essere assicurata la continuità operativa ad ogni costo.

Occorre pertanto un impianto regolamentare che preveda una procedura di soluzione della crisi alternativa alla liquidazione, basata sul bail-in del debito non protetto dall’assicurazione dei depositi o non coperto da garanzia collaterale. Affinché tali procedure siano efficaci, le banche dovranno detenere un ammontare minimo non soltanto di mezzi propri, ma anche di passività che possano essere sottoposte a bail-in con rapidità e certezza legale. L’aggregato in questione, comprendente capitale e passività bail-inable, è definito TLAC (Total Loss Absorbing Capacity) nei principi approvati a livello internazionale dal Financial Stability Board. Il TLAC equivale concettualmente al MREL (Minimum Requirement of Eligible Liabilities) a cui fa riferimento la Direttiva europea BRRD sulle crisi bancarie.

La BRRD disciplina in maniera articolata i processi da seguire in caso di risoluzione, che sono specificati caso per caso nei piani di risoluzione predisposti e aggiornati dalle Autorità competenti.

Nella Figura 6 si visualizza il processo di emersione e assorbimento delle perdite mediante utilizzo della massa di strumenti TLAC/MREL.

LossAbsorption
Figura 6. Meccanismo di copertura delle perdite e ripristino del capitale mediante riduzione del capitale e conversione di passività eleggibili TLAC/MREL.

Fonte: Nostra elaborazione.

L’esigenza di costituire un buffer TLAC o MREL si è dapprima manifestata nei confronti delle sole istituzioni di importanza sistemica globale (G-SII). I primi passi in tale direzione risalgono alla riunione del G20 di Seoul del novembre 2010 [41] e al contestuale documento del Financial Stability Board [42]. Il FSB avviava poi in collaborazione con il Comitato di Basilea l’elaborazione di un sistema di regole in materia di Total Loss Absorbing Capacity delle G-SII. Veniva messo in consultazione un documento nel 2014, e nel novembre 2015 si approvavano i principi e il Term Sheet in materia di TLAC (Financial Stability Board, 2015). Tale documento, che rappresenta ad oggi la fonte primaria della regolamentazione sulla TLAC, fissa un requisito minimo obbligatorio, da rispettarsi in tutte le giurisdizioni, più un eventuale requisito addizionale rimesso alla discrezionalità delle Autorità locali competenti in materia di crisi bancarie.

In parallelo, l’Unione Europea introduceva nella direttiva BRRD del 2014 l’istituto della risoluzione delle crisi bancarie mediante azioni di disposizione delle componenti del passivo della banca in dissesto, tra cui il bail-in del debito non protetto. Per rendere la banca "risolvibile" la BRRD prevede che le banche debbano rispettare un requisito minimo in ordine alla dotazione di MREL. A differenza del TLAC, il requisito MREL si applica a tutte le banche europee sottoposte alla BRRD, e inoltre tale direttiva non fissa dei livelli minimi obbligatori, ma rimanda la calibrazione del requisito all’Autorità di risoluzione competente (Single Resolution Board o Autorità nazionale), che dovrà determinare un livello appropriato caso per caso applicando gli standard tecnici emanati dall’EBA [43]. L’EBA ha sottoposto a revisione critica le scelte implementative nel Final Report del dicembre 2016 (European Banking Authority, 2016d). In parallelo, nel Banking Package del novembre 2016 la Commissione Europea ha delineato una serie di emendamenti alla direttive e ai regolamenti in materia bancaria (CRD IV/CRR e BRRD) al fine di armonizzare quasi perfettamente le regole MREL per le banche G-SII con il citato TLAC Term Sheet, ritoccando nel contempo i meccanismi previsti per gli altri istituti di credito [44].

Come si coordinano i due filoni normativi in materia di debito sottoposto a bail-in?
Le regole in tema di TLAC e MREL condividono i principi di base e molte scelte attuative, ma nel contempo divergono su aspetti specifici, come si precisa nei punti che seguono.

Il requisito TLAC

È regolato da principi internazionali che devono essere tradotti nelle normative di vigilanza nazionali o sovranazionali (nel caso dell’Unione Europea). Si applica a un numero ristretto di gruppi di rilevanza globale con operatività cross-border. È quindi pensato per essere efficace in scenari di crisi molto complessi, nei quali si pongono in risoluzione entità soggette al diritto societario e fallimentare di paesi diversi. Per rispettare queste esigenze, il TLAC Term-sheet [45] fissa una serie di condizioni da rispettare:

  • si fissa un requisito minimo da rispettare a livello internazionale per cui l’aggregato TLAC deve essere almeno pari (dal 2019)

    • al 16% degli \$RWA\$

    • al 6% delle attività totali così come rilevate ai fini del leverage ratio di Basilea III;

      • dal 2022 i coefficienti aumenteranno, rispettivamente, al 18% e al 6,75%;

Per il fatto di prevedere un coefficiente minimo da rispettare tassativamente, il requisito TLAC rientra negli adempimenti di Pillar 1 che le G-SII sono tenute a rispettare.
  • l'aggregato TLAC comprende

    • il capitale totale valido a fini di vigilanza (CET1 + AT1 + T2)

    • altri debiti esposti a bail-in considerati TLAC eligible, così individuati

      • la parte maggiore deve essere coperta con obbligazioni subordinate non ammesse come T2 e da obbligazioni o altri debiti senior che in caso di insolvenza siano esplicitamente subordinati nel rimborso rispetto agli altri debiti senior della banca; tale subordinazione può essere realizzata in tre modi (structural quando il debito bail-inable è emesso da una holding o sub-holding non operativa, statutory quando un’apposita norma della legge fallimentare individua con precisione le tipologie di passività bancarie soggette a subordinazione, e contractual quando la subordinazione è regolata da clausole contrattuali del debito con uso di forme ad-hoc introdotte nell’ordinamento, v. Tabella 2);

      • sono ammessi in misura limitata altri debiti di rango senior non esplicitamente subordinati, con esclusioni (specificate qui sotto) tese a evitare effetti indesiderabili del bail-in sulla stabilità finanziaria, sul risparmio di categorie da tutelare socialmente, o sulla complessità e sui rischi legali della risoluzione;

Si impone un requisito di subordinazione esplicita dei debiti TLAC-eligible per evitare di sottoporre a bail-in una massa eterogenea di debiti senior trattata pari-passu (con lo stesso grado di prelazione e quindi uguale percentuale di abbattimento del valore), nella quale sarebbe difficile dimostrare per tutte le tipologie di passività il rispetto del principio NCWO (No Creditor Worst Off), ovvero il riconoscimento di un valore non inferiore a quello che il creditore otterrebbe in caso di liquidazione.
  • sono previste le seguenti esclusioni dall’aggregato TLAC

    • in ogni caso i debiti aventi durata contrattuale residua inferiore a 1 anno, ad eccezione di quelli ( non garantiti da collateral) verso banche centrali, altre organizzazioni sovranazionali e enti della pubblica amministrazione, che sono ammessi senza vincoli di durata minima;

    • i depositi della clientela protetti da sistemi di assicurazione dei depositi;

    • i depositi di privati retail e di piccole e medie imprese;

    • le obbligazioni garantite da collateral in senso lato (covered bonds, asset backed securities e in genere titoli da cartolarizzazioni);

    • le passività aventi natura operativa (nei confronti di dipendenti, fornitori, amministrazione tributaria, per rapporti di servizio di rilevanza critica);

    • le passività originate da strumenti derivati (escluse per la difficoltà di quantificarle in maniera univoca e per l’impatto che il bail-in produrrebbe sui sistemi e meccanismi di clearing e di copertura del rischi controparte);

    • i titoli strutturati (per motivi analoghi, in quanto incorporano derivati);

  • si fissano vincoli alla composizione del TLAC

    • gli strumenti diversi dal CET1 (AT1 + T2 + altre passività ammesse) devono essere almeno pari al 33% del TLAC totale, al fine di sottoporre le G-SII alla "disciplina di mercato" delle agenzie di rating e degli investitori specializzati in titoli ibridi e obbligazioni subordinate;

    • i debiti ammissibili che però non rispettano il requisito di subordinazione esplicita possono essere conteggiati nel TLAC nella misura massima del 2,5% degli \$RWA\$ (al 3,5% dal 2022).

Tabella 2. I tre metodi di subordinazione riconosciuti dal TLAC standard
Metodo Meccanismi Casi di adozione

Subordinazione strutturale
(Structural subordination)

La subordinazione strutturale si basa sul ruolo dell’emittente nella struttura del gruppo bancario. Si ha quando l’emittente è una holding company che trasferisce capitale alle controllate operative e, allo stesso tempo, produce reddito principalmente dai dividendi delle controllate.
Poiché tutte le obbligazioni delle controllate devono essere soddisfatte in caso di insolvenza prima di canalizzare fondi alla holding company, i creditori di quest’ultima risultano subordinati in termini strutturali.

Favorita negli USA

Subordinazione contrattuale
(Contractual subordination)

Il creditore e l’emittente mediante il contratto che regola il debito da subordinare convengono che, in caso di insolvenza, i pagamenti per interessi e capitale su tale debito possano essere effettuati soltanto se sono preliminarmente soddisfatte tutte le obbligazioni sulle passività senior rispetto ad esso.

Adottata in Francia e Spagna

Subordinazione legale
(Statutory subordination)

La subordinazione legale è stabilita attraverso una previsione normativa nel diritto fallimentare nazionale. La legislazione deve prevedere che, in caso di insolvenza, i pagamenti per interessi e capitale sulle tipologie di debito che si vogliono subordinare (esplicitamente elencate dalla legge) possano essere effettuati soltanto se sono preliminarmente soddisfatte tutte le obbligazioni sulle passività senior rispetto ad esse.

Adottata in Germania

Fonte: Financial Stability Board (2015) rielaborato in Deutsche Bundesbank (2016, p. 73). Nostro adattamento.

Meritano di essere evidenziati due aspetti:

  • le passività assoggettabili a bail-in formano un aggregato più ampio degli strumenti ammessi nel computo del TLAC, per cui gran parte dei debiti senior esclusi dal TLAC per problemi di durata e difficoltà di valorizzazione risultano aggredibili in caso di risoluzione, sebbene ad alcuni di essi sia riconosciuta una seniority più alta rispetto a quelli TLAC eligible (per i dettagli si rinvia alla Tabella 3);

  • il capitale detenuto a fronte dei requisiti per buffer macroprudenziali non è conteggiato nel TLAC disponibile a motivo della sua variabilità.

Sulla stratificazione dei requisiti di varia natura si torna più diffusamente in seguito (Quali sono i requisiti complessivi di capitale?).

TLACeligible
Tabella 3. La gerarchia degli strumenti soggetti a bail-in e ammessi negli aggregati TLAC e MREL
Il requisito MREL

Mentre le regole sul TLAC sono assestate, il processo di implementazione dei requisiti MREL nei paesi europei soggetti alla BRRD non si è ancora concluso. La direttiva in questione rappresenta la fonte normativa primaria, ma nel successivo processo di emanazione della regolamentazione secondaria sono emersi problemi e incongruenze con i principi TLAC che probabilmente porteranno a modificare alcuni dei principi fissati. Ci limitiamo qui a prospettare le probabili linee di attuazione desunte dai documenti finora prodotti dalle Autorità interessate, che sono i seguenti:

  • i Regulatory Technical Standards (RTS) dell’EBA ufficializzati nel maggio 2016 [46];

  • il Final Report rilasciato dall’EBA nel nel dicembre 2016 [47];

  • la proposte di revisione della BRRD contenute nel Banking reform package messo a punto dalla Commissione Europea nel novembre 2016 [48].

A differenza del TLAC, il MREL si applica a tutte le banche europee sottoposte alla BRRD.

Non si prevedono livelli minimi obbligatori, in quanto requisito è fissato caso per caso dall’Autorità di risoluzione competente, sentita l’Autorità di supervisione.

Il requisito MREL è quindi ricompreso, a differenza del TLAC, nei dispositivi di Vigilanza di Secondo Pilastro.

Tuttavia, gli RTS stabiliscono dei principi da rispettare nel definire l’ammontare e la composizione del MREL, tenendo conto dei seguenti aspetti:

  • le dimensioni e la rilevanza sistemica della banca;

  • il suo modello di business;

  • la conseguente impostazione della strategia di risoluzione in caso di dissesto, ovvero la scelta tra interventi che tutelano la continuità operativa della banca (o di sue business unit), rispetto ad altri che si limitano alla cessione o alla liquidazione degli attivi.

Gli RTS del maggio 2016 individuavano e calibravano le parti costitutive del MREL nei termini seguenti:

  • il Loss Absorption Amount (LA) era proporzionato al requisito di capitale totale di primo pilastro (8% degli \$RWA\$) e intendeva coprire le perdite patrimoniali che possono emergere dal dissesto, ;

    • la banca doveva inoltre rispettare in aggiunta il requisito per i buffer di capitale macroprudenziali, con un minimo del 2,5% degli \$RWA\$;

  • il Recapitalization Amount (RCA) era allineato a LA e rifletteva il fabbisogno di capitale delle unità di business alle quali assicurare la continuità operativa (in capo alla banca risolta o a una good bank alla quale sono trasferite); in tal modo la somma LA+RCA risultava uguale al doppio del requisito minimo di total capital; RCA poteva essere ridotto per le banche non sistemiche, fino al possibile azzeramento nel caso di banche risolvibili con la liquidazione; RCA doveva essere calibrato tenendo conto anche dell’esigenza di ristabilire la fiducia del mercato e includeva a tale scopo un market confidence buffer [49];

  • il DGS Adjustment (DGSA) era un importo ragguagliato al contributo stimato del Sistema di assicurazione dei depositi; detto importo poteva essere dedotto dalla somma di LA e RCA limitatamente al caso delle banche di piccole dimensioni;

  • lo SREP Adjustment (SREPA) era una componente ulteriore, positiva o negativa, che poteva essere stabilita dall’Autorità di risoluzione per tenere conto di caratteristiche specifiche di ogni banca.

Il procedimento così impostato portava a determinare nel caso standard di una banca sistemica un MREL non molto diverso dal requisito TLAC minimo (ovvero due volte l'8% degli \$RWA\$). Il requisito sarebbe stato invece sensibilmente ridotto per le banche di minori dimensioni risolvibili con procedimenti liquidatori. In un caso limite di banca molto piccola e semplice, applicando i principi sopra descritti si otterrebbe un MREL allineato con i requisiti di primo pilastro, senza quindi alcun aggravio a fronte del rischio di risoluzione.

A differenza del TLAC, gli RTS del 2016 non prevedevano un backstop riferito al leverage ratio. In alternativa a ciò gli RTS (in accordo con la BRRD) facevano riferimento all’incidenza del MREL rispetto a un dato di esposizione non ponderato per il rischio, definito Total Liabilities and Own Funds (TLOF) [50]:

  • l’Autorità di risoluzione avrebbe dovuto comunicare il requisito applicato come coefficiente di incidenza sul TLOF;

  • la BRRD prende a riferimento il TLOF per determinare le condizioni di accesso ai Fondi di risoluzione nazionali ed europei o ad altri programmi di supporto pubblico; tali apporti sono attivabili soltanto dopo che la banca abbia assorbito mediante bail-in perdite almeno pari all'8% del TLOF; gli stessi apporti non possono eccedere il 5% dello stesso aggregato.

La soglia dell'8% del TLOF non ha a che fare con la fissazione del requisito minimo di MREL, ma regola semplicemente l’accesso ai Fondi di risoluzione.

Per l’adattabilità che caratterizza il requisito MREL, non stupisce che i procedimenti di calcolo siano in alcuni aspetti non precisamente determinati.

Secondo la proposta di modifica della CRD IV/CRR del novembre 2016 (European Commission, 2016b), le regole TLAC saranno incorporate nella BRRD e saranno applicate, limitatamente alle G-SII, come requisiti minimi obbligatori.
Per quanto riguarda l’estensione alle O-SII e alle banche non rilevanti a livello sistemico, i requisiti saranno riformulati in maniera coerente con il TLAC, quindi in termini di incidenza del MREL sugli \$RWA\$ con la congiunta applicazione di un backstop minimo di leverage ratio. Pertanto verrà definitivamente abbandonato il riferimento all’aggregato TLOF come metrica in funzione della quale definire il requisito MREL.

Nell'aggregato delle passività esposte a bail-in rientrano in forza della BRRD tutti gli strumenti di raccolta con l’esclusione dei depositi coperti dai sistemi di assicurazione, delle obbligazioni garantite e di altre poste che siano esplicitamente esentate. Ci si è resi conto che una definizione così generica, per di più derogabile dalle norme di attuazione nazionali o dalle Autorità di risoluzione, non avrebbe consentito agli investitori e ai supervisori di quantificare in maniera chiara e univoca lo stock di passività effettivamente disponibili per la risoluzione delle crisi, specialmente nei casi di insolvenza di gruppi cross-border nei quali la holding capogruppo e gli intermediari operativi sono regolati da giurisdizioni diverse. Si poneva inoltre l’urgenza di rimediare alla forzatura con la quale la BRRD aveva sottoposto al rischio di riduzione-conversione per burden sharing o bail-in tutte le passività non assicurate o garantite in essere, a dispetto del fatto che tale evento non fosse contemplato nei relativi regolamenti, e soprattutto sorvolando sulle criticità che potevano sorgere (come poi è avvenuto) nei riguardi degli investitori al dettaglio che avevano sottoscritto una parte consistente del debito in questione senza la piena consapevolezza dei rischi che andavano ad assumere.

Tra le modifiche proposte delle regole MREL (European Commission, 2016c) vi è appunto l’armonizzazione delle norme sulla subordinazione dei crediti bail-inable in caso di insolvenza di una banca, con l’introduzione di una fattispecie legale tipica di debito senior che si posizionerebbe immediatamente sotto il debito e le altre passività senior ai fini della risoluzione, ma farebbe ancora parte del debito senior unsecured, e sarebbe così ammesso nell’aggregato TLAC. Tale forma più esposta di debito è denominata un-preferred senior. Si tratta della soluzione già adottata in sede di recepimento della BRRD dalla Francia, che si basa sulla contractual subordination di una nuova fattispecie legale di obbligazioni.
La normativa europea così modificata renderebbe obbligatoria l’emissione a fini MREL di questa nuova tipologia di obbligazioni dal luglio 2017.

Diversi gruppi bancari europei si erano già orientati a collocare obbligazioni con tali caratteristiche (che si tende a chiamare nuovo Tier 3 [51]). Tale classe di strumenti viene solitamente emessa dalla capogruppo, per sottolineare la sua immediata disponibilità ad assorbire le perdite consolidate emergenti al verificarsi di una crisi [52].
Le nuove regole MREL porteranno a un’uniformità delle condizioni contrattuali degli strumenti emessi con tale funzione nei paesi dell’UE.

Nella Tabella 4 si dettaglia la gerarchia degli strumenti di capitale e di debito in ordine di subordinazione decrescente così come regolata dal D.Lgs 180/2015 di recepimento della BRRD. L’Italia non aveva in tale provvedimento considerato la necessità (imposta dai principi TLAC) di prevedere un’espressa subordinazione delle passività esposte a bail-in, optando invece per l’inclusione di tutte le passività senior in un’unica classe, con l’attivazione ritardata a far tempo dal 2019 della depositor preference a favore dei titolari di depositi non coperti da assicurazione diversi da privati e PMI (Bonfatti, 2016). Nella stessa tabella si mostra nella terza colonna l’impatto delle modifiche che sarebbero introdotte dalle modifiche alle regole MREL, che potrebbero causare un’importante ricomposizione del passivo delle banche italiane [53].

Il D.Lgs. 16 novembre 2015, n.180 all’art. 50, che ha recepito la BRRD, regola il requisito minimo di passività soggette a bail-in (traduzione italiana di MREL). Il requisito su base individuale e consolidata (nel secondo caso sentita, se del caso, la BCE) è determinato dalla Banca d’Italia, che disciplina le caratteristiche delle passività computabili e le modalità secondo cui sono computate. La determinazione del requisito minimo e la verifica del suo rispetto sono effettuate nell’ambito dell’attività di predisposizione e di aggiornamento del piano di risoluzione.

Countryhierarchy
Tabella 4. Il diverso ordine di prelazione delle passività ai fini del MREL in Italia

Fonte: Nostra elaborazione.

Per il MREL non sono previsti vincoli alla composizione dell’aggregato, come il peso minimo degli strumenti di debito sul totale (pari nel TLAC al 33%), o il peso massimo delle passività non esplicitamente subordinate. Per quanto prospettato, tali vincoli saranno recepiti dalle regole TLAC e si applicheranno alle G-SII. Le banche piccole ne saranno esentate, e quindi non saranno costrette a emettere debito subordinato e obbligazioni di "Tier 3" su un mercato per loro non familiare né economicamente accessibile (European Banking Authority, 2016d). Per istituti di questo tipo, l’obbligo MREL potrebbe configurarsi come una componente del requisito ad hoc di Pillar II e sarebbe soddisfatto pressoché interamente con CET1.

Tra i due casi estremi delle G-SII (trattate secondo i principi TLAC) e delle piccole banche destinate a essere liquidate in caso di dissesto (che potrebbero essere di fatto esentate da gravami addizionali per MREL) si ha uno spettro di situazioni intermedie che saranno gestite in maniera flessibile dall’Autorità di risoluzione in funzione della loro somiglianza rispetto all’uno o all’altro estremo, oltre che di fattori specifici.

Nel caso di gruppi bancari operanti su più giurisdizioni, si pone il problema di dove collocare la dotazione di MREL all’interno del gruppo in funzione del punto di entrata (point of entry) del processo di risoluzione, cioè dell’entità societaria coinvolta dalla risoluzione (resolution entity) e della giurisdizione di vigilanza che ne governa il processo. Sono disponibili due strategie:

  • single point of entry (SPE), nel quale la risoluzione è condotta a livello della capogruppo nell’ambito della giurisdizione in cui è insediata (home);

  • multiple point of entry (MPE), nel quale la risoluzione può interessare società operative o holding intermedie ed essere pilotata da giurisdizioni host diverse da quelle della casa madre.

La scelta tra le due strategie deve mediare tra efficienza e disponibilità immediata delle risorse MREL nei punti in cui si manifestano le crisi:

  • l’approccio SPE è più efficiente poiché consente di accentrare la dotazione di MREL e di convogliarla all’occorrenza verso le controllate in crisi con interventi di ricapitalizzazione o finanziamenti subordinati; si evità così l’accumulo di MREL in eccesso in vari punti della struttura di gruppo;

  • l’approccio MPE dà maggiori garanzie di soluzione delle crisi che scoppiano in controllate estere e che sono gestite dalle autorità host, che sanno di poter fruire di una massa di fondi bail-inable già presenti nel bilancio degli intermediari risolti.

Il primo approccio è favorito nella realtà statunitense. Nella regolamentazione UE saranno ammessi entrambi.

Una soluzione intermedia prevede, nell’ambito di gruppi cross border, la costituzione di Internal MREL presso le controllate estere mediante emissione di strumenti di capitale e passività eleggibili sottoscritti dalle controllanti. In proposito, le modifiche in corso della BRRD richiedono alle controllate europee non classificate come resolution entity nell’ambito di gruppi bancari G-SII di emettere strumenti MREL nei confronti delle rispettive case madri nella misura minima del 90% del requisito che sarebbe loro applicato nella giurisdizione host. Tale requisito può essere adempiuto anche con garanzie della casa madre assistite da collateral per almeno il 50%.

Anche nel caso del MREL, oltre al requisito obbligatorio potrà essere richiesta una MREL guidance addizionale non vincolante composta di due parti [54] :

  • una prima componente non superiore all’aggiunta per Pillar 2 guidance (P2G) indicata dall’Autorità di vigilanza nello SREP;

  • una seconda componente non superiore al combined buffer requirement al netto del countercyclical buffer ; prenderebbe il posto del market confidence buffer previsto dai RTS EBA del maggio 2016 [55].

Si ribadisce che l’Autorità di risoluzione conserva una discrezionalità nel calibrare caso per caso il requisito e la guidance MREL nel rispetto dei limiti massimi qui ricordati.

Un ultimo accenno va fatto alle azioni dei supervisori in caso di violazione del requisito MREL. Come ricordato, l’aggregato considerato ai fini del MREL non comprende i buffer macroprudenziali che graficamente si posizionano sopra di esso (v. oltre Figura 8). Pertanto, la diminuzione del valore di componenti del MREL fa sì che il capitale allocato ai buffer "cada verso il basso" a coprire la carenza di MREL. Ciò potrebbe far scattare una violazione del requisito di buffer, con le conseguenti limitazioni al maximum distributable amount. Per non introdurre elementi di ingiustificata rigidità nelle politiche dei dividendi, quando la violazione dei buffer è causata dalla scadenza di passività conteggiate nel MREL, si prevede di concedere un periodo di tolleranza (grace period) di sei mesi per consentire il rifinanziamento delle passività scadute.

2.5. Quali sono i requisiti complessivi di capitale?

Stratificazione e dei requisiti e loro mutabilità nel tempo

Sovrapponendo ai ratio minimi di primo pilastro i requisiti di SREP-Pillar 2, e a questi le aggiunte per TLAC-MREL e i buffer macroprudenziali, senza dimenticare la Pillar 2 guidance e la MREL guidance (seppur non siano strettamente vincolanti), si ottiene una stratificazione complessa di requisiti che non si può riassumere in un singolo numero, poiché gli adempimenti sono molteplici, devono essere rispettati congiuntamente e la violazione di uno di loro determina effetti diversi a seconda dello strato in corrispondenza del quale è rilevata.

Non si tratta però di traguardi chiari e stabili nel tempo. Il processo è pieno di moving parts: la stessa normativa di primo pilastro non è del tutto assestata, essendo ancora in corso la fase transitoria in cui si disattivano gradualmente le regole previgenti (il cosiddetto phasing-in). Anche gli aspetti strettamente tecnici sono ben lontani dal definire una metrica oggettiva: i principi contabili possono cambiare (v. Principi contabili IFRS e capitale regolamentare), così come gli standard applicati nell'Asset Quality Review, i modelli e le ipotesi sottostanti gli stress test. Nel complesso, i regolatori (FSB, BCBS, Commissione Europea, EBA) e i supervisori (BCE-SSM, BCE-SRB, Banca d’Italia,) mantengono una certa discrezionalità nel regolare l’altezza e la rigidità delle soglie ad hoc dei requisiti di buffer, Pillar 2 e MREL, per non parlare delle azioni di rigore intraprese in caso di criticità o di violazioni. Il compromesso raggiunto sulla separazione delle guidance dai requisiti vincolanti introduce ulteriore incertezza sulle azioni che saranno intraprese dalle Autorità per far rispettare gli obblighi e i desiderata.

Dal canto suo la banca può influenzare l’aggregato \$RWA\$ non solo modificando alla radice la composizione delle attività, ma anche cambiando le metodologie di vigilanza applicate per calcolarlo (v. oltre Determinazione del capitale regolamentare richiesto). Ad esempio, una banca con un portafoglio impieghi di buona qualità può abbattere i requisiti per il rischio di credito passando dal metodo standard al metodo basato sui rating interni, previa autorizzazione della Vigilanza. Tuttavia questa strada ha delle controindicazioni. Passando al metodo IRB la banca può ottenere una liberazione immediata di capitale, al prezzo di una possibile aggravio futuro dei requisiti resi più sensibili ai parametri di qualità del credito.
Ci sono strade ancora più pericolose per le quali la banca va a manipolare direttamente il dato del capitale disponibile, come gli aumenti di capitale finanziati con prestiti della stessa banca, emersi con clamore nelle due banche popolari venete [56].

Nelle prassi di Vigilanza, può operare una sorta di "compensazione negoziata" tra variazioni dei requisiti di fonte diversa. Ad esempio la Banca d’Italia, nei mesi in cui entravano in applicazione il G-SII buffer (dal 2017 [57]) e gli O-SII buffer (dal 2018 [58]), riduceva pro tempore i coefficienti del CCB avvalendosi del regime transitorio [59], al quale aveva rinunciato nel 2013 in sede di recepimento della CRD IV. Anche gli add-on personalizzati del Pillar 2 possono essere aggiustati nel momento in cui si introduce un nuovo requisito minimo generale. Ci si possono aspettare aggiustamenti incrociati simili quando saranno applicati i requisiti MREL.

Tutto ciò considerato, non è semplice associare al concetto di "capitale richiesto", che è centrale nel nostro modello di valutazione delle azioni, una misura oggettiva e univoca.
Tenendo conto della stratificazione dei requisiti, si possono posizionare tre livelli di requisito di capitale CET1 di onerosità crescente, come definiti in European Banking Authority (2017, pp. 3-5):

  1. total SREP capital requirement (TSCR), pari alla somma dei requisiti di Primo pilastro e di quelli obbligatori di Secondo pilastro (P2R) assegnati nel processo di supervisione; sotto questo livello la banca è esposta ad azioni di rigore delle Autorità previste in caso di crisi; la banca è pressata ad attuare azioni correttive immediate a rischio della perdita dell’autorizzazione all’esercizio dell’attività, con la probabile attivazione di una procedura di risanamento o di risoluzione.

  2. overall capital requirement (OCR), sufficiente a coprire i requisiti di primo pilastro, i requisiti obbligatori di secondo pilastro (P2R) e i capital buffer; con un capitale compreso tra questo livello e il precedente la banca è sottoposta a vincoli automatici e inderogabili alla distribuzione di proventi alle azioni e agli strumenti AT1 e deve impegnarsi ad attutare un piano di conservazione del capitale;

  3. overall capital guidance (OCG), pari al livello richiesto per ottenere un CET1 ratio accettabile nello scenario negativo degli stress test; offre un margine di protezione dalle perdite potenziali al verificarsi di una combinazione severa di eventi avversi che le Autorità giudicano sufficiente, quando il test è superato, a provare la robustezza dell’intermediario e del sistema; quando il capitale si posiziona sotto tale guidance e sopra l'overall capital requirement, la banca è comunque una sorvegliata speciale delle Autorità di supervisione, che premeranno per un tempestivo rafforzamento del patrimonio; la differenza tra OCG e OCR è data dalla Pillar 2 guidance (P2G) diminuita dalla parte dei buffer che le regole applicative consentono di imputare a copertura della stessa P2G [60].

La Figura 7 fornisce una rappresentazione della stratificazione dei requisiti di CET1 e delle correlate soglie dei requisiti patrimoniali.

CET1stack
Figura 7. Stratificazione dei requisiti di capitale CET1 : quadro riassuntivo

Fonte: Nostra elaborazione. Per CCB valore fully loaded. P2G è da intendere come requisito netto aggiuntivo dato dalla differenza tra il P2G "lordo" assegnato alla banca all’esito dello SREP e la parte dei buffer (CCB e CCyB) che la disposizioni applicative consentono di imputare a copertura della P2G, come prospettato in European Banking Authority (2017).

La banca inoltre ha l’obbligo (o la facoltà) di utilizzare altri strumenti di capitale (AT1 e T2) e passività ammesse nell’aggregato MREL. Riguardo alla composizione dell’aggregato total capital, e alla possibilità di alimentarlo con strumenti diversi dal CET1 (AT1 fino all'1,5% e T2 fino al 2% degli \$RWA\$) si nota una situazione differenziata tra:

  • grandi banche, capaci di accedere al mercato obbligazionario internazionale, seguite in via continuativa dalle agenzie di rating, con emissioni di grossa taglia trattate sui mercati secondari;

  • banche locali, che invece hanno una presenza sull'international bond market limitata o inesistente.

Per le seconde, la parte di requisito sulla quale sono ammessi T2 e AT1 diventa di fatto assolvibile soltanto con CET1, a meno di ricorrere al collocamento presso la clientela al dettaglio, agendo ai limiti della normativa MIFiD sulla protezione degli investitori, e correndo gravi rischi reputazionali. Anche le grosse banche che subiscono un declassamento del rating incontrano difficoltà a collocare obbligazioni subordinate o titoli ibridi esposti al rischio di riduzione o conversione a costi sostenibili, per cui anche per esse il fabbisogno addizionale di total capital è soddisfatto quasi esclusivamente con CET1.

In proposito viene da stigmatizzare il fatto che in un primo momento Basilea III aveva ridimensionato il peso degli strumenti diversi dal CET1. Tuttavia, i successivi interventi in tema di banche sistemiche e di gestione delle crisi hanno di nuovo ampliato il buffer richiesto di altre passività (TLAC o MREL) aggredibili a copertura delle perdite. La presenza di requisiti che si possono assolvere con strumenti diversi dal CET1 (AT1, T2 e passività MREL-eligible) complica ulteriormente il quadro. Le banche devono scegliere un mix ottimale di strumenti sotto il vincolo del rispetto congiunto degli obblighi di CET1, Total capital e MREL. Si tratta di un tema tecnicamente complesso che rinviamo alla seconda parte di questo studio.

Forniamo nella Figura 8 una rappresentazione grafica dei requisiti complessivi previsti attualmente per le banche italiane, distinguendo tra un livello minimo e uno comprensivo delle componenti discrezionali, per le quali sono specificati gli intervalli di variazione Si assume un requisito TLAC-MREL pari al minimo richiesto per le G-SII, che rappresenta un valore indicativo per la calibrazione caso per caso.

CompleteStack
Figura 8. Stratificazione dei requisiti di capitale e MREL: quadro riassuntivo

Fonte: Nostra elaborazione. Per T3 MREL riferimento a requisito minimo TLAC decorrenza 2019. Per CCB valore fully loaded.

Inoltre, utilizzando passività eleggibili di vario genere per soddisfare i requisiti TC e MREL si hanno degli impatti indiretti sul rispetto dei minimi di CET1. Tali effetti non sono ancora del tutto chiari non essendo ancora definite le azioni correttive in caso di violazione dei requisiti MREL. Possiamo però già adesso individuare dei problemi potenziali, che derivano dal cumulo (stacking) dei requisiti.

Nello specifico, l’aggregato MREL ha priorità maggiore rispetto ai buffer macroprudenziali: in altre parole il CET1 disponibile viene prima assorbito dai requisiti MREL non coperti da debito e va a coprire per il residuo il fabbisogno da buffer. In questo modo si evita il doppio conteggio di una stessa dotazione di CET1 a fronte di due requisiti che hanno scopi e calibrazione diversi: i buffer "respirano", cioè sono concepiti per espandersi e contrarsi in risposta alla dinamica macrofinanziaria, mentre il MREL è un requisito fisso, invariante nel tempo.
Tuttavia, posizionando i buffer sopra il MREL, si crea un problema: quando il MREL si riduce per la scadenza di debito eligible che non si riesce a rinnovare, gli strati di requisito posti sopra il MREL si assestano più in basso, e la banca può finire in deficit di CET1 rispetto ai buffer e alla guidance di Secondo pilastro.
Si ritiene che questo caso di carenza patrimoniale, se dovuto a problemi temporanei di illiquidità del mercato dei senior non-preferred bond, non debba essere perseguito con azioni di rigore [61].

Se invece la difficoltà di reintegrare le obbligazioni MREL eligible in scadenza è dovuta a un deterioramento della solvibilità della banca, il grace period non sarebbe concesso e dovrebbero essere attivati gli interventi in caso di pre-crisi o di crisi.

A scopo esemplificativo, nella Figura 9 si mostra la composizione dei requisiti di capitale fissati dalla Banca centrale europea per i gruppi Unicredit, UBI banca e Banca popolare di Vicenza. Si nota nel caso di Unicredit la presenza del G-SII buffer. I Pillar 2 requirement sono differenziati: 2,5% per Unicredit, 1,75% per UBI banca e 3% per la Popolare di Vicenza.

CapitalBanks
Figura 9. La composizione dei requisiti di capitale validi dal 31 marzo 2017 di tre banche italiane

Fonte: Nostra elaborazione su dati riportati nel Bilancio consolidato 2016 delle banche considerate.

Il gruppo Unicredit ha divulgato nel bilancio 2016 anche la Pillar 2 Guidance (1,25% a fronte di un P2R di 2,5%), che riportiamo nella Figura 10, interpretandola come aggiunta al netto della parte compensata con il CCB. La P2G risulta aggiunta ai soli requisiti di CET1 non essendo la stessa riscontrata dalle Autorità con riferimento alla dotazione di capitale totale. Nello stesso grafico si evidenzia anche il requisito per obbligazioni senior MREL eligible (indicate come T3); tale valore si ottiene (come anche , nella Figura 8) per differenza tra il MREL minimo richiesto alle G-SII dal 2019 (16% degli \$RWA\$) e una dotazione di total capital posta pari al requisito minimo dell'8%.

UnicreditMREL
Figura 10. La composizione dei requisiti di capitale e MREL validi dal 31 marzo 2017 del gruppo Unicredit

Fonte: Nostra elaborazione su dati riportati nel Bilancio consolidato 2016 di Unicredit. Il debito senior MREL-eligible è indicato per brevità come T3.

3. Capitale richiesto e capitale disponibile: criteri di misurazione

Dopo aver richiamato il quadro normativo in base al quale si stabiliscono i requisiti di capitale, passiamo ad esaminare i criteri di misurazione del capitale richiesto e del capitale disponibile. La differenza tra queste due grandezze esprime, se positiva, un fabbisogno di capitale da colmare che impatta negativamente sul valore delle azioni.

Si considerano, nell’ordine, i principi contabili IFRS, la composizione del capitale disponibile, la determinazione del capitale richiesto dalla normativa e dal processo di supervisione, per concludere con un modello che interpreta la formazione del capital gap (\$KGAP\$), ovvero del divario tra capitale richiesto e disponibile.

3.1. Principi contabili IFRS e capitale regolamentare

Le banche europee redigono i loro bilanci secondo i principi contabili IFRS, recepiti dalla normativa comunitaria [62]. Sono però le Autorità bancarie a dettare le istruzioni applicative per la redazione dei bilanci, in maniera coordinata con le segnalazioni di Vigilanza (Schwarz, Karakitsos, Merriman, & Studener, 2014).

I valori esposti in bilancio riguardano in larga prevalenza strumenti finanziari. A questi si applicherà, dal 2018, il nuovo principio IFRS 9 che modifica la classificazione degli strumenti finanziari adottata dal precedente IAS 39 del 1996. L’IFRS 9 prevede tre categorie distinte in base ai criteri di valutazione ad esse applicati:

  1. strumenti fruttiferi di interessi valutati al costo ammortizzato (amortized cost, AC), che sono detenuti con lo scopo esclusivo di incassare i flussi di cassa contrattualmente previsti; non si distingue più, come faceva lo IAS 39, tra titoli di debito held to maturity da un lato, e prestiti e altri crediti (loans and receivables); rientrano qui principalmente gli impieghi in prestiti e i titoli obbligazionari giudicati illiquidi e/o acquistati per essere mantenuti fino alla scadenza; sono attribuiti al banking book;

  2. strumenti (in prevalenza fruttiferi di interessi, ma non solo) valutati al fair value con variazioni rilevate in riserve di rivalutazione per other comprehensive income (FVOCI) ricomprese nel patrimonio; sono attività detenute sia per incassare i flussi contrattuali, sia per essere cedute su un mercato secondario; corrispondono nella sostanza agli strumenti available for sale (AFS) dello IAS 39; come i precedenti sono attribuiti al banking book;

  3. strumenti valutati al fair value con variazioni rilevate in conto economico (through profit and loss da cui FVTPL); si tratta di una categoria residuale rispetto alle due precedenti, che comprende principalmente gli strumenti finanziari derivati e le posizioni in titoli, valute e commodity classificate nel trading book.

La classificazione di uno strumento in una categoria deve essere giustificata dal modello di business che informa la sua gestione.

IFRS 9 e valutazione dei crediti

Con riferimento ai prestiti e ai titoli valutati al costo ammortizzato e agli investimenti in titoli ex AFS, il nuovo principio IFRS 9 ha modificato profondamente i criteri degli accantonamenti per perdite su crediti (Cohen & Edwards, 2017).

Il previgente principio IAS 39 si basava sul criterio dell'incurred loss per cui era spesabile in conto economico soltanto la riduzione di valore attestata da fatti accaduti (un ritardo di pagamento, la perdita della fonte di reddito da parte del debitore, la caduta di valore del bene a garanzia). In questo modo si intendeva contrastare le politiche di sovra-accantonamento in presenza di margini redditauli ampi, tese a stabilizzare l’utile a bilancio e i dividendi. Tale buona intenzione ha però fornito alle banche il pretesto per adottare sistematicamente prassi non meno criticabili. Infatti, negli anni precedenti lo scoppio della crisi e in quelli immediatamente successivi, il filtro dell'incurred loss è stato applicato per ritardare il declassamento della qualità del credito e per giustificare accantonamenti sottodimensionati rispetto alle perdite attese, la prassi nota come extend and pretend.

Come già ricordato, le autorità di supervisione europee, con il comprehensive assessment del 2014, hanno forzato l’applicazione di criteri più severi, che hanno prodotto impatti economici pesanti su diverse banche non solo italiane.

Per scoraggiare ulteriormente le prassi extend and pretend, l’IFRS 9 introduce un approccio forward looking per il quale:

  • sui crediti in bonis, sono ammessi accantonamenti prudenziali a fronte delle perdite attese entro un anno;

  • sulle esposizioni che subiscono un downgrading rispetto all’originazione, o che sono classificate come crediti deteriorati, sono rese più stringenti le regole per le rettifiche; in entrambi i casi la banca deve rilevare rettifiche commisurate alle perdite attese sulla vita intera (lifetime expected losses) del credito.

I nuovi principi contabili statunitensi (Financial Accounting Standards Board, 2016) adottano invece un approccio unitario basato sul concetto di current expected credit losses per il quale si deve sempre apportare una rettifica di valore pari alle perdite attese sull’intera vita dell’operazione, anche sulle poste sane.
La differenza tra orizzonte di stima annuale e lifetime è rilevante, se si pensa che nel primo caso la perdita attesa di un credito è commisurata alla sua probabilità di default (pd) a 12 mesi, mentre nel secondo è legata alla probabilità cumulativa di default sull’orizzonte di scadenza ultima, che per operazioni con scadenza medio-lunga può essere un multiplo della \$pd\$ annuale. La perdita attesa si ottiene come \$el = pd xx lgd\$, dove \$lgd\$ è l’incidenza sull’esposizione delle perdite in caso di default.

Si stima che l’IFRS 9 produrrà un impatto negativo sul reddito e sul patrimonio delle banche che andrà a sommarsi a quello indotto dalle azioni dei supervisori in contrasto alla ritardata emersione delle situazioni deteriorate. Di conseguenza, il Comitato di Basilea ha proposto di differire la prima applicazione del nuovo criterio contabile e anche l’EBA si è espressa nel marzo 2016 a favore di una diluizione in cinque anni del suo impatto economico [63].
In un’audizione sul Banking package, la presidente del Supervisory Board della BCE Danièle Nouy ha sollecitato un intervento normativo sugli impatti contabili della prima adozione dell’IFRS 9 [64]. La Banca d’Italia ha avviato a inizio maggio 2017 una consultazione sull’adeguamento delle disposizioni in tema di bilanci al principio IFRS 9 (Banca d’Italia, 2017b).

Per un’analisi approfondita dei procedimenti di valutazione da applicare alle esposizioni interessate dall’Ifrs 9 si rinvia a Resti & Paulicelli (2016).
Gli strumenti valutati al fair value e le esposizioni di livello 3

Dopo la crisi globale del 2008, gli standard contabili sono stati modificati per dare maggiore trasparenza ai valori di bilancio suscettibili di manipolazione, con l’introduzione da parte dello IASB, nel marzo 2009, della cosiddetta "gerarchia del fair value".

La gerarchia del fair value prevede tre livelli (IFRS 7, par. 27A):

  • livello 1, se lo strumento finanziario è quotato in un mercato attivo;

  • livello 2, se il fair value è misurato sulla base di tecniche di valutazione che prendono a riferimento parametri osservabili sul mercato, diversi dalle quotazioni dello strumento finanziario (ad esempio, una struttura dei tassi per scadenza comparabile per classe di rischio);

  • livello 3, se il fair value è calcolato sulla base di tecniche di valutazione che prendono a riferimento parametri non osservabili sul mercato (ad esempio, premi per l’illiquidità o distribuzioni di probabilità stimate soggettivamente).

Tale emendamento all’IFRS 7 è stato recepito in ambito europeo con il Regolamento (CE) n. 1165 del 27 novembre 2009 della Commissione Europea.

L’IFRS 7 pone in luce una serie di criticità nella stima del fair value che sono più evidenti nel caso delle esposizioni di livello 3. Sono così riassumibili:

  • ampiezza dello spread tra prezzi bid (applicati all’originazione) e di close-out (negoziati in caso di cessione o estinzione anticipata);

  • rischio di modello, conseguente alla scelta di un approccio valido per strumenti liquidi ma troppo semplificato o irrealistico per strumenti illiquidi;

  • incertezza dei parametri di valutazione, elemento distintivo delle esposizioni di livello 3;

  • necessità di un aggiustamento per l’illiquidità, e sua indeterminatezza;

  • costi futuri di funding e di gestione della posizione, rilevante nei contratti a lungo termine.

Le esposizioni classificate al livello 3 sono presenti tanto nel banking quanto nel trading book, e comprendono le seguenti tipologie principali (European Central Bank, 2014, p. 218):

  • esposizioni valutate al fair value diverse da derivati

    • obbligazioni e titoli di debito non quotati;

    • portafogli di prestiti esposti al fair value;

    • esposizioni da cartolarizzazioni (ABS, tranche di CDO);

    • investimenti in immobili;

    • partecipazioni e investimenti in private equity.

  • esposizioni in derivati complessi valutati con modelli che fanno uso di parametri non osservabili sul mercato.

Si tratta normalmente di esposizioni illiquide, che soltanto un numero limitato di intermediari market maker è in grado di valutare (come nel caso dei derivati complessi e dei titoli da cartolarizzazioni), quando non sono del tutto prive di un mercato secondario attivo. Nel primo caso la controparte non specializzata che ha negoziato lo strumento con il market maker tende a recepire i fair value da questo comunicati. Nel secondo caso degli strumenti illiquidi, si stima di solito un’ampia forbice tra un valore economico equo basato sui flussi di cassa scontati e un possibile valore di liquidazione, penalizzato dall’opacità dell’esposizione e dalla difficoltà di reperimento di un cessionario. Gran parte della variabilità dei fair value di queste esposizioni dipende dalla scelta, eminentemente discrezionale, di dove posizionarsi all’interno della forbice.

Le esposizioni classificate al level 3 sono normalmente presenti nei portafogli di altri intermediari, tipicamente fondi chiusi di private debt e private equity, fondi sovrani e hedge fund, che possono compensare l’incertezza dei valori correnti degli strumenti con la lunga durata del periodo di detenzione e la possibilità di limitare le richieste di smobilizzo dei quotisti investitori. È illusorio sperare che le banche possano superare queste barriere conoscitive grazie a processi di valutazione più rigorosi in quanto sottoposti alla review dei Supervisori.

Le esposizioni di livello 3 concorrono in maniera incerta al capitale netto di bilancio, influenzato dalle variazioni di fair value passate subito a reddito, e soprattuto al CET1, interessato anche da quelle accolte in riserve di rivalutazione AFS [65]. Inoltre, pongono seri problemi nella quantificazione degli \$RWA\$ e del capitale richiesto.
Per correggere il primo effetto, si applicano dei filtri prudenziali (come si precisa in seguito) che portano a sterilizzare gli utili da variazione del fair value su queste esposizioni nel calcolo del CET1. Non è semplice invece verificare la correttezza dell’impatto sul capitale richiesto. Infatti, le stesse Autorità di vigilanza sono in difficoltà nell'auditing delle misure di valore e di rischio associate a questi strumenti, come è chiaramente emerso negli esercizi AQR svolti dalla BCE dal 2014.

Le regole di auditing delle level 3 exposures indicate nel manuale operativo sull’AQR 2014 (European Central Bank, 2014, pp. 214-255) sono in effetti molto meno prescrittive e riscontrabili rispetto a dati oggettivi di quelle applicate nello stesso documento agli impieghi creditizi, per la stessa natura delle esposizioni di livello 3. Ad esempio, le tipologie di strumenti derivati non sono classificate in maniera esplicita, si fissano dei criteri generali di appropriatezza, coerenza e completezza dei modelli di pricing che tuttavia non bastano a convalidare le valutazioni da essi ottenute, che dipendono in larga parte da input non verificabili. Nelle situazioni in cui il team di Vigilanza non dispone di competenze sufficienti, si prevede di ricorrere a valutazioni indipendenti, ma in questo caso si sposta semplicemente la responsabilità di una valutazione intrinsecamente incerta dall’Autorità a soggetti terzi.
Principi contabili, politiche di bilancio e volatilità degli utili

Applicando i principi IFRS, le banche espongono portafogli di attività e passività finanziarie rivalutati per le variazioni del fair value oppure sottoposti a impairment. I dati di bilancio dovrebbero così rispecchiare meglio del costo storico il valore corrente di mercato o il possibile valore di liquidazione. Nella realtà, i principi sono applicati con un certo margine di discrezionalità e pertanto le prassi contabili possono cambiare nel tempo, oltre ad essere influenzate dall’atteggiamento, pure in evoluzione, delle Autorità di supervisione prudenziale. Di conseguenza, i valori esposti in bilancio non rispecchiano né il valore del capitale originariamente investito, o raccolto, né il valore nel caso di un’ipotetica cessione alle condizioni correnti, ammesso che sia determinabile con obiettività. Specularmente, gli impatti economici delle rivalutazioni al fair value e delle rettifiche per impairment sono molto variabili di anno in anno, imprimendo così al reddito d’esercizio una strutturale volatilità legata ai cicli dei mercati finanziari e del credito. Quando le variazioni di fair value non transitano dal conto economico ma sono accolte in un’apposita riserva patrimoniale, esse producono comunque un impatto sul capitale proprio, che può riverberarsi sul capitale regolamentare, come si precisa in seguito (v. La dotazione di capitale regolamentare disponibile).

In passato, le banche tendevano a smussare questa volatilità con le politiche di bilancio.

A tal fine, gli schemi di bilancio bancario pre-IFRS definiti nel D.Lgs 87 del 27 gennaio 1992 prevedevano un fondo rischi bancari generali che costituiva un buffer di capitale alimentato con accantonamenti a conto economico negli anni buoni, e riversabile sempre a conto economico negli anni cattivi.

I principi contabili internazionali hanno ostacolato quel tipo di pratiche. Tuttavia, nei limiti in cui sono attuabili, non sempre le politiche di bilancio stabilizzano il reddito di esercizio per approssimarlo al suo valore normalizzato (concetto peraltro non facile da tradurre in misura), potendo essere applicate anche in maniera prociclica, fino ai casi patologici nei quali si occultano perdite conclamate con operazioni di ingegneria contabile con strumenti derivati (come i famigerati Alexandria e Santorini del gruppo MPS [66]), o più banalmente con l’occultamento di perdite di valore durevoli già accertate.

Nonostante i tentativi di adeguare i principi contabili internazionali all’innovazione degli strumenti finanziari e al quadro regolamentare post-crisi, rimane sempre difficile ricavare dell’informativa di bilancio di una banca una misura robusta della sua capacità di reddito sulla quale basare la valutazione fondamentale delle azioni. I processi di business e di creazione di valore di una banca richiedono, per essere rappresentati e monitorati, dei periodi di osservazione pluriennali che coprano interi cicli dei mercati del credito e degli strumenti finanziari, secondo un approccio through-the-cycle (TTC) (Chen, 2013, p. 60). Tali cicli possono peraltro essere sfasati tra aree d’affari: ad esempio, gli impieghi a clientela PMI domestica, i prestiti per sviluppo immobiliare, i crediti a paesi emergenti, piuttosto che l’investimento in titoli di Stato o i servizi di investimento alla clientela seguono dinamiche differenti tra loro per durata del ciclo, timing dei punti di svolta e impatti conseguenti sul reddito. È illusorio sperare che le valutazioni condotte alla fine di un singolo esercizio per adeguamento al fair value o per impairment riescano a catturare in maniera robusta l’impatto atteso di tali dinamiche cicliche. È più facile che il dato di bilancio tenda a stimarle per difetto, salvo poi recepirle con interventi correttivi, accentuando così l’erraticità del risultato d’esercizio prima evidenziata.

3.2. La dotazione di capitale regolamentare disponibile

Adottiamo una semplice mappatura del bilancio della banca in modo da chiarire il calcolo del capitale disponibile, la formazione del fabbisogno di capitale richiesto, la sua copertura col capitale disponibile e il deficit/eccesso di capitale che ne risulta. Denominiamo quest’ultimo capital gap (\$KGAP\$).

Il valore contabile del capitale netto è la base di partenza per il calcolo del capitale regolamentare nella sua componente di maggiore qualità, data dal CET1.
Non esporremo qui il procedimento di calcolo del CET1 col grado di dettaglio previsto dalle Disposizioni di vigilanza [67]. Ci limitiamo a fornire uno schema essenziale dal quale si evidenziano le differenze tra i valori di bilancio e quelli riconosciuti a fini regolamentari [68].

Si parte dal valore del patrimonio netto di bilancio, dato dalla somma algebrica delle voci seguenti

  • Capitale sociale;

  • Sovrapprezzi di emissione;

  • Riserve (di utili);

  • (deduzione) Azioni e strumenti di CET1 propri in portafoglio;

  • Riserve da valutazione, originate principalmente

    • dalle variazioni di valore delle poste valutate al fair value che non transitano dal conto economico, con i filtri e le deroghe di seguito specificate;

    • dagli utili/perdite attuariali derivanti dalla valutazione delle passività connesse ai c.d. Employee benefits (ad esempio TFR e fondi pensione a prestazione definita); sono inclusi nel CET1 con introduzione progressiva (60% nel 2017, 80% nel 2018, 100% dal 2019);

  • Utili di periodo (al netto di eventuali dividendi che si prevede di distribuire, e previa autorizzazione della Vigilanza e verifica da parte dei revisori esterni);

  • (deduzione) Perdite di periodo; nel regime transitorio (fino al 2017) possono essere dedotte per una quota minima dal CET1 e per la differenza dall’AT1, se capiente [69].

Si sottraggono gli elementi deducibili, che distinguiamo in due tipologie

  • la prima comprende poste che si presume non siano idonee a conservare il loro valore e assorbire perdite in caso di crisi, tra cui ricordiamo le principali

    • immobilizzazioni immateriali, costituite principalmente dall’avviamento su partecipazioni acquisite, oltre che da investimenti in software;

    • valore dei diritti relativi al servicing dei mutui ipotecari;

    • attività per imposte differite, in inglese deferred tax assets (DTA) (v. approfondimento al punto successivo) [70]; anticipiamo la loro composizione per tipologie principali

      • DTA derivanti da differenze temporanee tra rettifiche a conto economico civilistiche e fiscali; si tratta tipicamente di accantonamenti e svalutazioni civilistiche eccedenti soglie massime di deducibilità nell’esercizio e ammesse alla deduzione rateizzata in una pluralità di periodi d’imposta successivi); come si vedrà, le rettifiche relative a crediti per cassa verso clientela hanno un trattamento differenziato rispetto alle rettifiche di altra natura (su garanzie e impegni, crediti verso banche, altri rischi ed oneri, immobilizzazioni, passività da fondi pensione e TFR); sono dedotte per l’importo eccedente una franchigia pari al 10% del CET (computato al netto delle altre deduzioni [71]; come si precisa in seguito, si può applicare una successiva deduzione sulla somma dei valori non dedotti in franchigia dei DTA di questa specie (prodotte da differenze temporanee) e degli investimenti significativi in istituzioni finanziarie; alla quota eccedente la franchigia si applica un regime transitorio lungo (fino al 2023) nel quale possono essere dedotte per una quota ridotta [72];

      • DTA originati da differenze permanenti ovvero da perdite fiscali riportate a nuovo e deducibili negli esercizi successivi, nonché dalla parte non dedotta degli oneri finanziari figurativi ACE [73]; sono dedotti dal CET1 senza franchigia; si applica un regime transitorio (fino al 2018) nel quale possono essere dedotti per una quota ridotta. [74];

  • la seconda comprende gli strumenti di CET1 emessi da istituzioni finanziarie esterne al perimetro di consolidamento, dedotti per evitare il doppio conteggio e la conseguente inflazione del capitale regolamentare a livello di sistema; si considera la somma delle posizioni dirette, indirette o sintetiche, al netto delle posizioni corte giudicate compensabili; si ha la seguente composizione

    • investimenti in istituzioni finanziarie che detengono con la banca una partecipazione incrociata reciproca (cross holding) che l’autorità competente ritiene sia stata concepita per gonfiare artificialmente i fondi propri della banca; trattandosi di prassi improprie, queste posizioni sono dedotte dal CET1 senza franchigie e non è concesso un regime transitorio;

    • investimenti non significativi (inferiori al 10% del capitale sociale della partecipata) in strumenti di CET1 emessi da istituzioni finanziarie; sono considerati insieme agli altri strumenti incusi nei total own funds (AT1 e T2) detenuti nei confronti delle stesse istituzioni; se la somma (CET1+AT1+T2) delle posizioni verso istituzioni in cui si detengono posizioni non significative in strumenti di CET1 supera una franchigia del 10% del CET1 (computato al netto delle altre deduzioni [75]), la differenza deve essere dedotta proporzionalmente e rispettivamente dalle dotazioni di CET1, AT1 e T2 della banca (da AT1 e T2 se queste sono capienti); la parte non dedotta è trattata come componente degli \$RWA\$ con peso uguale a 250%; nel regime transitorio (fino al 2017) la quota di deduzione dal CET1 è ridotta rispetto al peso sul total capital e la differenza è deducibile dall’AT1, se capiente [76];

    • investimenti significativi (superiori al 10% del capitale della partecipata) in strumenti di CET1 emessi da istituzioni finanziarie; devono essere dedotti per l’importo eccedente una franchigia del 10% del CET1 (computato al netto delle altre deduzioni [77]);

  • si applica una deduzione sulla somma dei valori non dedotti a fronte di (a) DTA prodotti da differenze temporanee e (b) di investimenti significativi in istituzioni finanziarie in quanto rientranti nelle rispettive franchigie pari al 10% del CET1 residuo; deve essere dedotta l’eccedenza di tale somma rispetto a una franchigia "di secondo livello" pari al 17,65% dal 2018 (15% negli anni precedenti) del CET1 (calcolato al netto delle deduzioni precedenti).

Il modello di valutazione delle azioni qui presentato è concepito per essere applicato alla situazione consolidata di gruppi bancari o a singole banche non appartenenti a gruppi. In entrambi i casi ipotizziamo assenti o poco rilevanti gli investimenti in strumenti di capitale di altri intermediari (non ricompresi nel perimetro di consolidamento) e le connesse deduzioni dal capitale.

Si applicano poi i c.d. filtri prudenziali che rettificano l’impatto sul capitale delle poste valutate al fair value; ricordiamo i principali:

  • si sterilizzano le variazioni di fair value di passività dipendenti dal merito di credito della banca, e quelle dipendenti da parametri incerti (in particolare posizioni in derivati classificate al Livello 3 della gerarchia del fair value);

  • si sterilizzano le variazioni delle riserve di rivalutazione sul portafoglio AFS, laddove si applichi l’apposita opzione, limitatamente alle esposizioni verso Amministrazioni centrali (v. approfondimento in punto successivo); questa correzione può incrementare o ridurre il capitale di vigilanza rispetto al dato di bilancio a seconda che la riserva sia rispettivamente negativa (da perdite non realizzate) o positiva (da utili non realizzati); si punta così a ridurre la variabilità del CET1 (ad esempio, si sostiene il valore del capitale regolamentare in scenari di crisi del debito sovrano) [78];

  • nel caso della banche autorizzate al metodo IRB per il rischio di credito, si deduce l'eccesso delle perdite attese rispetto alle rettifiche di valore su crediti, che riduce il CET1 quando gli accantonamenti contabili sono inferiori alle stime prudenziali; nel regime transitorio (fino al 2017) possono essere dedotte per una quota minima dal CET1 e per la differenza dedotti 50% dall’AT1 e 50% dal T2, se capienti [79].

L’impatto delle variazioni di fair value del portafoglio AFS

Merita un approfondimento il trattamento dei profitti e perdite non realizzati rilevati su portafogli AFS, ai quali è allocata la maggior parte dei titoli di proprietà delle banche italiane, con un’elevata incidenza delle emissioni del Tesoro italiano [80]. Le variazioni del loro valore di mercato sono potenzialmente rilevanti, per il peso di questa componente dell’attivo e per la sua durata media, che può tradursi in accentuata volatilità di prezzo in risposta agli shock della struttura dei tassi sovrani, e in particolare dello spread di rendimento BTp-Bund.

Come impattano queste componenti del comprehensive income sul capitale disponibile? La risposta non è univoca, né semplice, per la stratificazione di fonti normative che regolano il trattamento di questi valori nel calcolo del CET1.

Come regola generale, con riferimento alla totalità delle esposizioni AFS, il CRR del 2013 impone alle banche di includere integralmente nel CET questi profitti e perdite non realizzati. Per un periodo transitorio il CRR consente che siano solo parzialmente inclusi o dedotti dal CET 1, secondo un approccio gradualmente crescente, per giungere all’integrale recepimento dal 1° gennaio 2018 (v. Tabella 5).

Tabella 5. Quote minime di inclusione/deduzione dal CET1 dei profitti e perdite non realizzati derivanti da esposizioni AFS
dal 1° gennaio 2014 dal 1° gennaio 2015 dal 1° gennaio 2016 dal 1° gennaio 2017 dal 1° gennaio 2018

40%

50%

60%

80%

100%

Fonte: CRR, Art. 467-468

Tuttavia, la CRR prevede una deroga ulteriore e specifica per il portafoglio Titoli di Stato AFS attribuito al banking book [81], in ragione della sua importanza, e in coerenza con il trattamento di favore accordato nel calcolo dei requisiti di capitale (ponderazione 0% per il rischio di credito, v. Determinazione del capitale regolamentare richiesto). Questa deroga consente alle Autorità di vigilanza competenti (BCE o Autorità nazionali) di optare per la sterilizzazione dei profitti e perdite non realizzati, in continuità con il regime previgente consentito dalle linee guida in Committee of European Banking Supervisors (2004). Tale trattamento si applica sino all’adozione da parte della Commissione Europea del regolamento di approvazione del nuovo principio IFRS 9 in sostituzione dello IAS 39. Ciò è avvenuto il 22 novembre 2016, data in cui la Commissione ha approvato il regolamento 2016/2067 (European Commission, 2016d), entrato in vigore il 19 dicembre 2016, stabilendo che l’applicazione dell’IFRS 9 deve avvenire, al più tardi, dall’esercizio 2018.

L’altro evento rilevante è stato l’emanazione, da parte della BCE, del Regolamento (UE) n. 2016/445 (European Central Bank, 2016) sull’esercizio delle opzioni e delle discrezionalità previste dal diritto dell’Unione. In tale provvedimento, entrato in vigore il 1° ottobre 2016, la stessa BCE, in quanto Autorità di supervisione competente per le banche "significative", ha deciso di non esercitare la discrezionalità relativa alla sterilizzazione totale delle variazioni di fair value del portafoglio titoli di Stato AFS.

Come conseguenza, a partire dal 1° ottobre 2016 risulta applicato alle banche significative il regime transitorio ordinario previsto per le esposizioni AFS, che prevede il progressivo incremento delle quote di inclusione/deduzione come da Tabella 5 fino al pieno recepimento delle stesse dal 2018.

Ad esempio, fino al 30 settembre 2016, il Gruppo MPS, per effetto della normativa vigente fino a tale data, ha esercitato la facoltà di escludere [pienamente] tali profitti e perdite non realizzati dal CET1, ma ha dovuto poi includerne il 60% nel bilancio al 31 dicembre 2016.(Bilancio consolidato 2016, p. 438)

Con riferimento alle banche meno significative, la Banca d’Italia (autorità competente) si è invece orientata alla conferma della sterilizzazione totale dei profitti/perdite non realizzati su titoli di Stato AFS fino all’entrata in adozione del Regolamento UE di approvazione dell’IFRS 9 (European Commission, 2016d). Tuttavia, l’organo di Vigilanza nazionale, come spiegato in Banca d’Italia (2017a), si è posto la questione interpretativa in merito alla data da considerare per la cessazione della sterilizzazione piena, non essendo chiaro se l’adozione dell’IFRS 9 decorra dall’entrata in vigore del Regolamento UE 2016/2067 (19 dicembre 2016) o dal termine ultimo per l’applicazione dell’IFRS 9 da parte delle banche (esercizio che comincia il 1° gennaio 2018). Ha quindi richiesto un chiarimento formale alle Autorità Europee per sciogliere questo dubbio interpretativo.

Se dovesse essere avallata la seconda interpretazione "estensiva" della facoltà di piena sterilizzazione, eventuali oscillazioni del valore di mercato dei titoli di Stato avrebbero un impatto differenziato tra banche sottoposte ai due diversi supervisori limitatamente al 2017:

  • le banche significative dovrebbero includere l'80% dei profitti o perdite non realizzati sul relativo portafoglio AFS;

  • le banche meno significative potrebbero invece confermare l’opzione per la sterilizzazione totale.

Il trattamento è destinato ad allinearsi dal 2018. In caso di innalzamento della struttura dei rendimenti, tra le banche meno significative si avrebbe un impatto fortemente negativo sul CET1 concentrato nell’esercizio 2018 che potrebbe avere effetti destabilizzanti per alcune di esse.

I deferred tax assets (DTA)

Meritano una digressione anche i deferred tax assets (DTA), costituiti da attività per benefici fiscali attesi differiti nel tempo, per le quali Basilea III ha imposto la deduzione nel calcolo del CET1. Si tratta di una scelta prudenziale dovuta al fatto che i DTA non sono crediti tributari esigibili con certezza, bensì attualizzazioni di risparmi di imposte future attesi che si concretizzano soltanto in presenza di redditi futuri capienti.

Come anticipato in tema di deduzioni dal CET1, i DTA appartengono a due tipologie principali distinte in base alla natura delle differenze tra reddito civilistico e fiscale che le originano:

  • DTA derivanti da differenze temporanee tra rettifiche a conto economico civilistiche e fiscali; si tratta tipicamente di accantonamenti e svalutazioni civilistiche eccedenti soglie massime di deducibilità nell’esercizio e ammesse alla deduzione rateizzata in una pluralità di periodi d’imposta successivi; al loro interno dobbiamo distinguere tra

    • DTA da differenze temporanee su crediti per cassa verso clientela, preponderanti per importo e interessati da ripetuti interventi normativi che ne hanno differenziato il trattamento a seconda della data di formazione;

    • DTA da differenze temporanee di altra natura (su accantonamenti a fronte di garanzie e impegni oppure altri rischi ed oneri, rettifiche su crediti verso banche, svalutazione di immobilizzazioni, rivalutazione di passività da fondi pensione e TFR);

  • DTA originate da differenze permanenti ovvero da perdite fiscali e oneri finanziari figurativi ACE non dedotti;

I DTA sono associati alle imposte sui redditi, sia per IRES, sia per IRAP. Non si approfondiscono le diverse regole di trattamento fra i due tributi.

Si tratta di asset rappresentativi di benefici futuri eventuali in quanto soggetti al rischio di mancata deduzione in caso di redditi incapienti. Per tenere conto di tale incertezza, il principio contabile IAS 37 prescrive il probability test: le attività in questione possono essere iscritte a bilancio soltanto se è probabile che sarà realizzato un reddito imponibile a fronte del quale le stesse potranno essere utilizzate. In concreto, per i principi generali fissati nello IAS 37, la probabilità attesa di utilizzo della massa deducibile deve essere superiore al 50%.

Se il probability test è superato, i DTA possono essere iscritti nell’attivo di bilancio a un valore pari al valore attualizzato dei benefici fiscali futuri attesi. Questi sono calcolati in base a una serie di conti economici previsionali associati al business plan della banca, sulla base degli imponibili, delle deduzioni massime da questi consentite e delle aliquote fiscali previste. Si applica un fattore di sconto per riflettere il grado di incertezza del beneficio, tenendo conto di parametri di mercato osservabili.

Le banche italiane hanno accumulato un ingente massa di DTA per due fattori principali:

  • fino al 2015 hanno operato norme fiscali che limitavano le aliquote massime di deduciblità, in percentuale sullo stock delle rettifiche di valore negative sui crediti a clientela; si è pertanto formata una massa di DTA da differenze temporanee;

  • dal 2013, anche per le sollecitazioni dei Supervisori, molti istituti hanno operato drastiche svalutazioni degli NPL che hanno prodotto cospicue perdite di esercizio; pertanto, in aggiunta alle precedenti, si sono formate DTA da perdite a nuovo e benefici ACE inutilizzati.

Ripercorriamo in estrema sintesi i cambiamenti normativi fondamentali che hanno prodotto tali dinamiche, o ne hanno corretto gli effetti indesiderati.

Cominciamo dalle DTA da differenze temporanee. Fino all’esercizio 2012 operavano limiti massimi di deducibilità fiscale delle svalutazioni su crediti a clientela, che la normativa vigente limitava allo 0,30% dei crediti iscritti a bilancio, consentendo di dedurre le eccedenze in quote costanti su ben 18 anni; le condizioni sono state modificate in senso favorevole (0,5% massimo con eccedenza dedotta in 9 anni) su crediti erogati a decorrere dall’esercizio 2009 [82].

Negli anni precedenti l’entrata in vigore delle regole di Basilea III, che avrebbero disposto la deduzione dei DTA dal CET1, il Governo italiano ha attuato appositi provvedimenti per mitigare l’impatto negativo sui fondi propri delle banche, consentendo la conversione dei DTA in crediti tributari "certi". Per la precisione, il DL n. 25 del 29 dicembre 2010, art. 2, comma 55-57, ha introdotto un meccanismo di conversione in crediti fiscali dei DTA c.d. "qualificati" ovverosia quelli di natura temporanea originati da rettifiche di valore su crediti o svalutazione dell’avviamento su partecipazioni o altre attività immateriali. I DTA convertiti in crediti verso l’Erario, per le quote annue riversate in conto economico, risultano "monetizzabili" con certezza per compensazione con le passività fisco-previdenziali correnti della banca, oppure con richiesta di rimborso, a prescindere dalla presenza di un imponibile residuo capiente dal quale dedurle. In presenza di una perdita civilistica, anche in caso di liquidazione o procedure concorsuali, era consentita una conversione parziale in crediti esigibili.

I DTA convertiti in crediti per questa via superavano d’ufficio il probability test per l’iscrizione nell’attivo, come sancito da una comunicazione delle Autorità di Vigilanza (Banca d’Italia, 2012).

Il successivo DL n. 201 del 6 dicembre 2011 e la Legge di stabilità 2014 hanno esteso il campo di applicazione della conversione all’IRAP.

La Legge di Stabilità 2014 (L. 27 dicembre 2013, n. 147 art. 1, commi 158-161) aveva modificato, a partire dall’esercizio 2013 e con specifico riferimento alle banche il regime fiscale delle svalutazioni su crediti verso la clientela consentendone la deduzione in quote costanti su 5 anni.

La formazione di nuovi DTA da differenze temporanee su crediti a clientela è stata bloccata dal DL n.83 del 27 giugno 2015, il quale:

  • ha abolito la distinzione previgente tra "svalutazioni" e "perdite su crediti";

  • ha reso immediatamente e integralmente deducibili le rettifiche di valore su crediti per cassa a clientela appostate nel bilancio civilistico a decorrere dall’esercizio 2016 [83];

  • ha stabilito che i DTA contabilizzati negli anni precedenti a fronte di svalutazioni su crediti per cassa a clientela, avviamenti e altre attività immateriali, che erano deducibili in 18, 9 o 5 anni ai sensi della precedente normativa, andassero a costituire uno stock pregresso indistinto ammortizzabile in 10 anni a partire dal 2016 fino al 2025, fatta salva la possibilità di optare per la conversione in crediti ai sensi del DL 25/2010;

  • ha eliminato la convertibilità in crediti delle nuove DTA relative ad avviamenti e altre attività immateriali (iscritte in bilancio dal 2015 in avanti), restando, tuttavia, garantita (come appena detto) l’'applicabilità del regime di trasformabilità allo stock di tali DTA esistente a fine 2014.

Nel 2016, la Commissione Europea ha ravvisato nella conversione di DTA "qualificate" in crediti ex DL 25/2010 un aiuto di Stato non compatibile con il mercato unico, trattandosi di attivi esposti a rischio di indeducibilità futura sui quali lo Stato assume un’obbligazione ad esigibilità certa. Si sono pertanto ristrette le condizioni di tale conversione con il DL n. 59 del 3 maggio 2016, che ha subordinato la trasformabilità in crediti delle DTA "qualificate" interessate dal DL 25/2010 all’esercizio da parte della banca di un’opzione irrevocabile in tal senso collegata alla concessione di una garanzia statale a titolo oneroso (commissione dell'1,5% annuo) sulla parte di tali DTA formatasi a fronte di imposte non ancora versate [84]. La commissione è dovuta dall’esercizio 2016 fino al 2030 o alla data, se precedente, di conversione in crediti; questo ha comportato oneri ingenti per le banche che hanno optato per la conversione al fine di rimpinguare un CET1 inadeguato.

Il discorso è più semplice per i DTA da differenze permanenti a fronte di perdite fiscali o mancato utilizzo del beneficio ACE:

  • a differenza delle precedenti, tali poste hanno una durata illimitata in quanto non è prevista una scadenza per la loro deduzione dall’imponibile; possono essere perse definitivamente soltanto se la banca è posta in liquidazione, ma anche in quel caso il loro valore può essere traslato sull’acquirente degli attivi;

  • tuttavia, la loro iscrizione nell’attivo di bilancio è condizionata al superamento del probability test; in caso di non superamento, questi valori degradano allo stato di attività future potenziali riportate (idealmente) sotto la linea;

  • nel calcolo del CET1 sono soggette a deduzione senza concessione di franchigie esenti, nei termini descritti in precedenza, con applicazione graduale nel periodo 2014-2017 [85].

In conseguenza della serie di innovazioni normative qui riassunta, nella situazione on balance e off balance delle banche italiane si trova una casistica varia di DTA e poste collegate con diversa probabilità di utilizzo futuro, e diverso trattamento ai fini della deduzione dal CET1.

Riassumendo quanto detto, identifichiamo cinque fattispecie principali:

  1. crediti derivanti dalla conversione delle DTA qualificate da differenze temporanee ai sensi del DL 25/2010; sono a tutti gli effetti crediti tributari di natura corrente;

  2. DTA "qualificati" da differenze temporanee convertibili in crediti ai sensi del DL 25/2010 in quanto la banca ha esercitato l’opzione irrevocabile di trasformazione ex DL 59/2016 versando la commissione di garanzia collegata; in virtù della loro certa esigibilità futura, non sono dedotti dal CET1 e sono censiti come crediti con coefficiente di rischio del 100%;

  3. altri DTA da differenze temporanee non convertibili in crediti, che sono dedotte per l’importo eccedente una franchigia pari al 10% del CET, come prima specificato [86]; le principali tipologie sono

    1. vecchi DTA un tempo "qualificati" per i quali non si è optato per la conversione; formano uno stock indistinto dedotto in dieci quote annuali nel periodo 2016-2025;

    2. DTA originati su riserve negative di valutazione a fronte di perdite non realizzate su esposizioni AFS e su posizioni di cash flow hedging; variano in funzione del valore lordo delle riserve a cui sono collegate;

    3. DTA post 2015 un tempo "qualificati" (su avviamento di partecipazioni e altre attività immateriali) e DTA originati su accantonamenti e svalutazioni relativi ad altre poste diverse dai crediti per cassa verso clientela (accantonamenti su garanzie e impegni, rettifiche su crediti verso banche, accantonamenti per altri rischi ed oneri, svalutazione di immobilizzazioni, rivalutazioni di passività da fondi pensione e TFR) ancora soggetti a deduzione limitata nell’anno di rilevazione e rateazione pluriennale della differenza;

  4. DTA originati da differenze permanenti che superano il probability test, correlati alle perdite fiscali riportate a nuovo e deducibili negli esercizi successivi, nonché alla mancata deduzione degli oneri finanziari figurativi ACE; sono iscritte nell’attivo di bilancio; sono dedotte dal CET1 senza franchigia; si applica un regime transitorio (fino al 2018) nel quale possono essere dedotte per una quota ridotta. [87];

  5. DTA originati da differenze permanenti che non superano il probability test; sono rilevati extra-contabilmente come attività potenziali che possono recuperare valore in ipotesi di incremento dei redditi imponibili previsti in futuro sia per miglioramenti delle condizioni di economicità, sia per modifiche della normativa fiscale che determinano aumento dell’aliquota di imposizione effettiva (incremento delle aliquote di legge IRES e IRAP, riduzione del beneficio ACE, ecc.).

Nel concludere su questo tema, ribadiamo che i DTA sono soggetti a oscillazioni di valore che impattano sul capitale di bilancio, sul reddito di esercizio e, alla luce dei meccanismi di deduzione, sul CET1. Il valore dei DTA, essendo legato ai redditi futuri, è un fattore di amplificazione della volatilità del valore di mercato dell'equity delle banche che ne detengono masse importanti.

Le componenti AT1 e T2

Non scendiamo nei dettagli sulla composizione del capitale diverso dal CET1, formato da strumenti ibridi convertibili in capitale (AT1) o da passività subordinate (T2), comprensive dei sovrapprezzi di emissione e al netto degli investimenti in titoli della specie emessi da altre istituzioni creditizie. Tali strumenti devono rispondere a specifici requisiti regolamentari (v. I requisiti minimi obbligatori di patrimonio e di liquidità (Pillar 1)).

Il CRR ha mantenuto all’interno del T2 due componenti atipiche, aventi natura di fondo rischi:

  • le rettifiche di valore su crediti di tipo generico nel caso delle banche che seguono l’approccio standardizzato nella misura massima dell'1,25% degli \$RWA\$ (CRR art. 62(c));

  • le eccedenze delle rettifiche di valore su crediti rispetto alle perdite attese per le banche che seguono l’approccio IRB nella misura massima dello 0,6% degli \$RWA\$ (CRR art. 62(d), v. Determinazione del capitale regolamentare richiesto).

Il regime transitorio

Come specificato con riferimento alle componenti che lo prevedono, il CRR ha concesso un regime transitorio (transitional, o di phase-in) nel quale si applicano gradualmente le nuove regole in modo da limitare l’impatto immediato della prima adozione sul CET1, che in assenza di tale attenuazione avrebbe subito una discontinuità per effetto delle nuove deduzioni e dell’esclusione degli strumenti non più conformi.

Tuttavia, gli analisti sono soliti calcolare anche il capitale e i solvency ratio nella versione cosiddetta fully loaded, ovvero senza applicare le più favorevoli norme transitorie, il che di fatto anticipa l’impatto sulle valutazioni di mercato [88].

Capitale regolamentare, capitale tangibile e capitale di liquidazione

A quale concetto contabile può essere ricondotto il capitale CET1 determinato secondo i criteri regolamentari? Possiamo interpretarlo come valore approssimato del capitale proprio tangibile [89] rettificato in chiave prudenziale, per quanto consentito dalle informazioni esposte in bilancio.

Il capitale regolamentare non intende approssimare il capitale di liquidazione della banca, ovvero il valore netto che residuerebbe dal realizzo delle attività e dal riacquisto delle passività, se effettuati integralmente e immediatamente in una situazione di cessazione della continuità operativa della banca. Si individuano infatti delle differenze importanti tra le due nozioni di valore:

  • i crediti (compresi quelli deteriorati) sono sovrastimati dai valori di bilancio recepiti nel capitale regolamentare quando le rettifiche contabili sono inadeguate rispetto allo sconto che sarebbe applicato sul valore lordo in caso di realizzo immediato [90];

  • le attività valutate al fair value prive di un mercato liquido possono essere sovrastimate in bilancio e il loro valore di liquidazione deve essere decurtato dello sconto richiesto dall’acquirente in una fire sale;

  • in caso di cessione di immobilizzazioni materiali, partecipazioni, o di rami d’azienda e sportelli, possono emergere plusvalenze o minusvalenze significative rispetto ai valori di libro;

  • in aggiunta, il valore di liquidazione deve tenere conto dell’impatto fiscale delle differenze tra valori di cessione e di libro.

In definitiva, il valore del capitale proprio di una banca non è un concetto univoco misurato con criteri oggettivi che ne assicurano la comparabilità nel tempo e tra intermediari. I modelli di valutazione devono scegliere le configurazioni appropriate da utilizzare, e inoltre l’analista dovrà rettificare i dati riportati nell’informativa obbligatoria (capitale contabile e regolamentare) sulla base di ipotesi e informazioni ulteriori.

La determinazione del capitale tangibile modificato (\$TC_M\$).

Riclassifichiamo lo stato patrimoniale nelle seguenti parti (v. Figura 11):

  • nelle attività

    • il portafoglio titoli e tesoreria, composto dalle riserve presso la banca centrale, il portafoglio titoli di proprietà AFS e altre attività di tesoreria; ipotizziamo per semplicità che gli utili e le perdite non realizzati su questa componente non siano sterilizzati ai fini della determinazione del CET1, pertanto non li evidenziamo;

    • le attività del trading book, comprendenti le attività da posizioni in derivati;

    • i core assets composti principalmente dagli impieghi in prestiti e dai titoli rilevati al costo ammortizzato, comprensivi dei crediti deteriorati non destinati alla dismissione, con evidenza del valore lordo e delle rettifiche esposte in bilancio;

    • i non core assets composti dai crediti deteriorati destinati a cessione o comunque separati dalla gestione impieghi, altre attività da dismettere e crediti fiscali (si omettono per semplicità gli investimenti in immobili e le partecipazioni non consolidate);

    • le attività immateriali e tra queste i deferred tax assets (DTA) per imposte anticipate;

  • nelle passività

    • il rifinanziamento presso la banca centrale a breve termine e le altre passività di tesoreria;

    • le passività del trading book, comprendenti le passività da posizioni in derivati;

    • le core liabilities composte da

      • raccolta diretta costituita da depositi e obbligazioni non subordinate;

      • il rifinanziamento a lungo termine TLTRO presso la BCE, incluso per l’importanza che riveste attualmente;

    • altri fondi a copertura di rischi e spese future, tra cui si evidenzia il fondo per risarcimenti e spese da contenzioso legale;

    • le passività e gli altri strumenti che compongono il capitale T2 e AT1.

AcctgCapital
Figura 11. Riclassificazione del bilancio di una banca per determinare il capitale netto contabile

Dettaglio delle attività con evidenza dei valori lordi e delle rettifiche

Assets

Fonte: Nostra elaborazione.

La differenza tra il totale delle attività e delle passività così esposte dà il valore di bilancio del common equity.

Lo schema così impostato è il punto di partenza per ottenere la stima del capitale netto tangibile. I valori di bilancio devono essere innanzitutto sottoposti a rettifiche per determinate il common equity Tier 1 (capitale netto ammesso a fini di vigilanza)
A tale scopo si enucleano le attività da dedurre dal capitale di vigilanza (azioni proprie e intangibles) e si portano a riduzione delle corrispondenti voci dell’attivo riclassificato.

Determinazione del CET1

Il CET1 si ottiene come differenza tra le attività e le passività in stato patrimoniale, dopo l’applicazione dei filtri e delle deduzioni previste dal CRR (v. Figura 12). Questa rappresentazione ci è utile per capire come cambia il CET1 (e specularmente gli RWA e il capitale richiesto) al variare della composizione del bilancio e della produzione di reddito.

CET1Capital
Figura 12. Riclassificazione del bilancio di una banca per determinare il CET1.

Fonte: Nostra elaborazione.

A questo punto si devono apportare degli aggiustamenti extracontabili per tenere conto di perdite latenti. A tal fine (v. Figura 13):

  • si verifica la congruità della rettifiche di valore su non core NPL e si stimano delle extrarettifiche adeguate a portare il coverage ratio degli NPL lordi su livelli congrui;

  • si verifica la congruità delle passività contingenti per spese ed oneri futuri.

Dei due aggiustamenti, quello più importante è il primo, relativo ai non core NPL.

Uno stock di NPL troppo elevato pesa come un corpo estraneo sul business di una banca, e ne deprime il valore dell'equity e l’indice \$PB\$. Per misurare il suo impatto, ipotizziamo di scorporare gli NPL in eccesso, conferendoli a un’unità di business autonoma o a una società veicolo di cartolarizzazione che si occupa della loro gestione. Questa unità conferitaria, che chiameremo bad bank, ha un valore pari al valore di recupero attualizzato dei crediti deteriorati in gestione, al netto delle spese amministrative e tenendo conto degli impatti fiscali della chiusura delle posizioni (Ciavoliello et al., 2016).
L’analista esercita una discrezionalità nel tracciare il confine tra il portafoglio NPL che si scorpora e quello che rimane imputato alla banca sana. I valori patrimoniali ed economici da scindere tra le due aree di risultato sono prima di tutto quelli degli NPL (valore lordo e rettifiche a bilancio), ma anche quelli dei costi di gestione dei crediti problematici, che per la banca sono in parte costi fissi (dovendo mantenere un servizio interno che si occupa degli NPL non ceduti e di quelli di futura formazione). Ipotizzando la cessione del portafoglio NPL a un investitore di mercato non collegato alla banca, la separazione è netta, e la quantificazione delle perdite esplicita e definitiva, a meno che resti in carico alla banca una parte delle esposizioni cedute e dei rischi relativi, come avviene quando la banca trattiene quote delle tranche di una cartolarizzazione di NPL, oppure sottoscrive accordi di garanzia delle perdite eccedenti massimali prefissati.

Il fair value di un portafoglio di NPL si calcola con la formula seguente:

\$FV_{NPL} = sum_(t=1)^T (REC_t) / {(1+r_{NPL})^t} \$

dove \$REC_t\$ è il flusso atteso per recuperi sul portafoglio nel periodo t e \$r_{NPL}\$ il tasso di rendimento richiesto dall’investitore nel portafoglio.

Le perdite attualizzate \$LOSS\$ sono pari alla differenza tra il valore lordo NPL e il fair value. Le perdite eccedenti \$XLOSS\$ sono la differenza tra \$LOSS\$ e le rettifiche di valore a bilancio.

Il valore delle passività contingenti per spese ed oneri futuri non correlati al portafoglio di attività e passività, dovrà essere stimato e imputato come componente negativa del valore del patrimonio tangibile rettificato. In particolare si deve tener conto:

  • dei risarcimenti dovuti su cause legali in corso o future;

  • del contributo a schemi di intervento in in situazioni di crisi bancaria ai quali la banca aderisce (Fondi di garanzia dei depositi, Fondi di risoluzione, Schemi di protezione interbancari di natura contrattuale o volontaria);

  • della necessità di alimentare fondi per oneri di ristrutturazione o riorganizzazione, originati dalla dismissione di attività diverse dagli impieghi o da piani di riduzione del personale.

Le voci rivalutate rispetto al dato di bilancio contribuiscono al capitale tangibile rettificato nella misura del loro valore di realizzo. Su tutte queste poste si dovranno imputare gli impatti fiscali (\$IF\$) sulle plus/minusvalenze latenti originate dalle differenze tra valori di realizzo e valori contabili, così calcolati in via generale e approssimata:

\$ IF = - tau_c (VR - VC) \$

dove \$tau_c\$ è l’aliquota di imposta sui redditi societari della banca, rettificata per tenere conto della misura e dei tempi nei quali si potrà monetizzare la differenza di valutazione a fini fiscali, VR è il valore di realizzo e \$VR\$ il valore contabile \$VC\$. Nel caso più ricorrente di rettifiche negative, occorre valutare quando la banca potrà effettivamente ridurre le proprie uscite per pagamento delle imposte sui redditi portando in deduzione le minusvalenze in questione, o se tale beneficio può essere trasferito, e in quale misura, all’eventuale cessionario di attività.

Nel modello qui presentato non dettagliamo questo aggiustamento, che nella pratica dovrà tenere conto delle particolarità della normativa fiscale applicata su ogni voce in funzione delle specifiche ipotesi di dismissione o recupero, già in precedenza ricordate. Si dovrà pertanto calcolare il valore attuale di una serie pluriennale di flussi di cassa, applicando un idoneo tasso di sconto, come nel caso degli NPL, tenendo conto del trattamento della DTA risultante a livello di bilancio e di deduzione dal CET1.

Dato il capitale tangibile a bilancio \$TC\$, apportando le extra-rettifiche, che denominiamo \$XLOSS\$, arriveremo a determinare un capitale tangibile modificato \$TC_M\$:

\$TC_M = TC - XLOSS\$

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Figura 13. Evidenza delle rettifiche extracontabili per determinare il capitale tangibile rettificato

Fonte: Nostra elaborazione.

Sui valori di bilancio così rettificati, si procede a determinare la dotazione di capitale tangibile rettificato \$TC_M\$ (v. Figura 14).

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Figura 14. Riepilogo della determinazione del capitale tangibile rettificato

Fonte: Nostra elaborazione.

3.3. Determinazione del capitale regolamentare richiesto

Nella valutazione delle attività core abbiamo ipotizzato di allocare su di esse un capitale pari a quello richiesto a fini regolamentari o giudicato congruo dagli investitori. Si apre a questo riguardo la complessa problematica dei risk weighted asset (\$RWA\$), che sono la base di calcolo del capitale richiesto ai fini del rispetto dei solvency ratio di Primo Pilastro, così come dei requisiti allargati previsti dai buffer macroprudenziali, dal processo SREP, e dai requisiti TLAC e MREL.

Senza pretesa di essere esaurienti, cerchiamo di riassumere i principi sottostanti la misura degli \$RWA\$ per le principali tipologie di rischio, così come declinate dai diversi approcci di Vigilanza consentiti.

Dopo un breve richiamo al calcolo delle esposizioni non ponderate regolate dal leverage ratio, si considerano, nell’ordine:

  • il rischio di credito e il banking book (con cenni al rischio di controparte);

  • il rischio di mercato e il trading book;

  • il rischio operativo;

  • i rischi di Secondo pilastro e la logica dello stress test.

Il leverage ratio e la misura delle esposizioni non ponderate

Prima di descrivere la filiera di esposizioni agganciate ai solvency ratio (e quindi agli \$RWA\$), ricordiamo brevemente i criteri di calcolo dell’aggregato a cui si applica il leverage ratio, introdotto da Basilea III. Si tratta di un requisito applicato del 2014 a fini informativi, con obbligo di comunicazione al pubblico dal 2015; dovrebbe diventare cogente nell’UE dal 2018 con un coefficiente del 3% (Stuchlik, 2017). Si rinvia al testo dello standard del Comitato di Basilea come rivisto nel 2014 (Basel Committee on Banking Supervision, 2014), oggetto di una successiva procedura di consultazione finalizzata alla sua revisione.

Anche le regole sulla dotazione minima di strumenti TLAC impongono di rispettare, accanto a un requisito minimo riferito agli \$RWA\$, un’incidenza minima corrispondente a un leverage ratio del 6% (dal 2019, innalzato al 6,75% dal 2022). Si rinvia a I requisiti sul buffer di assorbimento delle perdite in caso di risoluzione (TLAC e MREL).

Il leverage ratio si applica a una misura di esposizione non ponderata per il rischio che comprende:

  • le attività in bilancio prese al loro valore contabile;

    • si escludono quelle dedotte nel calcolo del CET1, come le partecipazioni in banche esterne al perimetro di consolidamento;

    • i crediti dovrebbero essere considerati al netto delle rettifiche imputate a conto economico e recepite a riduzione del CET1; non è invece consentito l’abbattimento per garanzie ricevute o altri strumenti di risk mitigation;

  • le esposizioni in derivati, misurate come ai fini del rischio di controparte facendo la somma del replacement cost alle condizioni correnti di mercato (il fair value in base al quale sono registrati a bilancio, se attivo per la banca) più un add-on per la potential future exposure calcolata moltiplicando l’importo nozionale per un fattore di rischio volatilità;

    • si prevede un trattamento specifico per i derivati su crediti sui quali la banca è venditrice di protezione, che sono trattati come le garanzie creditizie rilasciate (vedi oltre);

  • le esposizioni da securities financing transaction originate da repo, reverse repo, security lending e margin lending, caratterizzate dalla presenza di un collateral (dato o ricevuto) soggetto a marking to market e conseguente adeguamento dei margini concordati di copertura; si applicano qui possibilità di compensazione tra esposizioni attive e passive uguali per sottostante e durata sotto particolari condizioni;

  • esposizioni fuori bilancio composte principalmente da impegni per linee di credito non utilizzate, garanzie emesse ed altri crediti di firma; sono valutati in base all’esposizione creditizia sottostante, stimata moltiplicando l’importo per un credit conversion factor.

Si nota lo sforzo del Regolatore di limitare l’esposizione creditizia complessiva (è questo il tipo di rischio dominante tra quelli censiti), e soprattutto di farlo mediante un aggregato non manipolabile dalle banche segnalanti sostituendo crediti per cassa con crediti di firma o derivati. A questo fine anti-elusivo entrano infatti nella base di calcolo le esposizioni da derivati e da poste fuori bilancio.

I criteri subiranno delle revisioni prima dell’entrata in vigore del requisito.

In quali situazioni il leverage ratio risulta stringente per un intermediario?

Una banca con modello tradizionale, centrato sulla raccolta diretta e gli impieghi in prestiti, non ha problemi a rispettare il leverage ratio se rispetta i solvency ratio. Potrebbe fare eccezione una banca con un attivo investito per la maggior parte in strumenti a ponderazione zero (ad esempio, titoli di Stato).

Il leverage ratio "morde" nei casi per i quali è stato pensato, ovvero quelli delle banche con una forte operatività di investment banking con largo ricorso a raccolta e impieghi sul mercato monetario all’ingrosso e in strumenti derivati.

3.3.1. Il rischio di credito e il banking book

Rappresenta la principale componente di rischio, regolata fin dall’Accordo di Basilea del 1988. La tecnica dei coefficienti di rischio (risk weight, \$RW\$) utilizzati per calcolare gli \$RWA\$ è nata con tali prime regole internazionali sul capitale.

Per cogliere la portata dei requisiti sul rischio di credito occorre chiarire il loro perimetro di applicazione, che coincide con il banking book, contrapposto al trading book, e comprendente gli impieghi in prestiti e gli investimenti in titoli non trattati come posizioni di trading (queste ultime sono soggette ai requisiti sul rischio di mercato). Si tratta della componente preponderante dell’attivo di una banca commerciale.

Il rischio di credito si collega alle perdite di valore sopportate su strumenti di debito (e per estensione su strumenti azionari) a causa dell’insolvenza della controparte finanziata. Le esposizioni sottoposte ai requisiti per rischio di credito sono considerate irrilevanti ai fini dell’esposizione al rischio di mercato, sebbene siano in parte esposte al rischio di oscillazioni dei prezzi degli strumenti finanziari negoziabili.

Il banking book comprende infatti il portafoglio titoli classificato come AFS secondo lo IAS 39 (e come FVOCI per il nuovo IFRS 9, v. Principi contabili IFRS e capitale regolamentare). tale portfoglio AFS è valutato al fair value con variazioni di valore che non passano dal conto economico, ma sono accolte in una riserva di patrimonio. Tali variazioni, per effetto delle recenti modifiche delle regole e delle prassi di Vigilanza, impattano sul CET1 alla stregua di un profitto o perdita su posizioni di trading.

Al rischio di credito è collegata la disciplina sugli strumenti di mitigazione dello stesso (garanzie, derivati di credito), e quella delle esposizioni da cartolarizzazione. Non approfondiamo qui questi temi, molto ampi e complessi.

Il rischio di controparte e il credit valuation adjustment (CVA)

Rientra nel rischio di credito il rischio di controparte legato alla possibile inadempienza delle controparti della banca su contratti a termine, derivati e operazioni di security financing. I requisiti di capitale per il rischio controparte di una posizione sono calcolati come somma del suo replacement cost alle condizioni correnti di mercato (il fair value in base al quale è registrata a bilancio, se attivo per la banca) più un add-on per la potential future exposure calcolata moltiplicando l’importo nozionale per un fattore di rischio volatilità.

Il credit valuation adjustment (CVA) è un ulteriore requisito patrimoniale previsto da Basilea III e dal CRR (Art. 382(5)). Va a coprire la combinazione di rischio controparte e rischio di mercato che si innesca quando a seguito del declassamento del merito di credito di una controparte peggiora il valore di cessione o di chiusura degli strumenti derivati conclusi con quella controparte. Si traduce in variazioni di fair value del portafoglio di trading.

È attualmente in corso l’emanazione da parte del Comitato di Basilea di nuovi standard in materia, che vanno ad integrare la Fundamental Review of the Trading Book (Basel Committee on Banking Supervision, 2016b). Secondo il documento messo in consultazione nel 2015, il CVA è valutato con approcci alternativi (standard e basati su modelli interni) che rispecchiano quelli in uso per il rischio di mercato.

Coefficienti di rischio (rw) e di capitale (k)

Come regola generale, a fronte di un’esposizione creditizia di importo \$EAD_j\$ (che sta per exposure at default), dati un solvency ratio minimo \$sr\$ e un coefficiente di rischio \$rw_j\$ appropriato per quel tipo di esposizione, la dotazione minima di capitale \$K_j\$ si calcola applicando a \$EAD_j\$ ponderato per \$rw_j\$ il coefficiente \$sr\$:

(1) \$K_j = EAD_j xx rw_j xx sr = RWA_j xx sr\$

A seconda dell’aggregato patrimoniale da regolare (CET1, Total capital, SREP, MREL) cambia il livello di \$sr\$, che è fissato a livello di sistema (CET1, Total capital) o di banca (SREP, MREL).

Questa struttura di calcolo è mantenuta nell'approccio standardizzato per il rischio di credito, che appunto specifica dei \$rw_j\$ differenziati principalmente per portafogli di esposizioni, distinte per natura della controparte (Stati, Enti pubblici, banche, imprese, PMI, clientela al dettaglio) e per classe di rating (laddove l’esposizione è provvista di un rating "esterno" rilasciato da un’Agenzia e riconosciuto valido a fini di Vigilanza).

Il valore normale di \$rw_j\$ sui prestiti è 100%, applicato alle esposizioni prive di rating non "scadute" (non deteriorate); si applica un coefficiente ridotto alle esposizioni retail (75%). Come ricordato, il \$rw_j\$ sulle esposizioni verso Amministrazioni centrali è 0%.

Nell'approccio basato sui rating interni (IRB) non si esplicita un \$rw\$: la banca calcola il valore del capitale richiesto \$K_j\$ in base a un coefficiente di capitale \$k_j\$ ottenuto da un insieme di formule regolamentari in cui inserisce i parametri di rischio dell’esposizione (il tasso di default atteso \$pd_j\$, normalmente noto come probabilità di default, il tasso di perdita atteso in caso di default \$lgd_j\$) stimati per \$j\$ con il proprio sistema di rating interno. Esistono due declinazioni dell’IRB: l'approccio fondamentale (FIRB) nel quale la banca stima soltanto le \$pd\$ e utilizza parametri regolamentari per le altre variabili, e l'approccio avanzato (AIRB) nel quale controlla tutte le variabili. Le formule sono differenziate per portafogli (i principali sono corporate, PMI, retail distinto tra prestiti con garanzia reale, esposizioni rotative, e altri)

L’uso dell’approccio IRB deve essere autorizzato dall’Autorità di vigilanza.

Senza scendere nei dettagli, rimarchiamo che \$k_j\$ misura l’incidenza della perdita inattesa per default sull’esposizione, che è data dalla differenza tra il tasso di perdita massima con un grado di confidenza del 99% (calcolato sulla distribuzione ipotizzata nel modello regolamentare, che assume perfetto frazionamento del rischio) e il tasso di perdita attesa \$el_j = pd_j xx lgd_j\$. Per le basi statistiche delle formule IRB si rinvia al capitolo 8 di Erzegovesi & Bee (2008).

I valori di \$k_j\$ sono espressi in base a una scala centrata su un valore normale \$k = 8%\$ (il famoso Cooke ratio introdotto da Basilea 1 che ancora vale come coefficiente minimo di Total capital di Pillar 1). Il requisito di capitale si calcola così:

(2) \$K_j = EAD_j xx {k_j}/k xx sr = RWA_j xx sr\$

Il requisito \$K_j\$ varia in proporzione del rapporto tra il solvency ratio per l’aggregato che vogliamo calcolare (\$sr\$) e il solvency ratio standard (\$k\$).

Quando le regole determinano il coefficiente di capitale \$k_j\$, come nell’approccio IRB, possiamo ricavare \$rw_j\$ e \$RWA_j\$ per equivalenza con la (1):

(3) \$rw_j = {k_j}/k => RWA_j = {k_j}/k xx EAD_j\$

La misura dell’esposizione (EAD)

Nel caso normale di un prestito per cassa, l’esposizione è data dall’importo nominale del credito. Nel caso di linee di credito a utilizzo discrezionale si calcola un’esposizione attesa al momento del default includendo una parte del fido non utilizzato. Nel caso dei crediti di firma, si moltiplica l’importo nominale per un credit conversion factor (\$ccf\$) in modo da ottenere un equivalente creditizio che poi viene trattato come un credito per cassa.

Va rimarcata una differenza tra approcci quanto al criterio di calcolo del valore \$EAD_j\$ per il quale si moltiplica \$k_j\$:

  • nell'approccio standardizzato, \$EAD_j\$ è il valore al netto di rettifiche di valore specifiche (specific credit risk adjustments, CRR Art. 111(1), per il quale si moltiplica \$rw_j\$;

    • le rettifiche di valore generiche (general credit risk adjustments) possono essere incluse nel capitale Tier 2 entro un massimo pari a \$RWA xx 1,25%\$ (CRR, Art. 62(c));

  • nell'approccio IRB, EAD è il valore al lordo di rettifiche di valore; tuttavia, le regole di Basilea tengono conto dell’adeguatezza delle rettifiche di valore rispetto alle perdite attese stimate come \$EL_j = el_j xx EAD_j\$

    • se le rettifiche a bilancio superano \$el_j xx EAD_j\$, la differenza può essere conteggiata come capitale disponibile Tier 2 entro un massimale pari a \$RWA xx 0,6%\$ (CRR Art. 62(d));

    • se invece le rettifiche sono inferiori a \$el_j xx EAD_j\$, la differenza negativa deve essere dedotta dal CET1 (CRR, Art. 36(1)(d)).

Per la rilevanza che riveste nelle operazioni di cessione di NPL, merita un accenno il trattamento particolare delle cartolarizzazioni di crediti nell’approccio IRB basato sulla c.d. formula di vigilanza (v. Erzegovesi (2015): in questo caso particolare, il coefficiente \$k_j\$ ottenuto dal modello regolamentare è comprensivo del tasso di perdita attesa.
Differenze tra approcci standardizzato e IRB

Le banche IRB possono beneficiare di un sostanziale abbattimento del capitale richiesto sulle esposizioni di miglior rating, e anche su quelle deteriorate che sono coperte da rettifiche adeguate rispetto alla perdita presunta. Passando dall’approccio standard a quello IRB, una banca può conseguire un sostanziale abbattimento di \$K\$, e diversi istituti hanno optato per il sistema più complesso anche per ottenere questo vantaggio.

In contropartita, le stesse banche IRB sono esposte alla maggior sensibilità al rischio delle misure di esposizione, e non soltanto dei correlati requisiti patrimoniali, ma anche delle deduzioni dal CET1 per perdite attese eccedenti le rettifiche a bilancio.

In concreto, l’assorbimento per \$K\$ richiesto, e l’entità delle rettifiche dedotte dal CET1, possono aumentare per una o più delle circostanze seguenti:

  • i gruppi di esposizioni non a sofferenza sono declassati a una fascia di \$pd_j\$ più elevata quando peggiorano gli indicatori di bilancio e i segnali andamentali dei debitori;

  • la verifica statistica retrospettiva (backtesting) della validità del sistema di rating induce a rivedere verso l’alto i livelli di \$pd_j\$ e \$lgd_j\$ associati alle classi di rating; tale backtesting è alimentato dai dati di performance creditizia ex post, per cui un peggioramento dei tassi di recupero su NPL o un innalzamento ripetuto per più anni consecutivi dei tassi di deterioramento sul portafoglio in essere comporta un "contagio" alla parte che rimane in bonis, che esigerà dotazioni di capitale più elevate; anche gli assorbimenti sulle esposizioni deteriorate salgono al crescere delle lgd realizzate;

  • le Autorità di supervisione possono sottoporre a verifica il sistema di rating interno e contestare alla banca la sottostima dei parametri di rischio, ad esempio in base a un confronto con dati medi di sistema; ne conseguirebbe la "raccomandazione" di adeguarli tempestivamente, con impatti analoghi ai precedenti.

Un gruppo bancario può scegliere approcci diversi (standardizzato, FIRB, AIRB) per portafogli diversi o per entità societarie diverse. Le regole di Vigilanza cercano di prevenire un utilizzo opportunistico di questa facoltà.

È in corso una revisione delle regole di Basilea che dovrebbe portare a limitare in maniera più stringente il risparmio di capitale conseguibile con l’approccio IRB. Questo fine anti-elusivo è perseguito con l’esclusione dall’approccio IRB delle esposizioni sovrane e verso grandi debitori e con un sistema di valori minimi dei risk weight applicati al posto dei \$rw\$ del modello interno quando questi risultano inferiori.

Sul tema c’è un netto dissenso tra paesi: gli Stati Uniti sono favorevoli a una drastica limitazione dei vantaggi fruibili dalle banche IRB, mentre le Autorità dell’UE (in particolare quelle della Germania) sono contrarie. Negli Stati Uniti prende forza una corrente di opinione che punta a smantellare i regimi regolamentari e di supervisione caratterizzati da complessità e ingerenza delle Autorità nella validazione dei processi di risk management, e in questa prospettiva non si esclude la progressiva eliminazione dell’approccio IRB. Sulle ragioni a favore del mantenimento di un impianto basato sugli \$RWA\$ v. Resti (2016); per il punto di vista delle Autorità bancarie tedesche sul dibattito, v. Dombret (2017); per le idee di riforma maturate negli USA v. Hoenig (2017b); Hoenig (2017a).

3.3.2. Il rischio di mercato e il trading book

Il perimetro di misurazione del rischio di mercato dipende non soltanto dal tipo di strumenti finanziari, ma anche dal modello di business che la banca applica per gestirli. Pertanto il rischio di mercato a fini di vigilanza si rileva per i portafogli di titoli, valute, commodity e strumenti derivati che sono gestiti per finalità di trading, ovvero con un’elevata movimentazione finalizzata a produrre utili su un orizzonte temporale breve. Si tratta principalmente di attività di market making e di proprietary trading (tra loro separate da confini non sempre netti). Tale area operativa è allocata al trading book della banca, che comprende ai fini IFRS gli strumenti valutati al fair value con variazioni rilevate a conto economico [91].

Al trading book si contrappone (come ricordato prima) il banking book nel quale rientrano i titoli gestiti con finalità di investimento, contabilizzati al fair value con variazioni rilevate in riserve di capitale secondo l’IFRS, corrispondenti gli AFS secondo la terminologia dello IAS 39 (v. Principi contabili IFRS e capitale regolamentare). Questi portafogli non generano rischio di mercato ai fini di Primo Pilastro, bensì rischio di credito, misurato secondo gli approcci descritti in precedenza.

La componente di rischio di mercato più importante è il rischio di posizione, legato alle perdite sui portafogli in essere dovute a oscillazioni delle quotazioni di mercato. Si distingue tra rischio generale, causato dall’andamento generale di mercato (struttura dei tassi di interesse, indici di Borsa, principali cambi), e rischio specifico, correlato a eventi che interessano uno specifico emittente; il secondo ricomprendi il rischio di default dell’emittente e pertanto è l’omologo del rischio di credito del banking book(esistono dei chiari riferimenti incrociati tra le due tipologie di requisiti).

Le altre componenti di rischio di natura creditizia che toccano il trading book sono il rischio di controparte che interessa strumenti a termine, derivati e di security financing ad esso allocati, che è disciplinato come rischio di credito. Sulle stesse esposizioni si tiene conto del rischio congiunto (di mercato/di credito) per credit valuation adjustment (v. Il rischio di credito e il banking book).

Per quanto riguarda i requisiti di capitale, come per il rischio di credito, anche per quello di mercato sono possibili due approcci:

  • un approccio per coefficienti standard (noto talora come building block approach) nel quale si applicano dei coefficienti standard di capitale al valore contabile o di mercato delle esposizioni, previa compensazione tra posizioni long e short in titoli e derivati sullo stesso sottostante giudicate efficaci ai fini dell'hedging; i criteri regolamentari si basano su tabelle di coefficienti distinte per tipologie di strumenti e loro caratteristiche rilevanti (ad esempio, la durata residua o la duration nel caso delle obbligazioni);

  • un approccio basato sui modelli interni, nel quale la banca applica un proprio modello statistico di risk measurement basato sul concetto di value-at-risk, per il quale i requisiti sono calcolati in base a stime delle perdite potenziali desunte dalla composizione del portafoglio in base a parametri di volatilità e correlazione storiche.

L’approccio per building block.

È l’omologo dell’approccio standardizzato del rischio di credito, ma si caratterizza per regole di applicazione più variegate. Queste sono distinte per comparti di mercato, così classificati:

  • gli strumenti di debito, che generano

    • rischio generale correlato alla durata residua o alla duration [92];

    • rischio specifico correlato alla classe di rischio dell’emittente così come definita dall’approccio standardizzato per il rischio di credito

  • le azioni che anch’esse generano rischio generico e specifico, ma sono trattate con due semplici requisiti di capitale proporzionali, pari entrambi all'8% del valore di mercato delle posizioni;

  • l’operatività in cambi (foreign exchange) e in oro, con un requisito dell'8% applicato alla posizione netta in cambi per valute e gruppi di valute, con esenzione delle banche in cui tale posizione netta è inferiore al 2% del capitale totale;

  • l’operatività in commodity, oggetto di regole particolari che non specifichiamo.

L’approccio building block sul rischio di mercato porta a requisiti sugli strumenti di debito nel trading book molto più onerosi rispetto a quelli che si applicherebbero agli stessi strumenti allocati al banking book, specialmente sulle durate maggiori.

Una posizione in corporate bond a 15 anni con rating BBB (\$rw_j=100%\$) allocata al banking book è soggetta a un coefficiente di capitale dell'8% per il rischio di credito, mentre nel trading book subisce un requisito del 16% (8% per rischio generico + 8% per rischio specifico).
Un titolo di Stato italiano trentennale (\$rw_j=0%\$) non genera requisiti di capitale sul banking book, mentre sul trading book ha un requisito nullo di rischio specifico, ma ne genera uno per rischio generico del 12,5%.

Tale maggiore onerosità si giustifica per la prassi di ricorrere in via normale alla copertura a fine giornata delle posizioni del trading book, e a mantenere posizioni aperte a carattere speculativo per periodi limitati, con esposizione a rischio intenzionalmente elevata e assiduamente controllata sia durante l’operatività a mercati aperti, sia a fine giornata.

Rimane comunque un disincentivo ad applicare l’approccio building block ai portafogli di trading, atteso che l’operatività in questione si concentra presso un numero limitato di intermediari altamente specializzati dotati delle competenze e degli strumenti per adottare l’approccio basato sui modelli interni, che risulta di regola preferito. Valgono però scelte e circostanze particolari di ogni banca.

Ad esempio il Gruppo Monte dei paschi di Siena, che è stato il primo ad utilizzate l’approccio IRB avanzato per il rischio di credito, continua ad utilizzare l’approccio building block nella propria attività di investment banking.
L’approccio basato sui modelli interni

Con questo approccio si ha una convergenza tra i sistemi aziendali di risk management della banca e i modelli di misurazione a fini regolamentari, previa validazione dei primi da parte delle Autorità di vigilanza. Si basa su misure di perdita potenziale calcolate sulla distribuzione del rendimento o del valore dei portafogli. Si tratta di modelli della famiglia value-at-risk (VaR), che sono diffusamente applicati al rischio di posizione di tipo generale: è su tale tipologia di rischio che sono più facilmente ammessi a fini di Vigilanza.

Il CRR consente anche di applicare modelli interni per il rischio di posizione specifico, il rischio di default incrementale e di migrazione (tra classi di rating) e per il correlation trading, ma in tali casi si devono adottare criteri di valutazione più stringenti [93].

Con riferimento ai modelli per il rischio di posizione generale, le regole attualmente vigenti (CRR, Art. 365-369) prevedono che la misura dei requisiti di capitale si basi su due indicatori:

  • il value-at-risk (VaR), misura di perdita massima potenziale sulla chiusura di una posizione di trading entro un orizzonte di 10 giorni con un grado di confidenza del 99%; prende a riferimento una distribuzione statistica dei rendimenti degli strumenti presenti nel portafoglio, di solito calibrata sulle volatilità e sulle correlazioni storiche, a loro volta stimate su un periodo retrospettivo di almeno un anno; deve essere calcolato ogni giorno;

  • lo stressed VaR (sVaR) calcolato applicando allo stesso modello VaR (con grado di confidenza 99% e orizzonte di 10 giorni) i parametri di volatilità e correlazione rilevati in una fase di "significant financial stress" del relativo mercato, della durata di almeno 12 mesi consecutivi; deve essere calcolato almeno settimanalmente.

Il requisito di capitale si ottiene con i seguenti passaggi:

  • del VaR si prende il maggiore tra

    • l’ultima rilevazione;

    • la media degli ultimi 60 giorni lavorativi,

    • e lo si moltiplica per un coefficiente mc compreso tra 3 e 4;

  • anche dell'sVar si prende il maggiore tra

    • l’ultima rilevazione;

    • la media degli ultimi 60 giorni lavorativi,

    • e lo si moltiplica per un coefficiente ms compreso tra 3 e 4;

  • i coefficienti mc ed ms sono maggiorati rispetto al minimo di 3 in funzione della frequenza dei casi di overshooting ovvero di eccedenza delle perdite storicamente realizzate sul portafoglio rispetto alle perdite potenziali stimate dal modello VaR e sVaR nei precedenti 250 giorni lavorativi; tale verifica retrospettiva dell’accuratezza del modello è denominata backtesting.

Abbiamo qui accennato ai casi normali trattati dalla normativa sul rischio di mercato. La regolamentazione è tecnicamente ancora più complessa, dovendo trattare un universo di strumenti e tecniche operative soggetto a innovazioni continue. I Supervisori devono inoltre contrastare i tentativi di elusione e di arbitraggio regolamentare coi quali le banche più smaliziate spostano esposizioni dal banking book al trading book, o in direzione contraria, per abbattere gli assorbimenti di capitale, sfruttando anche la maggior opacità dei modelli interni di risk measurement applicati al rischio di mercato.

Anche questa area della normativa di Basilea è soggetta a un processo di revisione avanzata [94], teso a ridurre i margini di discrezionalità nella misura del rischio da modelli interni e ad allineare i requisiti del trading book a quelli del banking book laddove si erano aperte finestre di elusione.

I limiti della regolamentazione prudenziale del rischio di mercato

Si potrebbe dibattere a lungo sull’accuratezza dei modelli interni per il rischio di mercato. Sono stati criticati, in occasione di episodi di crisi, per il loro possibile impatto prociclico sulle scelte di accumulo e chiusura delle posizioni. A dispetto della loro diffusione generalizzata come strumenti manageriali, molti ritengono che non siano adatti a supportare le misurazioni di vigilanza [95]. Non è questa la sede per approfondire questi temi. Ci limitiamo soltanto a mettere in luce, come già per l’approccio IRB al rischio di credito, la potenziale instabilità dei requisiti di capitale ottenuti dai modelli interni al variare delle condizioni di mercato e delle scelte di configurazione degli stessi, soggette al vaglio critico dei supervisori.

In parallelo, non si può ignorare la persistente asimmetria di trattamento tra banking book e trading book per quanto riguarda il trattamento del rischio generale di posizione su titoli obbligazionari, che nel primo è sostanzialmente obliterato.

Questa lacuna si collega al tema più ampio delle esposizioni al rischio sovrano, essendo i portafogli a lungo termine a tasso fisso delle nostre banche, i più esposti a market risk, concentrati su emissioni dello Stato italiano.

3.3.3. Il rischio operativo

Il rischio operativo è stato introdotto nel framework di Basilea II, dove è definito come "rischio di perdite derivanti da errori o disfunzioni a livello di procedure, personale e sistemi interni, oppure da eventi esogeni". Si origina in tutte le linee di attività di una banca. Comprende il rischio legale, ma non quello reputazionale.

In tema di calcolo dei requisiti patrimoniali, troviamo anche qui una pluralità di approcci di complessità crescente:

  1. il basic indicator approach (BIA, CRR art.315-316), che prevede un requisito pari al 15% del margine di intermediazione rilevato nel conto economico della banca (valore medio degli ultimi tre anni);

  2. lo standardised approach (SA, CRR art.317-320), che come il precedente utilizza il margine di intermediazione come base di calcolo del requisito ma applica dei coefficienti (detti beta factor) differenziati per business line; il requisito complessivo è la somma di quelli calcolati per le singole business line come prodotto dei rispettivi beta factor e margine di intermediazione;

  3. l'advanced measurement approach (AMA, CRR art.321-324), che prevede un requisito calcolato su stime delle perdite potenziali attese su un orizzonte annuale mediante modelli statistici, approvati dalla Vigilanza, applicati a database interni e di settore relativi agli eventi di perdita collegati a fattori di rischio operativo; il CRR non impone un particolare modello, ma fissa degli standard qualitativi (competenze, organizzazione e processi) e quantitativi (dati e modelli) che la banca deve rispettare.

I Technical standard dell’EBA sul rischio operativo sono pubblicati su questa pagina.

Rispetto alle altre componenti, il rischio operativo è il meno collegato con il portafoglio di attività e passività della banca. Come i precedenti consente anche qui di scegliere tra approcci basati su coefficienti regolamentari standard (BIA e SA) e uno riferito a modelli statistici interni convalidati dall’Autorità (AMA), ma anche qui si nota una distanza concettuale tra le due opzioni, nel senso che i primi due approcci fanno uso di una misura di margine lordo come misura di scala del rischio in questione, mentre l’AMA si basa su inferenze statistiche costruite sulla distribuzione empirica degli eventi di perdita. I dati e i modelli utilizzati nei due approcci non sono tra loro mappabili.

Ai nostri fini di misurazione, partiamo dal requisito di capitale computato con l’approccio scelto dalla banca. Per poter includere questo requisito nel solvency ratio complessivo, occorre trasformare il requisito per il rischio operativo, che definiamo come \$K_O\$, in un corrispondente valore \$RWA_O\$ di risk-weighted assets, così determinato in analogia con la (3), dividendo il requisito di capitale per il coefficiente \$k=8%\$:

\$RWA_O = {K_O} / k\$

Applicando il BIA avremo:

\$RWA_O = {MINT xx 0,15} / k\$

dove \$MINT\$ è il margine di intermediazione medio degli ultimi tre anni.

Il MINT è così definito da CRR, Art. 316:

MINT =
Interessi attivi - Interessi passivi
+ Commissioni attive - Commissioni passive
+ Profitti/perdite netti su operazioni finanziarie (a conto economico)
+ Altro reddito operativo

Dall’aggregato sono escluse le variazioni di fair value e i profitti/perdite realizzati su portafogli non di trading, e le altre componenti straordinarie.

Sempre nell’approccio BIA, il requisito per rischio operativo inciderà sugli \$RWA\$ totali da rischio di credito (\$RWA_C\$) e di mercato (\$RWA_M\$) in proporzione del rapporto tra \$MINT\$ e \$RWA\$:

\${K_O} / {RWA_C + RWA_M} = {MINT} / {RWA_C + RWA_M} xx 0,15\$

\$K_O\$ viene così a dipendere da un indicatore di redditività lorda dell’intermediazione creditizia e finanziaria dato dal margine di intermediazione sull’attivo pesato per il rischio. Non è ravvisabile un nesso causale robusto tra un indicatore del genere e il potenziale di rischio operativo, sebbene non è da escludere che un elevato \${MINT}/{RWA}\$ possa dipendere un’operatività su strumenti complessi ad alta redditività immediata che genera forti rischi legali.

3.3.4. I rischi di Secondo Pilastro e la logica degli stress test

La supervisione prudenziale di Pillar 2 rappresenta la principale estensione del framework di Basilea. Le Autorità hanno strutturato un processo ricorrente di supervisory review, lo SREP, che ha una dimensione qualitativa, centrata sull’organizzazione e la governance del rischio, e una quantitativa, finalizzata ad apprezzare i profili di rischio che il Pillar 1 non considera, o tratta in maniera isolata e parziale. Come già evidenziato (v. La supervisione prudenziale: SREP, stress test e requisiti di Pillar 2), lo strumento principe di apprezzamento quantitativo è l’esercizio di stress test applicato al bilancio dell’intermediario. Per l’impatto che i suoi risultati hanno sui requisiti aggiuntivi di capitale, è utile riassumere lo scopo e le modalità di effettuazione dello stress test. Facciamo riferimento alla Nota metodologica pubblicata dall’EBA per l'EU-wide stress test del 2016 (European Banking Authority, 2016a).

Lo scopo principale dello stress test (European Banking Authority, 2016a, p. 9) è quello di stimare la resistenza (resilience) agli shock delle banche e dei sistemi bancari dell’UE rispetto a scenari rilevanti e internamente coerenti, sulla base di una metodologia comune applicata a un dataset che rispecchia le classificazioni contabili e di Vigilanza. I risultati dello stress test sono resi pubblici con dettaglio per singole banche per facilitare la disciplina di mercato e per fornire alle Autorità di regolamentazione (Commissione Europea, EBA) di vigilanza (BCE, Autorità nazionali, ESRB) e di risoluzione (SRB, autorità nazionali) un terreno comune sul quale basare le valutazioni e coordinare gli interventi [96].

Mentre i requisiti di primo pilastro si basano sulla fotografia della composizione dei portafogli a una certa data e su informazioni consuntive, lo stress test richiede, oltre a un’analoga rappresentazione statica della situazione iniziale, una profondità di informazioni sul suo sviluppo futuro (in concreto, la stratificazione delle scadenze, contrattuali o attese) e un modello di simulazione dei bilanci futuri. I modelli di simulazione possono essere:

  • di tipo statico, o inerziale, nei quali si prende a riferimento la situazione di bilancio iniziale e la si sviluppa nel tempo assumendo costanza dei modelli strategici e di business, applicando regole automatiche per sistemare i volumi delle operazioni in scadenza, in modo da mantenere un mix produttivo costante;

  • di tipo dinamico, nei quali si possono configurare in maniera esplicita e libera le ipotesi sullo sviluppo dei volumi futuri, anche andando a modificare drasticamente i mix di portafoglio, la struttura dei costi, ecc.;

    • una versione evoluta dei modelli dinamici è quella utilizzata negli stress test per la supervisione macroprudenziale (Dees, Henry, & Martin, 2017); questi modelli simulano il feedback dei comportamenti delle banche sui fattori di scenario in modo da tener conto delle interconnessioni tra intermediari e dei rischi di contagio.

La metodologia adottata dall’EBA fa uso di modelli statici. Si tratta di una scelta voluta, con la quale si concentra l’attenzione sulla situazione in essere, rispetto alla quale si vuole apprezzare l’adeguatezza del patrimonio. Anche le banche soggette a piani di ristrutturazione approvati dalle Autorità sono valutate in base alla situazione statica, che non tiene conto degli interventi correttivi previsti dai piani (European Banking Authority, 2016a, p. 13).

Le elaborazioni si appoggiano per la base informativa sulla situazione iniziale e per i calcoli su modelli di simulazione sviluppati internamente dalle banche, a loro volta integrati con i modelli interni per la determinazione dei requisiti di Pillar 1 (modelli IRB per rischio di credito, modelli interni VaR per rischio di mercato, modelli AMA per rischio operativo) laddove applicati.

Il percorso di analisi va in direzione bottom up: le banche sottoposte allo stress test mettono a disposizione dati e modelli interni, mentre i Supervisori assicurano un common analalytical framework che consente di rendere comparabili e comunicabili al mercato i risultati.

A differenza dei modelli sottostanti i requisiti di Primo pilastro, tutti riconducibili al concetto di perdita potenziale stimata su distribuzioni statistiche delle perdite, lo stress test non identifica una metodologia precisa. Si tratta al fondo di una tecnica di simulazione di tipo what-if dei valori futuri di reddito (e sue componenti), attività e passività, capitale proprio, esposizione a rischio. Nelle simulazioni si applicano degli scenari di ipotesi su grandezze driver a un "motore di simulazione" dei bilanci futuri (in senso lato) della banca. Si tratta quindi di un approccio esplorativo aperto a tanti risultati quanto sono gli scenari che si vogliono mettere alla prova. I risultati ottenuti da un dato scenario sono un sondaggio di quella particolare combinazione di ipotesi.

A differenza delle misure di Pillar 1 che trattano una tipologia di rischio per volta (di credito, di mercato, operativo), nello stress test si svolge un’analisi integrata dei rischi della banca, per cui le ipotesi di scenario possono combinarsi in innumerevoli modi. Le tecniche di stress test che sono applicate nella pratica, tra cui quelle adottate da EBA e BCE, non pretendono di ricostruire una distribuzione multivariata che includa tutti gli stati del mondo possibili e ne ponderi la probabilità; ci si accontenta di simulare alcune situazioni caratterizzate come "scenari base" o "scenari avversi". Il grado di avversità si regola attraverso gli shock che si applicano alle ipotesi sui driver di rischio.

Le variabili risultato dello stress test sono ottenute dalla previsione su un orizzonte triennale dei bilanci delle banche analizzate.
Lo stress test 2016 si è basato sulla situazione iniziale al 31 dicembre 2015 da cui si è costruita una previsione sul triennio 2016-2018.

Il referto del test serve principalmente a saggiare (challenge) la tenuta della posizione di capitale delle banche analizzate negli scenari simulati. Pertanto, nel quadro riassuntivo dei risultati (v. esempio per il gruppo Intesa Sanpaolo in Tabella 6), troviamo in primo piano il capitale regolamentare e i solvency ratio (CET1 e Tier 1), oltre al leverage ratio. Si riporta anche la formazione del reddito netto cumulativo nel triennio di previsione, e delle sue componenti legate al portafoglio di attività e passività (margine di interesse, profitti e perdite su portagli di trading, rettifiche di valore su altri portafogli). Si espone anche il coverage ratio del portafoglio di crediti in default. Per tutti gli indicatori si confrontano i valori iniziali con quelli a fine previsione nei due scenari base e avverso.

StressIsp
Tabella 6. 2016 EU-wide Stress Test: Summary - Intesa Sanpaolo S.p.A.

Fonte: Sito EBA, Bank Individual Results.

Il summary è la punta di un iceberg di dati elaborati dal modello di simulazione che coprono l’intero bilancio nel triennio. Come avviene nella consuntivazione, si ottengono i dati relativi al capitale regolamentare disponibile dal patrimonio a bilancio rettificato in base ai criteri prudenziali, nonché quelli di capitale richiesto a loro volta ottenuti da proiezioni degli \$RWA\$ in senso lato, denominati dall’EBA risk exposure amount (\$REA\$).

Le metodologie di simulazione sono diverse per tipologie di rischio e/o di variabile risultato. Questo aspetto ci introduce al tema della mappa dei rischi censiti dallo stress test, che prevede delle aggiunte e delle differenze rispetto alla mappa utilizzata dal Pillar 1. I tipi di rischio trattati sono i seguenti (European Banking Authority, 2016a, pp. 15-18):

  • rischio di credito valutato per i portafogli Loans and receivables e Held to maturity, comprese le esposizioni sovrane ad essi allocate, per le quali si specificano delle ipotesi differenziate per paese; il perimetro non coincide con il banking book essendo escluse le posizioni AFS;

    • l'impatto sul reddito è stimato per la parte in bonis come impairment da passaggio a NPL sulla base di ipotesi "stressate" di PD e LGD; sul portafoglio iniziale di NPL si stimano maggiori rettifiche applicando incrementi peggiorativi delle LGD;

    • anche l'impatto sul \$REA\$ e i requisiti di capitale sono calcolati dalle stesse ipotesi;

  • rischio di mercato valutato per i portafogli esposti in bilancio al fair value, cioè held for trading, available for sale, designati al fair value e in hedge accounting; si aggiungono anche i rischi di credito e misti del trading book (counterparty credit risk e credit valuation adjustment);

    • l'impatto sul reddito si stima partendo dal valore base del net trading income stimato dalla banca e applicando degli shock ai fattori di rischio di mercato che producono una variazione di fair value; per calibrare gli shock, si costruiscono due scenari storici e uno ipotetico (macroeconomic adverse), e i portafogli AFS sono rivalutati per gli shock soltanto nello scenario avverso; come valore adverse dello stress test si prende il peggiore dei tre scenari; in questo modo si considera il rischio di mercato anche per la componente AFS, a differenza del Pillar 1;

    • l'impatto sul \$REA\$ dipende dagli shock nei portafogli trattati con i modelli interni, ma non in quelli cui si applica l’approccio standardizzato; nel primo caso, il VaR è sostituito dallo Stressed VaR nello scenario avverso;

  • rischio di margine di interesse, è una componente che non è coperta da requisiti di Pillar 1; nei resoconti ICAAP di Pillar 2 è stimato come parte del rischio di tasso di interesse del banking book in base ai principi dettati dal Comitato di Basilea nel 2004 (Basel Committee on Banking Supervision, 2004) e aggiornati nel 2016 (Basel Committee on Banking Supervision, 2016a);

    • nello stress test si considera il net interest income come componente di reddito che impatta sulla posizione finale di capitale, e lo si determina con le metodologie di simulazione interne della banca; la previsione è influenzata dalle ipotesi di scenario sui tassi di riferimento per il repricing di attività e passività fruttifere;

    • non si considera l'impatto sul \$REA\$;

I principi di Basilea in materia di Interest rate risk in the banking book (IRRBB) seguono un approccio ampio che considera sia il rischio di variazione del margine di interesse a breve termine, sia il rischio di variazione dell'economic value del capitale (dato dalla differenza tra attività e passività, calcolato come valore attuale dei rispettivi flussi attesi a lungo termine. La revisione del 2016 prospetta la possibilità di includere un nuovo requisito di Pillar 1 per questo rischio, ma la scelta è rimessa alle varie giurisdizioni.
  • rischio operativo e conduct risk, riferito alle perdite future potenziali per rischi operativi (tra cui i rischi per contenzioso legale) nell’accezione del Primo Pilastro;

    • l'impatto sul reddito si calcola in base ai modelli AMA delle banche e, in mancanza di questi, si utilizza la stima in funzione del margine di intermediazione tipica degli approcci semplificati di Pillar 1 (basic indicator approach e standard approach); l’EBA impone dei livelli minimi (floor) collegati alla media delle perdite storiche rilevate;

    • l'impatto sul \$REA\$, analogamente, si calcola in base agli approcci di vigilanza in uso nel rispetto di floor fissati dall’EBA e riferiti al valore alla data iniziale;

  • rischio su redditi non da interessi, costi operativi, e attività non finanziarie, componente residuale che riassume l’impatto dei fattori di scenario sulle componenti di reddito e sui valori patrimoniali non trattati nelle precedenti tipologie;

    • l'impatto sul reddito è apprezzato in base a stime interne della banca soggette a floor; soltanto agli investimenti in immobili e alle passività per fondi pensione a prestazioni definite si applicano metodologie analoghe a quelle del rischio di mercato con rivalutazioni collegate agli shock macroeconomici;

    • l'impatto sul \$REA\$ non è considerato.

I risultati dello Stress test 2016 sono presentati in European Banking Authority (2016b). Le diagnosi ottenute sono fortemente dipendenti dalle ipotesi adottate dall’EBA. Il rischio di maggior impatto risulta essere quello di credito, seguito da quello operativo/di condotta, che per la parte di rischio legale risulta collegato al precedente. Ciò dipende dalla configurazione degli shock nello scenario avverso, che assume un calo del PIL nell’UE superiore all'1% nel 2016 e nel 2017, con un recupero nel 2018. Il quadro di recessione impatta negativamente sul mercato immobiliare. Non si prospettano invece spostamenti drammatici della curva dei rendimenti obbligazionari, né crisi del debito sovrano, e per questo motivo il rischio di mercato ha un impatto relativamente contenuto. I tassi di interesse sono mantenuti (coerentemente) non distanti dai bassi livelli iniziali, con un impatto negativo sul margine di interesse.

Con queste premesse, non stupisce che il test accerti una grave carenza di capitale per le banche caratterizzate da un’alta incidenza di NPL unita a coverage ratio inferiori ai benchmark per tipo di portafoglio: nello scenario avverso, i maggiori default causati dalla recessione e lo stress della LGD fanno lievitare l'impairment sulle esposizioni deteriorate. Non accade nulla, nello scenario avverso, in grado di compensare queste perdite incrementali, in presenza di volumi statici e margini compressi, applicati a una massa di operazioni in bonis che si svuota per i passaggi a NPL.

La sintesi dei risultati per il Monte dei Paschi di Siena mostra esattamente una diagnosi di questo tipo (v. Tabella 7).

Lo stress test 2016 coglie correttamente la fragilità delle banche che si presentano all’esame con una situazione iniziale appesantita da squilibri importanti, assumendo un ulteriore peggioramento rispetto a una scenario base non favorevole a un recupero organico di redditività.

D’altro canto, non si può essere interamente rassicurati sulla situazione delle banche che ottengono un giudizio "pulito": le ipotesi "avverse" toccano infatti punti dolenti del tutto palesi delle banche vulnerabili, ma non tasta altri possibili punti critici che potrebbero mettere in difficoltà anche quelle che si presentano più solide.

Ad esempio, se si ipotizzasse uno shock al rialzo dei tassi di interesse, la componente rischio di mercato passerebbe in primo piano, impattando sulle svalutazioni del portafoglio AFS, con impatti modulati dalla loro duration, e su un probabile calo dei volumi e dei ricavi sul risparmio gestito, a vantaggio della raccolta di depositi. Se poi l’aumento dei tassi si accompagnasse a un allargamento degli spread per rischio sovrano, avremmo ancora impatti molto differenziati tra banche di paesi diversi o con diverso domestic bias nelle politiche di portafoglio titoli.
StressMps
Tabella 7. 2016 EU-wide Stress Test: Summary - Monte dei Paschi di Sienza S.p.A.

Fonte: Sito EBA, Bank Individual Results.

Lo strumento dello stress test è sicuramente utile per pesare gli impatti dei diversi fattori, aggregarli sulla situazione consolidata e trarne risultati verificati e comparabili. Non è però tale da aumentare sostanzialmente la profondità dell’analisi.

I modelli di stress testing sono infatti una tecnica di narrazione che, dati gli antefatti (la situazione iniziale) e la trama (gli scenari ipotizzati), sviluppa una storia che punta verso un epilogo che risulta facilmente prevedibile se le premesse sono semplici, mentre rimane incerto e instabile se sono complesse. Le conclusioni sono tanto valide quanto lo sono le ipotesi: se lo scenario prospettato è effettivamente quello con la più alta probabilità di realizzarsi, allora i risultati segnalano correttamente le situazioni critiche e la relativa gravità. Se invece il futuro può riservare sorprese, dando luogo a biforcazioni verso equilibri multipli, allora potrebbero restare in ombra situazioni potenzialmente molto pericolose. Evidenziare o meno tali focolai di instabilità è una scelta essenzialmente politica. Evidenziarli congiuntamente, o esasperarne la gravità, porterebbe a un quadro catastrofico per il sistema finanziario, nel quale il rafforzamento patrimoniale preventivo, unico rimedio a disposizione, a poco servirebbe.

Dal punto di vista del capital management, gli stress test determinano dei fabbisogni addizionali di capitale che riproiettano, e di solito amplificano, quelli già misurati dai requisiti di Pillar 1. Possono però aggiungere dei rischi che il Pillar 1 trascura (primo fra tutti il rischio di mercato dei titoli AFS del banking book), ma lo fanno in maniera non "sistematica", per di più governabile dalle Autorità preposte attraverso ipotesi di scenario più o meno severe. Inoltre, lo stress test è un approccio basato su dati e modelli interni delle banche sottoposte a scrutinio, e come gli approcci IRB, VaR e AMA può condurre a differenze ingiustificate tra istituti.

Ci sono buoni motivi per credere che il vaglio periodico degli stress test aumenti la probabilità per una banca di vedersi contestare dalle Autorità una carenza di capitale importante, pur in presenza di solvency ratio capienti. Nei casi singoli, diagnosi del genere possono essere provvidenziali per attivare interventi correttivi che evitano il dissesto futuro. Nell’ottica generale del nostro modello di valutazione delle azioni, questi esami ripetuti rappresentano un elemento di valutazione negativo, in quanto aumentano l’incertezza sui requisiti regolamentari insieme con la probabilità di riduzioni inattese dei flussi di cassa sull'equity.

Mettiamo per il momento da parte la questione dell’efficacia dei protocolli di diagnosi precoce e cura, che affronteremo nella seconda parte del nostro studio.

3.4. Confronto tra capitale richiesto e capitale disponibile e determinazione del capital gap (KGAP)

Nei punti precedenti abbiamo considerato rettifiche straordinarie ai valori di bilancio in base a ipotesi di dismissione o realizzo che hanno un impatto economico latente, oltre a modificare gli \$RWA\$ e i connessi assorbimenti patrimoniali.

Nella realtà la banca può disporre di un capitale eccedente o deficitario rispetto a quello idealmente richiesto dopo le nostre rettifiche.

Tenendo conto delle rettifiche apportate, si ricalcolano gli \$RWA\$ e si determina quindi il valore del capitale richiesto \$K\$. Riassumiamo i passaggi visti nei punti precedenti per giungere alla determinazione del capital gap:

  • partendo dal capitale netto tangibile a bilancio, si imputano rettifiche straordinarie che producono un impatto economico negativo, al netto di effetti fiscali, che chiamiamo \$XLOSS\$; questo va a ridurre nella stessa misura il capitale tangibile \$TC\$; idealmente \$XLOSS\$ impegna una parte delle attività liquide della banca che è come se venisse congelata in un conto vincolato a copertura di un fondo del passivo;

  • specularmente, varia il capitale richiesto per l’impatto sugli \$RWA\$ delle operazioni di ristrutturazione e pulizia associate alle rettifiche; chiamiamo tale variazione \$varK\$; otteniamo di conseguenza un capitale richiesto modificato \$K_M = K + varK\$; di norma \$K\$ diminuisce per effetto della riduzione di esposizioni non-core e in tale caso \$varK < 0\$;

  • la differenza tra il \$TC\$ disponibile dopo le rettifiche (\$TC_M\$), e il capitale richiesto modificato (\$K_M\$) è trattata come uno sbilancio (\$KGAP\$) che si presume di dover regolare immediatamente nei confronti degli azionisti, con due possibilità

    • coprire l’ammanco derivante da un \$KGAP>0\$ con un aumento di capitale a pagamento;

    • liberare le risorse in eccesso per \$KGAP<0\$ con un dividendo straordinario o un riacquisto di azioni sul mercato.

Dall’illustrazione, seppur abbreviata, delle regole prudenziali, ci si è resi conto della complessità del procedimento di calcolo di \$TC_M\$ e di \$K_M\$. Gli shock che modificano il capitale disponibile e quello richiesto si influenzano a vicenda con effetti di feedback: ad esempio, le franchigie su DTA e investimenti in CET1 di istituzioni finanziarie sono dipendenti dal CET1 e ciò fa sì che una diminuzione del CET1 riduca la franchigia, con un effetto di amplificazione. Analogamente la fiscalità influenza il reddito netto corrente e, date le ipotesi sui redditi futuri, il valore delle DTA con impatto sul CET1 sugli \$RWA\$ e sui requisiti di capitale.
Per alcune esposizioni (ad esempio, le quote delle tranche a maggior rischio delle cartolarizzazioni) vi è poi la possibilità di scegliere tra deduzione dal CET1 e inserimento dell’esposizione dagli \$RWA\$ con un coefficiente di rischio del 1250% che produce lo stesso assorbimento di capitale essendo \$k_j = rw_j xx k = 1250% xx 8% = 100%\$.

Questi effetti richiedono, per essere correttamente apprezzati, un modello di simulazione accurato, come quelli interni alle banche che supportano lo stress testing regolamentare.

Negli esempi che si presentano in seguito, preferiamo non esplicitare gli effetti di secondo ordine e comunque di trattarli in maniera semplificata, a beneficio della leggibilità e della riproducibilità dei risultati. Adottando questo approccio essenziale, nella sezione successiva mostriamo come la valutazione delle azioni di una banca dipende dal \$KGAP\$ così determinato.

4. Il valore di mercato del capitale proprio con l’approccio equity-based

Come si è visto nella sezione precedente, la regolamentazione e la supervisione prudenziale condizionano fortemente tutte le aree della gestione finanziaria delle banche: le politiche dell’attivo, la gestione coordinata dell’attivo e del passivo (Asset-liability management), la gestione della tesoreria, il grado di leva finanziaria, le politiche dei dividendi in senso lato e, naturalmente, il capital planning. La banca non può decidere in autonomia i dividendi da distribuire, né i rimborsi di azioni o di debito subordinato: oltre a rispettare il diritto societario, dovrà essere in regola con i solvency ratio minimi, nella versione più stringente "raccomandata" nel processo di supervisione e inclusivi dei combined buffer, oltre che con i liquidity ratio, il leverage ratio e i requisiti MREL. Per lo stesso motivo, al manifestarsi di una carenza patrimoniale, la banca potrà essere costretta a raccogliere nuovo capitale, o a modificare il proprio bilancio, o tutt’e due le cose. Le Autorità di supervisione, affiancate nei casi critici dalle Autorità di risoluzione, interloquiscono costantemente con il CEO e il CFO della banca [97], con pareri che la banca non può non tenere in considerazione.

Di conseguenza, i flussi di cassa attesi dagli investitori in azioni bancarie sono legati da relazioni più complesse con il reddito netto di esercizio rispetto a quanto si verifica in settori meno regolamentati. In molte banche, negli anni successivi alla crisi globale, i dividendi sono stati sopravanzati per ordine di grandezza dai flussi per operazioni sul capitale. In presenza di un fabbisogno di capitale latente e indeterminato, gli investitori sanno di non poter fare affidamento su un flusso di dividendo stabile, e anzi mettono in conto limitazioni degli utili distribuiti e richieste di nuovi capitali da parte delle banche.

In presenza di strumenti di capitale AT1 che condividono i rischi going concern con le azioni, diventa ancora più complesso stimare i punti di innesco delle restrizioni ai flussi distribuiti e la distribuzione dei suoi effetti tra capitale proprio e strumenti alternativi. Parte dell’incertezza discende dalle decisioni delle Autorità di supervisione, che possono decidere (come si è fatto nell’UE per la Pillar 2 guidance) di allentare i blocchi automatici al pagamento di dividendi e cedole cancellabili.

In conseguenza di ciò, dopo la crisi finanziaria globale valutare le azioni bancarie è diventato più difficile. In questa sezione si inquadrano i modelli canonici di valutazione di tipo discounted cash flow, si evidenziano i loro limiti nel contesto attuale e si propone un modello basato sul multiplo price/tangible book value per share adattato per gestire l’impatto dei requisiti prudenziali di capitale sulle valutazioni.

4.1. I dividend discount model (DDM)

Se le azioni di una banca sono quotate in Borsa, i prezzi di mercato esprimono una valutazione nel continuo del suo capitale proprio. Secondo l’analisi fondamentale, un investitore competente e ben informato stima il prezzo di equilibrio di un’azione come valore attuale dei flussi di cassa attesi dalla stessa, scontati a un tasso di rendimento target calibrato in funzione del rischio.

Nel caso delle imprese non finanziarie, il valore dell'equity secondo l’approccio di tipo discounted cash flow (DCF) si può ottenere indirettamente passando per il calcolo dell'enterprise value dato dal valore attuale dei flussi sull’attivo (c.d. flussi unlevered ) senza considerare i flussi sul debito. Il valore del capitale proprio si ricava dall'enterprise value aggiungendo le attività finanziarie e sottraendo il debito.

Nel caso di una banca, l’approccio DCF si applica ai flussi attesi sull'equity (c.d. flussi levered che includono quelli sul debito). Infatti, come evidenzia Damodaran (2010, pp. 449-51), una banca non ha una gestione della struttura finanziaria (debito + capitale) separata dalla gestione caratteristica, essendo la maggior parte dei debiti assunta nei confronti della clientela ordinaria, correlata con l’attivo e legata alla formazione del margine primo della gestione caratteristica, il net interest income. Pertanto, nel caso delle banche non ha senso determinare separatamente l'enterprise value.

Tuttavia, una parte del debito (le passività subordinate comprese nell’AT1 e nel T2) concorre con il capitale alla copertura dei rischi: quando ciò si verifica, il modello si dovrebbe applicare ai flussi sul Total capital per determinarne il valore di mercato, da ripartire nelle tre componenti (CET1+AT1+T2). In prospettiva, si potrebbe costruire un modello che valuta il capitale "allargato" comprendente anche il debito MREL-eligible esposto a bail-in, come le obbligazioni senior non-preferred.

Qui non seguiremo l’approccio asset-based seguito da tali modelli di valutazione, detti "strutturali", che è rinviato alla seconda parte di questo studio [98].

I modelli più semplici di tipo DCF equity based sono i dividend discount model (DDM). Per i motivi detti in precedenza, i flussi sull'equity di una banca nelle condizioni attuali di mercato non sono approssimabili da una serie regolare di dividendi attesi, ma devono essere stimati con un modello previsionale ad hoc in funzione del piano industriale e del correlato capital plan.

Di solito gli analisti che coprono il settore bancario fanno uso di modelli DCF a due stadi, nei quali si effettua una stima esplicita dei flussi di cassa anno per anno su un periodo iniziale compreso tra 5 e 15 anni, al termine del quale si calcola un prezzo futuro atteso con un modello semplificato di attualizzazione dei dividendi in ipotesi di crescita costante a infinito ad un tasso di crescita stabile g [99].

La formula standard del prezzo equo \$P_0\$ di un’azione derivato da un DDM a due stadi è la seguente:

\$P_0 = sum_(t=1)^T (DPS_t) / {(1+r_E)^t} + {P_T} / {(1+ r_E)^T}\$

con \$P_T = {DPS_(T+1)}/(r_E - g)\$, calcolato con la nota formula del valore attuale di una rendita infinita crescente,

dove \$T\$ è la durata in anni del periodo iniziale nel quale utli e dividendi sono stimati anno per anno, \$DPS_t\$ è il dividendo per azione atteso nell’anno \$t\$, \$r_E\$ è il tasso di rendimento atteso dall’investitore in equity adeguato al rischio, \$g\$ è il tasso di crescita dei dividendi nel periodo di crescita stabile.

Di solito il tasso di crescita \$g\$ è calibrato in funzione del return on equity atteso (\$ROE\$) e del tasso di distribuzione degli utili (payout ratio, \$p\$), che determina il livello dei dividendi dato l’utile per azione \$EPS\$. Si parla in questo caso di tasso di crescita sostenibile, in quanto commisurato al potenziale di crescita organica del capitale proprio per effetto degli utili trattenuti e portati a riserva. Ipotizzando che il \$ROE\$ e il payout \$p\$ possano variare nel tempo, il tasso di crescita nell’anno \$t\$ si calcola con la seguente formula, adattata da Damodaran (2010, pp. 449-475):

\$g_t = ROE_t (1 - p_(t-1)) + (ROE_t - ROE_(t-1)) / (ROE_(t-1))\$.

Questa formula può essere utilizzata per stimare i tassi di crescita \$g_t\$ del periodo iniziale, oppure il tasso \$g\$ di lungo periodo. Nel secondo caso si utilizzeranno i valori medio-normali di lungo periodo di \$ROE\$ e \$p\$ e il secondo termine sarà nullo:

\$g = ROE (1 - p)\$

Prima della crisi finanziaria globale i DDM, come si sottolinea in Massari, Gianfrate, & Zanetti (2014, p. 116), erano tra i modelli preferiti per valutare le azioni bancarie, poiché il settore presentava condizioni ideali per la loro applicazione, ovvero un fabbisogno di capitale soddisfatto con la crescita organica, payout ratio elevati e una capacità di reddito atteso stabile. Dopo la crisi finanziaria globale queste assunzioni non sono più valide: utili e dividendi variano spesso in maniera erratica, si palesano fabbisogni di capitale urgenti e imprevisti, sono frequenti le riorganizzazioni, imposte anche dall’obsolescenza dei modelli di business.

Per rispondere al contesto mutato, i DDM sono stati adattati includendo nella formula una componente aggiuntiva data dall’eccesso/deficit di capitale proprio. Si suppone in tale approccio che la banca alla data iniziale distribuisca l’eventuale patrimonio in eccesso, o nel caso opposto effettui un aumento di capitale per colmare il deficit rispetto al fabbisogno. Secondo la formulazione di Massari, Gianfrate, & Zanetti (2014, p. 120):

Equity value = Excess (deficit) capital + DCF Valuation

La previsione degli utili e dei dividendi è impostata assumendo di partire da una situazione in tal modo riequilibrata. Si tratta di una logica analoga a quella che si applica qui di seguito nel modello dei multipli \$PB\$, ma che non riteniamo utile approfondire nel caso dei DDM.

4.2. Altri approcci equity-based

Per completezza, ci limitiamo a menzionare gli altri approcci valutativi basati sull’attualizzazione dei flussi di cassa attesi, rinviando per la loro illustrazione alla vasta letteratura sul tema, nella quale si segnalano Damodaran (2010, pp. 449-475); Massari, Gianfrate, & Zanetti (2014, pp. 118-120); Chen (2013); Dermine (2014).

Modelli di attualizzazione del free cash flow to equity

Sono un’estensione dei DDM nella quale si modella il free cash flow to equity (FCFE), che è il flusso di cassa residuale nei confronti degli azionisti generato dalla gestione. Si ha in tal modo la possibilità di pianificare in maniera più articolata i flussi di cassa a carattere non ricorrente (ad esempio per aumenti di capitale e per rimborso o riacquisto di azioni). Il procedimento di calcolo è molto simile a quello dei DDM: si sostituiscono ai dividendi unitari gli FCFE attesi per calcolare il valore corrente dell'equity \$E_0\$ in luogo del prezzo dell’azione, poi ottenuto dividendo \$E_0\$ per il numero di azioni. Il tasso di rendimento utilizzato per scontare i flussi è lo stesso. La formula è la seguente:

\$E_0 = sum_(t=1)^T (FCFE_t) / {(1+r_E)^t} + {E_T} / {(1+ r_E)^T}\$

\$E_T = {FCFE_(T+1)}/(r_E - g)\$

Modelli dell'excess return

Sono riconducibili all’approccio EVA Economic Value Added (Uyemura, Kantor, & Pettit, 1996) e spiegano il valore dell’equity come somma del suo valore contabile rettificato (\$BV\$) e di una componente di goodwill/badwill (\$GwBw\$) [100], determinata dalla differenza tra il rendimento atteso sul capitale proprio \$ROE\$ e il relativo costo aggiustato per il rischio \$r_E\$. Nella sua versione a due stadi, del tutto analoga a quella utilizzata per i DDM, il modello si traduce nella seguente formula:

(4) \$E_0 = BV_0 + GwBw_0\$

\$GwBw_0 = sum_(t=1)^T {(ROE_t - r_E) BV_{t-1}} / {(1+r_E)^t} + {GwBw_T} / {(1+ r_E)^T}\$

\$GwBw_T = {(ROE_T - r_E) BV_T}/(r_E - g)\$

dove \$ROE_T\$ indica il livello atteso di lungo periodo del rendimento sul capitale proprio.

In Chen (2013) si propone un’applicazione interessante di questo approccio basata sul concetto di ROIC (Return On Invested Capital).

Modelli sum-of-parts

Ottengono il valore del capitale netto come somma del valore economico del capitale allocato alle diverse business unit. Richiede informazioni analitiche che normalmente non sono reperibili nell’informativa obbligatoria al mercato, motivo per cui sono utilizzabili internamente dalla direzione finanziaria della banca o da analisti esterni specializzati, disposti a investire tempo e risorse. Non possiamo specificare qui la loro articolata formulazione. Sul tema si rimanda a Dermine (2014).

4.3. L’approccio basato sul multiplo Price/Tangible Book Value Per Share (PB)

I modelli DCF producono stime esplicite e formalmente accurate del valore di mercato, ma non si prestano ad un utilizzo diffuso, dato che fanno uso di un insieme complesso di ipotesi che pochi operatori qualificati sono capaci di configurare, e che si basa anche su informazioni non divulgate. Per una valutazione semplice e veloce della congruità del prezzo si preferisce applicare il metodo dei multipli, che si basa sulla valutazione relativa di un’azione rispetto a una o più azioni giudicate comparabili.

Questo metodo spiega il prezzo dell’azione partendo da un driver di valore, associato a grandezze economiche o patrimoniali, che viene moltiplicato per un parametro di valore relativo (il multiplo, appunto).

Il multiplo più diffuso nella valutazione delle azioni in generale è il Price to Earnings Per Share (\$PE\$), ovvero il rapporto tra prezzo di borsa e utile netto per azione (earnings per share, \$EPS\$). Di solito si usa il Forward PE che utilizza l'\$EPS\$ atteso nell’anno successivo alla data di valutazione. Tuttavia, le banche sono caratterizzate da un’alta variabilità degli \$EPS\$ per fattori ciclici o non ricorrenti. Pertanto, per rendere i \$PE\$ confrontabili nel tempo e tra banche, occorrono rettifiche pro forma degli utili da parte degli analisti (Dermine, 2014, p. 44).

Un multiplo che si presta meglio a essere confrontato tra banche senza richiedere rettifiche complesse dei dati contabili impiegati è il Price to Book Value Per Share (\$PB\$), dato dal rapporto tra prezzo dell’azione e patrimonio netto contabile per azione (\$BVPS\$). Il \$BVPS\$, che si ottiene semplicemente dividendo il valore contabile del capitale proprio per il numero di azioni in circolazione, è infatti una grandezza più stabile dell'\$EPS\$.

Il \$PB\$ di una banca quotata in borsa si osserva dai dati sul capitale proprio e sul numero di azioni desunti dai bilanci più recenti (ed eventualmente aggiornati in base a fatti successivi noti). Da questi si ottiene il \$BVPS\$ per il quale si divide la quotazione corrente di Borsa \$P_0\$:

\$PB_0 = {P_0}/{BVPS_0} \$

Si ottiene lo stesso risultato dividendo la capitalizzazione di Borsa, che è il dato osservabile di valore dell'equity \$E_0\$, per il valore totale del capitale proprio contabile:

\$PB_0 = {E_0}/{BV_0} \$

Dato un multiplo congruo \$PB_{R,0}\$, stimato in base ai valori osservati dai prezzi di borsa per una o più banche comparabili, si può stimare in modo semplicissimo il valore equo di mercato di un’altra banca: è sufficiente moltiplicare il \$PB\$ congruo per il \$BV\$ della banca da valutare.
Tale fair value può essere ottenuto come prezzo dell’azione \$P_{a,0}\$, dove \$a\$ indica la banca da valutare,

\$P_{a,0} = BVPS_{a,0} xx PB_{R,0}\$

oppure come valore dell'equity

\$E_{a,0} = BV_{a,0} xx PB_{R,0}\$

Se si vuole adottare un criterio di valutazione prudente, è bene riferire \$PB\$ al capitale tangibile per azione, ridotto per le attività immateriali. In questo modo il capitale proprio tangibile si avvicina al capitale regolamentare, che pure prevede la deduzione delle attività immateriali. A discrezione dell’analista, si potranno applicare altre rettifiche analoghe ai filtri prudenziali (v. sopra La dotazione di capitale regolamentare disponibile) in modo da allineare ulteriormente il capitale tangibile al capitale regolamentare. Come soluzione estrema, si può utilizzare lo stesso CET1 come misura del capitale proprio tangibile, come faremo nell'esempio conclusivo. Il CET1 è direttamente reperibile nell’informativa di bilancio di una banca.

A parità di \$PB\$ e di \$BVPS\$ si ottengono valutazioni più basse per le banche che deducono dal \$BVPS\$ una quota maggiore di attività intangibili. Ciò porta a penalizzare, ad esempio, i gruppi che hanno pagato ingenti premi per avviamento in occasione dell’acquisizione di altri istituti (Chen, 2013).

Molti fattori contribuiscono a spiegare il valore di \$PB\$. Per giustificare e stimare il valore delle differenze tra market value e tangible book value del capitale occorre applicare i modelli dell'excess return prima menzionati, dai quali si evince che \$PB\$ risulta uguale a 1 quando la redditività attesa dei mezzi propri (\$ROE\$) risulta allineata con il rendimento richiesto sull'equity sull’orizzonte di valutazione di lungo periodo dell’investitore. Infatti, dalla (4):

se \$ROE_T = r_E\$ allora \$GwBw_T = {(ROE_T - r_E) BV_T}/(r_E - g) = 0\$

e se inoltre \$ROE_t = r_E\$ in tutti gli anni del periodo di iniziale, avremo

\$GwBw_0 = sum_(t=1)^T {(ROE_t - r_E) BV_{t-1}} / {(1+r_E)^t} + {GwBw_T} / {(1+ r_E)^T} = 0\$

per cui

\$E_0 = BV_0 + GwBw_0 = BV_0\$

In estrema sintesi, i modelli DCF ci portano ad affermare che un valore di \$PB\$ superiore a 1 denota una capacità di reddito più che adeguata rispetto al capitale assorbito e al rischio, ovvero un rendimento sul capitale proprio superiore al costo dell'equity richiesto dagli investitori. Specularmente un \$PB\$ inferiore a 1 denota una capacità di reddito inferiore alle richieste degli investitori.

Come già accennato, applicare questa metodologia di valutazione richiede un’analisi approfondita dei bilanci passati e delle politiche future della banca, come esemplificato in Chen (2013). Non intendiamo qui sviscerare la complessità di tali modelli, essendo ai nostri fini sufficiente una valutazione di tipo relativo nella quale le suddette differenze di valutazione sono semplicemente registrate confrontando i multipli \$PB\$ di banche diverse.

Oltre che dal divario tra rendimento e costo del capitale, \$PB\$ è influenzato anche da altri fattori, che saranno introdotti qui di seguito.

4.4. Impatto del deficit/eccesso di capitale sul valore delle azioni

Come già evidenziato, una banca può attuare un progetto imprenditoriale autonomamente sostenibile, ed essere quindi valutata come going concern, soltanto se dispone di capitale adeguato. Il fabbisogno di capitale è almeno pari al target stabilito nel processo di supervisione prudenziale dalle Autorità competenti (v. Quali sono i requisiti complessivi di capitale?). Gli investitori possono ipotizzare un fabbisogno superiore al requisito regolamentare allargato, laddove ritengano che lo stesso non consideri rischi o perdite latenti. Se invece preferiscono una misura esterna, non soggettiva, opteranno per il livello target regolamentare. In ogni caso, il capitale da ritenersi adeguato per una banca caratterizzata da una struttura di bilancio e da un portafoglio di business dati può variare per il cambiamento delle regole sui ratio minimi, delle prassi di supervisione prudenziale e dell’atteggiamento verso il rischio degli investitori.

La determinazione del valore di mercato dell’equity (\$E\$)

Nel modello presentato in precedenza (v. La dotazione di capitale regolamentare disponibile), il valore modificato del capitale proprio tangibile, al netto delle rettifiche straordinarie (\$TC_M = TC - XLOSS\$), viene confrontato con il capitale richiesto analogamente modificato \$K_M = K + varK\$ per determinare un divario, che chiamiamo capital gap (\$KGAP\$):

\$KGAP = K_M - TC_M\$

La differenza \$KGAP\$ tra il capitale richiesto \$K_M\$ e il capitale disponibile \$TC_M\$ è trattata come uno sbilancio che si presume di dover regolare immediatamente nei confronti degli azionisti, e pertanto contribuisce in proporzione 1 a 1 al valore di mercato dell'equity. Possiamo avere due situazioni:

  • se il capitale modificato è inferiore al capitale richiesto, i requisiti patrimoniali non sono rispettati, e il deficit è conteggiato dagli analisti come un flusso di cassa negativo a loro carico, destinato a tradursi in minori dividendi, o in impegni di sottoscrizione di aumenti di capitale. Nei casi più critici, il gap patrimoniale può comportare azioni di risanamento o di risoluzione con sacrifici ancora maggiori per i detentori di capitale di rischio e di strumenti di debito soggetti a bail-in ( v. Ricapitalizzazione con equity ante aumento negativo (rinvio));

  • se invece la banca dispone di un’eccedenza di capitale rispetto al fabbisogno, questa sarà conteggiata come una disponibilità di capitale in eccesso parcheggiata sul suo bilancio, ma non impiegata nella creazione di valore attraverso la gestione. Sarà pertanto valutata "alla pari", senza applicare un multiplo di valutazione.

Nel caso di ammanco di capitale (\$KGAP>0\$) si dovranno aggiungere allo stesso \$KGAP\$ i costi di emissione (issuing costs, \$IC\$) che la banca deve sostenere per effettuare la ricapitalizzazione. Questi hanno una composizione diversa in funzione della modalità di raccolta del capitale mancante. Nel caso di un normale aumento di capitale sul mercato, si dovranno sostenere costi per servizi di consulenza finanziaria e legale, commissioni di collocamento, oneri dovuti alla società che gestisce il mercato, costi di transazione relativi a operazioni collegate (ad esempio cessione o cartolarizzazione di NPL, se non sono già conteggiati in \$XLOSS\$). Il peso di questa componente non è di solito trascurabile (nell’ordine del 5% dell’importo del cash da raccogliere).
Se i costi di emissione sono stimabili in base a una percentuale di incidenza \$ic\$ sul capitale raccolto \$C\$, tale che \$IC = C xx ic\$, ponendo la condizione che \$C - IC = K_M - TC_M\$ possiamo ottenere un’espressione per il \$KGAP = C\$ comprensivo della quota a copertura dei costi di emissione:

(5) \$KGAP = K_M - TC_M + IC = K_M - TC_M + ic xx KGAP = {K_M - TC_M} / {1 - ic}\$

Nel resto del paper, se non indicato diversamente, consideriamo \$KGAP\$ inclusivo dei costi di emissione.

Arriviamo pertanto al valore di mercato dell'equity con i seguenti passaggi:

  • si assume un’immediata operazione sul capitale nella misura di \$KGAP\$, che sarà di raccolta (se \$KGAP>0\$) o di distribuzione (se \$KGAP<0\$); il flusso conseguente ha un impatto diretto sul valore di \$E\$, negativo nel primo caso e positivo nel secondo;

  • ipotizzando questo intervento straordinario e immediato sul capitale, la banca verrebbe a disporre di un capitale tangibile \$TC_M\$ esattamente pari al livello richiesto \$K_M\$, pure rettificato per gli aggiustamenti one-off; in questo modo \$KGAP\$ si azzera;

  • pe trasformare questo \$TC_M = K_M\$ in market value lo si moltiplica per il multiplo di equilibrio \$PB_e\$ che si applicherebbe a una banca adeguatamente capitalizzata.

In formule, nel caso di ammanco di capitale, partendo dal valore di bilancio del capitale tangibile (\$TC\$), date le rettifiche per perdite latenti al netto di imposte (\$XLOSS\$), i corrispondenti impatti sul capitale richiesto \$varK\$. i costi di emissione stimati (\$IC = ic xx KGAP\$) e il multiplo di valutazione di equilibrio \$PB_e\$, il valore di mercato dell'equity della banca (\$E\$) è così determinato:

\$E = PB_e xx (K + varK) - [(K + varK) - (TC - XLOSS) + IC] = PB_e xx K_M - {K_M - TC_M} / {1 - ic} = PB_e xx K_M - KGAP\$
Per valutare una banca che necessita di un intervento straordinario sulle esposizioni non-core è necessario esplicitare le modalità di tale intervento (ad esempio, svalutazione e mantenimento a bilancio vs. cessione o cartolarizzazione). Infatti, per poter misurare in maniera coerente gli impatti sul \$KGAP\$, occorre ricordare che sono sempre duplici, dato che si tocca sia il capitale richiesto, sia quello disponibile.

Ricapitolando, il valore dell'equity si ottiene come somma algebrica:

  • del valore economico del capitale richiesto per operare (\$PB_e xx K_M\$) calcolato nell’ipotesi di aver corretto l’eccesso o deficit di capitale; dipende dal multiplo di equilibrio \$PB_e\$, a sua volta collegato alla capacità di reddito attesa della banca "ristrutturata" e al rendimento target sul capitale proprio;

  • del capital gap \$KGAP\$ che è sottratto quando il capitale è carente, mentre è sommato quando risulta in eccesso.

Una volta stimati i valori aggiustati del capitale richiesto e di quello disponibile e la loro differenza \$KGAP\$, è facile ricavare \$PB_e\$ dal valore di mercato:

(6) \$PB_e = {E + KGAP} / {K_M} = {E + {K - (TC - XLOSS - varK)}/{1 - ic}} / {K + varK} \$

Il multiplo di equilibrio è calcolato sulla situazione riequilibrata in cui la banca effettua un aumento di capitale pari a \$KGAP\$ che porta il numeratore (valore dell'equity) a \$E + KGAP\$, e parallelamente allinea il denominatore (capitale tangibile) al livello richiesto \$K_M\$.

Volendo evidenziare le determinanti della differenza tra valore di mercato e valore contabile rettificato, che corrisponde al goodwill/badwill attribuito alla banca, possiamo riformulare così l’espressione precedente:

(7) \$E = PB_e xx K_M - (K_M - TC_M) = TC_M - (1 - PB_e) xx K_M\$

La valutazione di mercato pertanto include il valore \$TC_M\$ nel quale si sottraggono "alla pari" dal capitale tangibile le perdite nette latenti \$XLOSS\$. Non meno importante è l’impatto del multiplo di valutazione \$PB_e\$: se questo è inferiore a 1, a causa di rendimenti attesi inferiori al costo del capitale risk-adjusted, la valutazione di mercato soffrirà una decurtazione commisurata al prodotto dell’intero capitale richiesto \$K_M\$ per lo scarto negativo di \$PB_e\$ rispetto al valore di 1. Come si vedrà la seconda componente può compromettere le chance che una banca ha di ricapitalizzarsi sul mercato.

Il valore di \$E\$ può essere negativo anche quando la banca ha un capitale tangibile positivo, e ciò per effetto delle due componenti in diminuzione \$XLOSS\$ e \$(1 - PB_e) K_M\$. Affinché \$E\$ sia positivo, occorre che sia rispettata la seguente diseguaglianza:

\$PB_e K_M > KGAP => E > 0 \$

riformulabile come

\$TC_M = (TC - XLOSS) > (1 - PB_e) K_M => E > 0 \$

Dalla formula si deduce che una banca ha valore negativo quando, dopo l’eventuale ricapitalizzazione, raggiungerebbe un valore \$PB_e K_M\$ che risulta inferiore all’apporto di capitale pari a \$KGAP\$ che è necessario per ripianare le perdite \$XLOSS\$ e adeguare \$TC\$ a \$K_M\$. L’altra formulazione evidenzia che un capitale tangibile modificato per le perdite latenti \$TC- XLOSS > 0\$ non basta a determinare un \$E\$ positivo quando risulta insufficiente a compensare il badwill negativo \$(1 - PB_e) K_M\$.

Il valore di mercato di una banca si comporta come quello di un immobile da ristrutturare costruito su un terreno inquinato: se i costi di bonifica e di ristrutturazione superano il valore al quale si stima di poter cedere l’immobile dopo l’intervento non si presenterà nessun acquirente, e anzi si dovrà corrispondere un contributo in conto acquisto se si vuole che qualcuno rilevi la struttura per risanarla.

Come si approfondisce in seguito, un valore di mercato basso o negativo comporta in caso di aumento di capitale la drastica diluizione degli azionisti esistenti. Si tratta di casi frequenti nella situazione di mercato attuale, caratterizzata da \$PB\$ sensibilmente inferiori all’unità [101].

Viene da domandarsi come siano sostenibili valutazioni delle banche che scontano un badwill persistente: come può un settore operare con una dotazione obbligatoria di capitale che la maggior parte delle imprese che ne fanno parte non riesce a remunerare adeguatamente? Il paradosso si può spiegare in una fase, come l’attuale, di riorganizzazione radicale del settore, nella quale è alta l’incertezza su tempi e modi del ritorno a una nuova normalità (v. La riorganizzazione attesa del modello di business), e si presume che una parte rilevante delle banche uscirà dal mercato oppure sarà sostenuta con sussidi provenienti dallo Stato o dal resto del sistema bancario (v. Ricapitalizzazione senza azzeramento del capitale e con apporto di un sussidio).

5. Aumenti di capitale e valutazione delle azioni: un breve ripasso

Per una comprensione più chiara delle parti successive, riepiloghiamo alcune nozioni basilari di tecnica di Borsa in tema di aumenti di capitale e comportamento del prezzo e dei diritti di opzione. Tutti gli operatori e gli esperti finanziari padroneggiano questi temi, ma si è ritenuto lo stesso di inquadrarli al fine di porre in primo piano i fondamentali sui quali si regge la valutazione (primo fra tutti il valore della società), visione che non sempre si adotta nella prassi e nella cronaca finanziaria, laddove ci si limita a riportare le technicalities dell’offerta (il prezzo di emissione, il rapporto tra azioni nuove e azioni esistenti), e i valori derivati in base a relazioni di equilibrio da non arbitraggio (prezzo equo dei diritti, prezzi dell’azione cum e ex diritto). Se non si esplicitano i nessi tra fondamentali e grandezze derivate, la comunicazione finanziaria su queste operazioni rischia di rimanere criptica e formale.

5.1. Le variabili e le relazioni basilari

Ipotizziamo un aumento di capitale a pagamento di una società quotata in Borsa, che utilizza un’unica tipologia o classe di azioni [102]. Si presume che che il mercato adegui il prezzo target di equilibrio dell’azione nel momento in cui riceve le informazioni sull’operazione e giudica che avrà successo (ovverosia sarà sottoscritta nella sua interezza).

La variabile che sostiene tutte le valutazioni è il valore dell’equity della società dopo l’esecuzione dell’aumento \$E_p\$, che nel modello prima presentato è spiegato come prodotto del multiplo \$PB\$ per il capitale tangibile dopo l’aumento \$TC_p\$. [103]

L’altra variabile fondamentale è l’importo della cassa raccolta con l’offerta, che identifichiamo con \$C\$, alla quale corrisponde un incremento del capitale tangibile, al netto dei costi di emissione \$IC\$ (issuing cost), per cui si raggiunge il nuovo livello \$TC_p = TC_a + C - IC\$. Il mercato adegua la sua stima di \$E_p\$ considerando come la società impiegherà le nuove risorse pari a \$C\$ per sviluppare la sua attività rafforzando la solidità patrimoniale, secondo una lettura ragionata e critica dei business plan presentati agli investitori.

L’operazione si svolge secondo un calendario che prevede in sequenza:

  • la data di annuncio;

  • la data di registrazione presso l’Autorità dei mercati finanziari (la Consob in Italia) dei documenti di offerta obbligatori con relativa pubblicazione;

  • la data di stacco dei diritti d’opzione (qualora previsti), a partire dalla quale il prezzo di Borsa indica il valore dell’azione "ex", ovvero priva del diritto d’opzione;

  • la data di fine trattazione dei diritti d’opzione (qualora previsti);

  • la data di fine sottoscrizione delle azioni di nuova emissione.

RightsOfferCalendar
Figura 15. Il calendario tipico di un aumento di capitale con diritto di opzione

Fonte: Nostra elaborazione.

Al momento dell’annuncio, il valore di mercato osservabile non è \$E_p\$, bensì quello ante-aumento \$E_a\$. Si può tuttavia inferire facilmente \$E_p\$ da \$E_a\$: la differenza tra i due è perfettamente spiegata dall’imminente apporto di cassa \$C\$, per cui:

(8) \$E_p = E_a + C\$

L’equazione \$E_p = E_a + C\$ è una condizione di equilibrio che deve essere verificata affinché i sottoscrittori delle nuove azioni ottengano, se non cambiano i parametri di pricing del mercato, una quota del valore post aumento esattamente uguale al cash apportato, senza perdite o guadagni ingiustificati. Ciò implica che il valore non osservabile \$E_p\$ sia superiore rispetto a quello osservabile \$E_a\$ per una differenza pari al valore speso dai nuovi azionisti. Questa relazione di equilibrio è alla base di tutti i calcoli tecnici delle parità teoriche ripresi in seguito.

Ribadiamo che il nesso causale è \$E_p => E_a\$. Parrebbe più intuitivo l’inverso, ossia accettare che la società abbia un valore corrente \$E_a\$ e che questo si incrementi nella misura di \$C\$, che rappresenta una componente liquida aggiuntiva dell’attivo, valutata alla pari. Questa visione non fa emergere il reale punto di appoggio del valore: \$E_a\$ riflette già un assetto finanziario e di business modificato dall’operazione annunciata o avviata.

Si noti che ai fini della determinazione del valore post aumento si aggiunge a quello iniziale il valore dell’apporto \$C\$ al lordo dei costi di emissione \$IC\$: i secondi sono a carico dell’emittente e vanno ad impattare sul valore post dell'equity, ma non devono andare a scapito dei nuovi sottoscrittori, i quali considereranno equo un prezzo di mercato che assicura l’integrale conservazione del denaro speso per l’aumento di capitale.

La regola \$E_p = E_a + C\$ può essere violata quando i nuovi azionisti pagano un prezzo sussidiato (superiore a quello equo), oppure al contrario quando prezzi di emissione sviliti comportano un esproprio di valore a danno dei vecchi azionisti. Il primo dei due casi è trattato in seguito (v. Ricapitalizzazione senza azzeramento del capitale e con apporto di un sussidio).

Dopo aver definito i fondamentali, si possono calibrare i dettagli tecnici dell’offerta:

  • il numero di vecchie azioni in circolazione \$v\$ è dato dalla composizione del capitale ante-aumento;

  • il numero di nuove azioni da emettere n è definito congiuntamente con il prezzo di emissione delle nuove azioni \$P_i\$ (dove \$i\$ sta per issue) nel rispetto del vincolo di copertura del fabbisogno \$C\$, per cui \$P_i xx n = C => n = C/{P_i}\$.

Come si vedrà, il diritto societario italiano riconosce il diritto di opzione ai vecchi azionisti, salvo deroghe. Quando lo si mantiene, l’operazione è una rights offer. Quando invece il diritto non è di regola previsto dall’ordinamento o viene escluso si parla di cash offer. Trattiamo dapprima il secondo caso, che è tecnicamente più lineare.

Introduciamo preliminarmente le formule dei prezzi di equilibrio che sono valide per entrambe le tipologie di offerta.

Il prezzo di mercato post \$P_p\$ si ottiene dividendo il valore dell'equity post per il numero di azioni post:

(9) \$P_p = {E_p} / {v + n} = {E_p} / {v + {C}/{P_i}} \$

Come si stima invece il prezzo ante aumento \$P_a\$? Analogamente, dividendo l'equity ante per il numero di vecchie azioni, ma per la (8) possiamo sostituire a \$E_a\$ il valore di equilibrio \$E_p -C\$:

(10) \$P_a = {E_a}/v = {E_p - C} / {v}\$

Quello che cambia tra le due modalità di offerta è la composizione di \$C\$:

  • \$C\$ è sempre uguale al prodotto \$C = P_i xx n\$, ma

    • il prezzo di emissione \$P_i\$ è allineato con il prezzo di equilibrio post \$P_p\$ nella cash offer, mentre è di regola inferiore a \$P_p\$ nella rights offer

    • il numero di nuove azioni \$n\$ varia inversamente rispetto a \$P_i\$.

5.2. La cash offer

In caso di cash offer non è riconosciuto ai soci attuali il diritto di opzione, ma le azioni sono offerte alla comunità degli investitori attraverso un consorzio di collocamento. L’offerta può prevedere parti riservate a distinte categorie di investitori (ad esempio al dettaglio e professionali, italiani ed esteri). Questa modalità è quella tradizionalmente utilizzata dalle società quotate caratterizzate da un azionariato diffuso e prive di un nucleo di controllo stabile (modello della public company).

In Italia, il diritto di opzione può essere limitato o escluso quando ciò risponda risponda al superiore interesse della società o sia motivato da altre ragioni di pubblico interesse. Ad esempio:

  • ai sensi dell’art 2441, comma 4 del codice civile nelle società con azioni quotate in mercati regolamentati lo statuto può escludere il diritto di opzione nei limiti del 10 per cento del capitale sociale preesistente, a condizione che il prezzo di emissione corrisponda al valore di mercato delle azioni e ciò sia confermato in apposita relazione da un revisore legale o dalla società incaricata della revisione legale;

  • più genericamente, quando l’interesse della società lo esige (ibidem, comma 5), il diritto di opzione può essere escluso o limitato con la deliberazione di aumento di capitale [104]. Caso tipico, espressamente disciplinato nella previgente normativa, è quello di Offerta Pubblica di Sottoscrizione finalizzata alla formazione del flottante per la quotazione in Borsa;

  • come caso specifico normato dal codice è rimasta l’esclusione del diritto di opzione in caso di offerta delle azioni ai dipendenti (ibidem, comma 7), che richiede una delibera assembleare con la maggioranza richiesta per le assemblee straordinarie.

In caso di cash offer il prezzo subisce l’impatto al momento dell’annuncio dell’operazione sul capitale e non si ha la successiva discontinuità per lo stacco del diritto, che non esiste.

Come anche disposto dalla normativa civilistica, il prezzo di emissione deve essere calibrato in modo da rispecchiare il valore di mercato delle azioni, che corrisponde al prezzo equo post aumento \$P_p\$. Il prezzo ante aumento dovrebbe subito allinearsi con la quotazione post attesa, e lo stesso dovrebbe fare il prezzo di emissione. Al fine di consentire un adattamento di quest’ultimo dopo l’annuncio, l’operazione può essere deliberata con un intervallo di prezzi applicabili in luogo di un prezzo \$P_i\$ prefissato e rigido. L’offerta prevede in tal caso dei meccanismi di price discovery nella fase di raccolta delle manifestazioni di interesse e degli ordini di acquisto (book building), nella forma di aste competitive o altre pratiche di contrattazione e price discovery.

Pertanto, dal punto di vista dei modelli di valutazione, nel caso ideale di cash offer il prezzo di emissione è pari al prezzo post aumento (\$P_i = P_p\$).

Di conseguenza il numero di nuove azioni n risulta così determinato:

\$n = C/{P_i} = C/{P_p} \$,

per cui

\$P_p = {E_p}/{v + n} = {E_p}/{v + C/{P_p}} \$.

Risolvendo per \$P_p\$, otteniamo

\$P_p = {E_p - C}/v\$,

che corrisponde alla (10), formula generale del prezzo ante di equilibrio, per cui nella cash offer i tre prezzi coinvolti dall’operazione sono tra loro allineati:

\$P_i = P_p = P_a\$

Alla stessa considerazione si giunge considerando che, in un mercato efficiente ed equo, il valore dell'equity ante (\$E_a = P_a xx v\$) deve subito allinearsi con la differenza tra valutazione post attesa di equilibrio (\$E_p = P_p xx (n+v)\$) e il cash raccolto (\$C = P_p xx n\$), per cui

\$P_a xx v = P_p xx (n+v) - P_p xx n => P_a xx v + P_p xx n = P_p xx (n+v)\$

che implica che \$P_a\$ si adegui subito al \$P_p\$ atteso, il che è imposto dalla perfetta equivalenza in termini di diritti economici e di controllo tra azioni vecchie e nuove.

Come corollario, si può ricavare il numero di nuove azioni da emettere in funzione di v e della proporzione tra l’apporto cash e la parte restante del valore dell'equity post:

\$n = v xx {C} / {E_p - C}\$

5.3. La rights offer e il diritto di opzione

In caso di rights offer, i portatori delle vecchie azioni hanno un diritto di opzione di tipo call su un numero di azioni di nuova emissione proporzionale a quello delle azioni possedute, ovvero hanno la facoltà (ma non l’obbligo) di sottoscriverle a un prezzo \$P_i\$ definito nell’offerta, diverso dal prezzo corrente di mercato. Il diritto di opzione può essere negoziato in Borsa, per cui il vecchio azionista che rinuncia a sottoscrivere l’aumento può recuperare il valore equo del diritto (così come fissato dal mercato) vendendolo a un altro investitore.

Tale diritto ha un valore quando il prezzo di esercizio della stessa (\$P_i\$) è inferiore al valore corrente post \$P_p\$. Il prezzo ante aumento subisce pertanto una discontinuità alla cosiddetta data di stacco del diritto, prima della quale le azioni sono trattate cum diritto, e a partire dalla quale sono scambiate ex diritto.

Nel caso di rights offer, sostituendo al valore dell'equity e dell’apporto di cassa i rispettivi prodotti del prezzo per il numero di azioni che li definiscono

\$E_p = E_a + C => P_p xx (v+n) = P_a xx v + P_i xx n\$,

otteniamo da entrambe le precedenti formule (9) e (10) le note relazioni di parità fra prezzi ante e post aumento:

(11) \$P_p = {P_a xx v + P_i xx n} / {v + n} \$

(12) \$P_a = {P_p xx (v+n) - P_i xx n} / {v} \$

In equilibrio, un’operazione con \$P_i\$ superiore a \$P_a\$ (prima dello stacco) o a \$P_p\$ (dopo lo stacco) comporta una minusvalenza certa per i nuovi sottoscrittori, ed è destinata ad andare deserta, a meno che il valore dell’azione recuperi nel periodo di offerta. Soltanto un acquirente disposto ad erogare un sussidio all’emittente sottoscriverà a prezzi superiori a quelli correnti di mercato. Come si vedrà in seguito, questo caso si può verificare quando il risanamento di una banca è supportato da attori "di sistema" (v. Caso di ricapitalizzazione con sussidio).

Nel caso normale si ha:

\$P_i < P_p < P_a\$

Si riscontra una differenza positiva tra \$P_a\$ e \$P_p\$, che si traduce in una diminuzione del prezzo al momento dello stacco, a parità di valutazione fondamentale.
Dati \$E_p\$ e \$C\$, la fissazione del prezzo di emissione \$P_i\$, e quindi di \$n\$, è cruciale nel regolare la cosiddetta diluizione del valore azionario.

Il diritto di opzione e il suo valore teorico

Il diritto di opzione tutela gli azionisti esistenti rispetto ai loro diritti:

  • riguardo ai diritti di controllo, grazie alla prelazione su una quota dell’offerta proporzionale a quella detenuta, l’azionista che sottoscrive l’aumento esercitando per intero i diritti d’opzione salvaguarda la sua quota di partecipazione alla società;

  • riguardo ai diritti economici, l’opzione di sottoscrizione a un prezzo inferiore a quello corrente ha un valore; il socio che non sottoscrive subirebbe una perdita per la diluizione del valore dell’azione; tuttavia, la cessione del diritto consente di realizzare un corrispettivo che compensa questa perdita di valore a fronte della cessione dell’opzione ad altri investitori.

La presenza dell’opzione tutela (rispetto a entrambi i diritti) dall’eventualità di underpricing dell’azione che potrebbe essere sfruttata dagli Amministratori della società o dagli azionisti di controllo per espropriare valore e aumentare la quota di partecipazione ai danni degli azionisti di minoranza. Ad esempio, il Consiglio di Amministrazione potrebbe eseguire un aumento di capitale in una fase di mercato depresso, nel quale il titolo risulta sottovalutato e non gode dell’interesse degli investitori. Se non ci fosse il diritto di opzione, un prezzo di emissione fortemente scontato rispetto alle quotazioni di mercato andrebbe a danneggiare ulteriormente gli azionisti di minoranza se questi non disponessero di capitali sufficienti per sottoscrivere l’aumento, o non fossero interessati o informati adeguatamente (a differenza dei nucleo di controllo) per poterne valutare la convenienza.

Definiamo le formule (ben note agli operatori) per ricavare il valore teorico del diritto d’opzione \$D\$ da \$P_a\$ o da \$P_p\$:

\$D = (P_p - P_i) xx n/v\$

\$D = (P_a - P_i) xx n/{v+n}\$

Si possono ricavare come differenza tra \$P_a\$ e \$P_p\$ così come definiti da (11) e (12). La prima può essere riformulata sostituendo \$C/{P_i}\$ a \$n\$:

(13) \$D = {P_p - P_i} / {P_i} xx C/v\$

in cui \$D\$ è letto come il prodotto dell’utile percentuale realizzabile sottoscrivendo a \$P_i\$ e rivendendo a \$P_p\$ per l’importo monetario sottoscritto a fronte di un’azione vecchia, pari a \$C/v\$.

Si tratta di valori di equilibrio che annullano gli utili da arbitraggi tra azione e diritti, come ad esempio:

  • acquisto di \$v\$ azioni ante stacco a \$P_a\$ e vendita post stacco di \$v\$ diritti a \$D\$ e di \$v\$ azioni a \$P_p\$;

  • acquisto di \$v\$ diritti, sottoscrizione di \$n\$ nuove azioni a \$P_i\$ e vendita delle stesse a \$P_p\$.

In tali relazioni si assume che la valutazione fondamentale della società, riflessa in \$E_a\$ o in \$E_p\$, non cambi durante l’effettuazione delle due "gambe" dell’arbitraggio. Le relazioni di non arbitraggio possono essere violate per imperfezioni del mercato, come i costi di transazione e l’illiquidità dei mercati dei diritti e del prestito titoli.

Altri indicatori utili per analizzare una rights offer sono lo sconto sul TERP, il rapporto di conversione del diritto e il fattore di rettifica delle quotazioni.

Lo sconto sul TERP

Lo sconto sul TERP \$sc\$ misura lo scarto percentuale tra il prezzo di emissione e il TERP (Theoretical ex-rights price), corrispondente al nostro \$P_p\$ calcolato prima dello stacco come prezzo teorico partendo da \$P_a\$:

(14) \$sc = {P_p - P_i} / {P_p}\$

Per aumentare sc occorre ridurre \$P_i\$. Nell’opinione comune si ritiene che uno sconto sul TERP più pronunciato possa facilitare la completa sottoscrizione dell’offerta. A ben vedere questo vantaggio percepito non si traduce per i nuovi soci in un minor costo delle nuove azioni che sono sottoscritte, che comunque richiederanno l’acquisto di diritti a prezzi più elevati. Dal canto loro i vecchi soci che decidono di sottoscrivere pagheranno meno per le nuove azioni, ma rinunceranno a vendere i diritti a prezzi più alti. In concreto, un maggiore sconto sul TERP produce un unico vantaggio concreto: fa aumentare la probabilità di successo dell’operazione perché riduce il rischio che nel corso del periodo di opzione le quotazioni scendano sotto \$P_i\$, compromettendone l’esito.

Il mercato sembra apprezzare la riduzione del valore unitario delle azioni che ne deriva, così come avviene col frazionamento delle azioni (stock split) vuoi per un effetto psicologico (le nuove azioni paiono più "a buon mercato"), vuoi perché si coglie un segnale di futuro incremento del monte dividendi a servizio di un più elevato numero di azioni; ciò ha senso quando si presume che l’emittente tenda a distribuire un dividendo per azione stabile in termini monetari, e soprattutto sotto la condizione che la società esprima un potenziale di crescita degli utili per azione che rende sostenibile una distribuzione di dividendi più generosa.

È molto semplice determinare il prezzo di emissione che consente di ottenere un valore desiderato dello sconto sul TERP \$sc_R\$. Dalla (14) otteniamo:

\$sc = 1 - {P_i}/{P_p}\$

Poniamo \$sc = sc_R\$ e risolviamo per \$P_i\$, ottenendo:

\$P_i = (1-sc_R) P_p\$

Meno banale è ricavare direttamente il prezzo \$P_p\$ dato \$sc_R\$ direttamente dalla valutazione dell'equity post aumento e dal cash raccolto. Sfruttiamo la relazione che definisce \$n = C/{P_i}\$ e sostituiamo a \$P_i\$ il valore equivalente ricavato da \$P_p\$ e \$sc_R\$:

\$P_p = {E_p} / {v+n} = {E_p} / {v + C/{P_i}} = {E_p} / {v + C/{P_p (1-sc_R)}}\$

Risolvendo per \$P_p\$ otteniamo

(15) \$P_p = {E_p - C/(1-sc_R)} / v\$

Possiamo ricavare anche \$P_i\$ direttamente dagli stessi dati di input

\$P_i = P_p (1 - scR) = {E_p (1-sc_R) - C} / v\$

In caso di aumento di capitale gratuito (con \$P_i=0\$) lo sconto sul TERP è del 100%, pertanto \$sc_R = 1\$ e \$C=0\$. Otteniamo dalla formula precedente, correttamente, un \$P_i\$ di equilibrio nullo.

Ponendo \$sc_R = 0\$ otteniamo il prezzo di emissione che non diluisce il valore unitario dell'equity:

\$P_i = {E_p - C} / v = P_p = P_a\$,

che correttamente corrisponde ai prezzi di equilibrio ante e post di una cash offer.

Ricaviamo un’altra formula utile per il numero di nuove azioni \$n\$ che consente di ottenere lo sconto sul TERP desiderato:

\$n = C / {P_i} = C / {{E_p (1-sc_R) - C} / v} = v xx C/{E_p (1-sc_R) - C} \$

Per azzerare la diluizione e il valore del diritto occorre emettere le nuove azioni al prezzo corrente ante-aumento, che risulta uguale (come visto prima) anche al prezzo post-aumento \$P_p\$. In tal caso \$n\$ deve essere calibrato al valore che si ottiene ponendo \$sc_R = 0\$ nella formula precedente:

(16) \$n = C / {P_a} = C / {P_p}\$

Il rapporto di conversione dei diritto (\$RCD\$) e il fattore di rettifica delle quotazioni (\$Fr\$)

Il rapporto di conversione in azioni del diritto (\$RCD\$) indica il numero di azioni post acquistabili con la vendita di un diritto. Misura la diluizione relativa prodotta dall’aumento:

\$RCD = D / {P_p}\$

Dividendo per \$P_p\$ la (13), otteniamo:

\$RCD = {C/{P_i} - C/{P_p}} / v = {n - C/{P_p}} / v \$

Nella formula, la diluizione misurata da \$RCD\$ è ricondotta alla differenza, rapportata al numero di vecchie azioni, tra il numero di azioni emesse e il numero teorico che si sarebbe dovuto emettere per non avere diluizione secondo la (16).

Possiamo utilizzare \$RCD\$ per calcolare il valore che rimane al vecchio socio che detenga un’azione ante, sulla quale stacchi e ceda il diritto per acquistare una frazione di azioni post pari a \$RCD\$. Se la valutazione fondamentale \$E_p\$ non cambia e la cessione di diritti e l’acquisto di azioni post avvengono a prezzi di equilibrio, l’operatore conserva esattamente il valore dell’azione ante. Infatti alla fine detiene \$1 + RCD\$ azioni post, il cui valore eguaglia \$P_a\$:

\$(1 + RCD) P_p = (1 + {n - C/{P_p}} / v) P_p = {(v+n) P_p - C} / v = {E_p - C} / v = P_a\$

A \$RCD\$ possiamo collegare i fattori di rettifica (\$Fr\$) delle quotazioni azionarie usati per rendere comparabili i prezzi ante e post, così ottenuti:

\$Fr = 1/{1 + RCD} = {P_p}/{P_a}\$

La prassi di mercato prevede che \$Fr\$ sia calcolato in base alla formula (11) del valore teorico di \$P_p\$ in base all’ultimo \$P_a\$ rilevato sul mercato, che corrisponde al prezzo di chiusura del giorno di Borsa precedente la data di stacco, come si mostra nell’esempio seguente. Si utilizzano i procedimenti approvati dall’AIAF [105], descritti in Pompilio, Ghillino, Piccinini, & Rotelli (2002).

In una normale rights offer, \$Fr\$ è inferiore a 1. Pertanto, il prezzo ante rettificato \$PF_a\$, per essere comparabile con \$P_p\$, deve essere ridotto e a tale scopo lo si moltiplica per \$Fr\$:

\$PF_a = P_a xx Fr\$

Inversamente, il prezzo post rettificato \$PF_p\$, per essere confrontabile con \$P_a\$, deve essere aumentato, per cui lo si ottiene dividendo \$P_p\$ per \$Fr\$:

\$PF_p = {P_p} / {Fr}\$

5.4. Esempio: l’operazione sul capitale del gruppo Unicredit del febbraio 2017

Per esemplificare la valutazione di una rights offer prendiamo l’aumento di capitale da 13 miliardi di euro effettuato dal gruppo Unicredit nel febbraio 2017. Qui ci si limita agli aspetti tecnici dell’operazione. Si rinvia per un’analisi approfondita dell’impatto sulla valutazione dell'equity all'esempio successivo sullo stesso aumento di capitale.

L’operazione prevedeva l’offerta di 5 nuove azioni ordinarie ogni 13 vecchie azioni, ordinarie o di risparmio, possedute a un prezzo di emissione di 8,09 euro per azione. Riepiloghiamo nella Tabella 8 le informazioni da utilizzare per valutare le condizioni dell’offerta e per verificare i risultati.

Per rendere gli esempi più aderenti alle formule teoriche, si è utilizzato come numero delle nuove azioni emesse il prodotto del numero di vecchie azioni per il rapporto di opzione (\$n/v=13/5\$). I valori così ottenuti differiscono in misura non rilevante da quelli pubblicati dall’emittente, che tengono conto di limitazioni del diritto di opzione in casi particolari che non meritano di essere qui approfonditi, dato il loro impatto trascurabile sui risultati.

Nonostante siano presenti due classi di azioni, il valore del diritto di opzione è unico, in quanto su entrambe le classi vengono offerte azioni ordinarie.
DatiAumentoUC
Tabella 8. Dati relativi all’aumento di capitale Unicredit del febbraio 2017

Fonte: Nostra elaborazione su dati dal Documento di registrazione pubblicato dall’emittente e quotazioni di borsa, raccolte da Reuters-Eikon e Il Sole 24 ore.

Calcolo del prezzo ex e del valore teorico del diritto d’opzione

Come si evince dai dati riportati nella Tabella 8, è valida la condizione per cui:

\$P_{i,od} = 8,09 < P_{p,od} = 13,11 < P_{a,od} = 26,16\$

Ciò implica una diminuzione del prezzo al momento dello stacco.

Ricaviamo il prezzo ex teorico dell’ordinaria \$P_{p,od}\$ (il TERP) utilizzando i dati unitari e il rapporto di opzione:

\${P_{a,od} xx v + P_{i,od} xx n}/{v + n}\$ = \${26,16 xx 5 + 8,09 xx 13}/{5 + 13} = 13,1094\$

Da \$P_{p,od}\$ e \$P_{i,od}\$ è possibile calcolare \$D_{od}\$, che rappresenta il valore teorico del diritto di opzione:

\$D_{od} = (P_{p,od} - P_{i,od}) n/v = (13,1094 - 8,09) xx 13/5 = 13,0506\$

Oppure, utilizzando \$P_{a,od}\$

\$D_{od} = (P_{a,od} - P_{i,od}) n/{v+n} = (13,1094 - 8,09) xx 13/18 = 13,0506\$

Da \$P_{p,od}\$ possiamo riottenere \$P_{a,od}\$ con la formula inversa:

\$P_{a,od} = {P_{p,od} xx (v+n) - P_{i,od} xx n}/v = {13,1094 xx (5+13) - 8,09 xx 13}/5 = 26,16\$

Calcolo dello sconto sul TERP

Calcoliamo lo sconto sul TERP (\$sc\$):

\$sc = {P_{p,od} - P_{i,od}}/{P_{p,od}} = {13,1094 - 8,09}/{13,1094} = 0,3829\$

Con il dato così ottenuto possiamo utilizzare la formula equivalente (15) che calcola \$P_{p,od}\$ utilizzando il valore dell'equity post (limitatamente alle azioni ordinarie), il cash raccolto e lo sconto sul TERP, considerando il valore prima ottenuto di quest’ultimo come un dato target:

\$P_p = {E_p - C/(1-sc_R)} / v\$

Avremo, dai dati della Tabella 8:

\$E_{p,od} = E_a + C = P_{a,od} xx v_{od} + P_{i,od} xx n_{od,od}\$

\$= 16.161.172.332,72 + 12.994.422.737,16 = 29.155.595.069,88\$

\$P_{p,od} = {E_{p,od} - C/(1-sc_R)} / {v_{od}}\$

\$= {29.155.595.069,88 - {12.994.422.737,16}/{1-0,3829}}/{617.781.817} = 13,1094\$

Possiamo verificare che applicando a tale prezzo lo sconto sul TERP otteniamo il prezzo di emissione:

\$P_{i,od} = P_{p,od} xx (1 - sc_R) = 13,1094 xx (1 - 0,3829) = 8,09\$

Calcolo dei fattori di rettifica AIAF

Il rapporto di conversione in azioni del diritto \$RCD\$ indica il numero di azioni post acquistabili con la vendita di un diritto. Misura la diluizione relativa prodotta dall’aumento e si calcola così [106]:

\$RCD_{od} = {D_{od}}/{P_{p,od}} = {13,05055556}/{13,10944444} = 0,99550790\$

Da \$RCD_{od}\$ otteniamo il fattore di rettifica AIAF \$Fr_{od}\$ delle quotazioni azionarie relativo alle azioni ordinarie, usato per confrontare i prezzi ante e post-stacco:

\$Fr_{od} =1/{1 + RCD_{od}} = 1 + 0,9955079 = 0,50112555 = {P_{p,od}} / {P_{a,od}} \$

Tale valore corrisponde esattamente a quello rilevato dagli organi di mercato e pubblicato sul Sole 24 ore:

UCdiritti
Tabella 9. Quotazioni e parità teoriche dei diritti di opzione Unicredit in data 6 febbraio 2017

Fonte: Il Sole 24 ore del 7 febbraio 2017, p.38.

Con \$Fr_{od}\$, determiniamo il prezzo ante \$PF_{a,od}\$ espresso in formato confrontabile con i prezzi post.
Partendo dalla chiusura del giorno precedente la data di stacco otteniamo:

\$PF_{a,od} = P_{a,od} xx Fr_{od} = 26,16 xx 0,50112555 = 13,11\$

Ovviamente, riotteniamo il prezzo post teorico dal quale abbiamo prima derivato \$Fr_{od}\$. A fini pratici, la rettifica serve per rendere comparabili due prezzi rilevati prima e dopo la data di stacco. Ad esempio, per apprezzare se la valutazione dell’azione Unicredit è migliorata tra il 28 novembre 2016, quando quotava 18,81 euro [107] e il 24 marzo 2017, quando ha chiuso a 14,39 euro, dobbiamo rettificare il primo prezzo moltiplicandolo per \$Fr_{od}\$,

\$PF_{a,od} = 18,81 xx 0,50112555 = 9,4262 < 14,39 ->\$ la valutazione è migliorata

oppure il secondo, dividendolo per \$Fr_{od}\$

\$PF_{p,od} = {14,39} / {0,50112555} = 28,7154 > 18,81 ->\$ la valutazione è migliorata

\$RCD_{od}\$ può essere usato per calcolare il valore che rimane al vecchio socio che detenga un’azione ante, sulla quale stacchi e ceda il diritto per acquistare una frazione \$RCD_{od}\$ di azioni post.

Se la valutazione fondamentale \$E_p\$ non cambia e la cessione dei diritti e l’acquisto di azioni post avvengono a prezzi di equilibrio, allora l’operatore conserva esattamente il valore dell’azione ante. Nel caso in esame:

\$(1 + RCD) xx P_p = (1 + 0,9955079) xx 13,11 = 26,16 = P_a\$

La valutazione delle azioni di risparmio

Consideriamo le azioni di risparmio separatamente: i prezzi ante delle stesse sono diversi da quelli delle azioni ordinarie, essendo riconosciuto su tali azioni il diritto a un dividendo minimo e un privilegio (cioè una maggiorazione di dividendo) rispetto a quello delle ordinarie, oltre alla convertibilità in azioni ordinarie in caso di esclusione delle azioni ordinarie e delle azioni di risparmio dalla negoziazione in Borsa [108].

Si è osservata una quotazione cum di chiusura del 3 febbraio (ultima data pre-stacco) \$P_{a,rs} = 50,35\$.

Per contro, il diritto di opzione spettante alle "risparmio" è equivalente a quello delle ordinarie perché è uguale il sottostante dell’opzione (il titolo che il vecchio azionista di risparmio ha il diritto di sottoscrivere è infatti rappresentato da azioni ordinarie di nuova emissione), così come il rapporto di opzione \$n/v\$.

Il valore del diritto di opzione sarà quindi coincidente a quello del diritto incorporato nelle ordinarie, ricavato da \$P_{p,od} = 13,10944444\$, \$P_{i,od} = 8,09\$ e \$n/v = 13/5\$, per cui

\$D_{rs} = D_{od} = (P_{p,od} - P_{i,od}) n/v = (13,10944444 - 8,09) xx 13/5 = 13,05055556\$

Si noti che utilizziamo il prezzo ex teorico delle ordinarie (TERP) non soltanto perché è ricavato da una quotazione molto più rappresentativa, dato che le ordinarie sono molto più "liquide" (attivamente scambiate) delle risparmio: in ogni caso non potremmo ricavare il prezzo ex dalla quotazione delle risparmio, che sono un titolo diverso da quello offerto in sottoscrizione.

Per ricavare il prezzo ex delle risparmio, sottraiamo semplicemente il valore del diritto dalla quotazione cum [109]:

\$P_{p,rs} = 50,35 - 13,05055556 = 37,29944444\$

Determiniamo il fattore di rettifica per le azioni di risparmio:

\$Fr_{rs} = {P_{p,rs}} / {P_{a,rs}} = {37,29944444}/{50,35} = 0,74080327\$

\$Fr_{rs}\$ coincide con il valore ufficiale riportato nella Tabella 9 e si può usare per rendere confrontabili le quotazioni delle azioni di risparmio prima e dopo lo stacco del diritto, analogamente a quanto mostrato per le ordinarie.

I numeri esatti dell’operazione conclusa sul mercato

L’aumento di capitale ha avuto pieno successo: durante il periodo di sottoscrizione sono stati esercitati n. 616.559.900 diritti di opzione e quindi sono state sottoscritte complessivamente n. 1.603.055.740 Nuove Azioni, pari al 99,8% del totale delle Nuove Azioni offerte, per un controvalore complessivo pari a Euro 12.968.720.936,60.

Al termine del Periodo di Opzione i diritti inoptati sono stati offerti in Borsa, integralmente venduti e quindi esercitati. Pertanto, l’aumento di capitale in opzione risulta integralmente sottoscritto per un controvalore complessivo (inclusivo di sovrapprezzo) pari a Euro 12.999.633.449,53.

Il valore reale è inferiore rispetto a quello rappresentato nel nostro esempio per circa 100 mila euro (importo irrilevante su un totale di 13 miliardi). Come ricordato all’inizio, si è qui preferito utilizzare un numero di nuove azioni pari al prodotto del numero delle vecchie azioni in essere per il rapporto di opzione, senza tenere conto dei casi di limitazione del diritto di opzione dovuti a circostanze particolari.

5.5. Riepilogo delle relazioni tra valori in un aumento di capitale

Nella Figura 16 si riassume lo schema di influenze tra le condizioni di partenza, le caratteristiche di un’operazione sul capitale e i prezzi delle azioni e dei diritti in una cash offer. Nella Figura 17 si presenta uno schema analogo per una rights offer. Per rendere il procedimento di calcolo unidirezionale, si ipotizza di fissare una valore obiettivo dello sconto sul TERP \$sc_R\$ dal quale si ottengono il prezzo post \$P_p\$ con la (15) e da lì il prezzo di emissione \$P_i\$ e il numero di nuove azioni \$n\$.

In entrambi i diagrammi si assume che l’aumento abbia successo, in quanto consente di ottenere un valore post \$E_p\$ superiore al denaro fresco raccolto \$C\$.
CashOfferValues
Figura 16. Le determinanti del valore delle azioni in una cash offer

Fonte: Nostra elaborazione.

RightsOfferValues
Figura 17. Le determinanti del valore delle azioni in una rights offer

Fonte: Nostra elaborazione.

6. Applicazioni del modello del Price/Tangible Book Value Per Share

6.1. Impatto dei crediti deteriorati in eccesso

Nell’ambito del modello di valutazione ottenuto, ci concentriamo sulla valutazione di banche con una massa rilevante di non core NPL, alle quali intendiamo applicare una versione ridotta dell’approccio sopra illustrato (v. Impatto del deficit/eccesso di capitale sul valore delle azioni).

Riprendiamo i principi di valutazione dei non-core NPL introdotti in precedenza (v. Impatto del deficit/eccesso di capitale sul valore delle azioni).

Consideriamo una banca con una dotazione di capitale tangibile \$TC_a\$, uno stock di crediti deteriorati non-core con valore lordo \$XNPL\$, coperti da rettifiche di valore, o loan loss reserve, \$RES\$ che portano a rilevare un coverage ratio \$cov = {RES}/{XNPL}\$. Il valore di realizzo di \$XNPL\$ sconta una perdita attualizzata \$LOSS\$ superiore allo stock di rettifiche \$RES\$. Definiamo:

  • il loss rate \$lr={LOSS}/{XNPL}\$,

  • le perdite latenti in eccesso rispetto alle rettifiche \$XLOSS = LOSS - RES = (lr - cov) XNPL\$

Si ipotizza che non ci siano altre rettifiche di valore di attività o passività.

Supponiamo che la banca necessiti, dopo la cessione degli NPL non-core, di un capitale richiesto \$K\$ per sostenere la gestione core.

Sia dato un multiplo \$PB_e\$ giudicato di equilibrio per la banca, nell’ipotesi di cessione degli NPL in eccesso e contestuale ripristino del capitale al livello \$K\$, senza però modificarne l’assetto strategico e operativo.

Se quindi ipotizziamo che gli NPL non-core siano ceduti a un valore di realizzo \$XNPL - XLOSS\$, il capitale tangibile diminuisce delle perdite così emerse, e il valore delle sue azioni è ottenibile come somma di due componenti:

  • il valore del capitale allocato alla gestione core, ottenuto applicando un multiplo \$PB_e\$ al capitale richiesto \$K\$;

  • il fabbisogno di capitale \$KGAP\$, pari alla differenza tra capitale richiesto dalla gestione core e il capitale tangibile rettificato, pari a sua volta alla differenza tra il capitale tangibile corrente \$TC\$ e le perdite \$XLOSS\$ realizzate con la cessione di NPL; tale \$KGAP\$ si presume coperto immediatamente con un aumento di capitale di uguale importo, al netto dei costi di emissione (\$C - IC = KGAP\$).

Per semplificare le formule, non consideriamo i costi di emissione \$IC\$ tra le determinanti del \$KGAP\$. Li reintrodurremo nei casi trattati in seguito e nell'esempio conclusivo.
Inoltre, ipotizziamo che la cessione degli NPL non modifichi il capitale richiesto, per cui \$varK=0\$ e \$K_M = K\$.

Pertanto, il valore di mercato dell'equity ante ricapitalizzazione, \$E_a\$, è così determinato:

\$E_a = PB_e K - KGAP = PB_e K - [K - (TC_a - XLOSS)\$ ] Riesponendo secondo la (7), e sostituendo a \$XLOSS\$ l’espressione riferita a \$XNPL\$ e ai coverage ratio otteniamo:

(17) \$ E_a = TC_a - XLOSS - (1- PB_e) K = TC_a - (lr - cov) XNPL - (1- PB_e) K\$

I crediti deteriorati che restano in carico alla gestione core impatteranno sulla sua redditività futura e quindi sul multiplo \$PB_e\$ applicato. Come già osservato, il valutatore può includere negli NPL non-core una quota maggiore di quella dichiarata dalla banca.

6.2. Ricapitalizzazione con equity ante aumento positivo

Se \$E_a\$ è positivo, ci sono le condizioni per ricapitalizzare la banca con un’operazione di mercato (Duffie, 2010, p. 118). Rinviamo al punto successivo il caso di \$E_a\$ negativo, nel quale si devono ipotizzare interventi di sostegno non di mercato, finalizzati al risanamento, oppure si può configurare una situazione di dissesto conclamato o probabile da affrontare con procedure di gestione delle crisi, fino allo scenario estremo di liquidazione della banca.

Consideriamo quindi il caso di \$E_a\$ positivo, che si verifica quando il valore della banca risanata post aumento \$ E_p = PB_e K\$ è superiore al deficit di capitale \$KGAP\$.

Per la centralità che il multiplo \$PB\$ ricopre nel nostro approccio, costruiamo una formula esplicativa del multiplo \$PB_{o,a}\$ osservato dai dati di bilancio per la banca analizzata ante rafforzamento patrimoniale

Ipotizziamo che la banca sia quotata in Borsa. Rileviamo il valore della sua capitalizzazione di Borsa corrente \$E_a\$. Dividendo \$E_a\$ per il capitale ante aumento \$TC_a\$ e riordinando la formula (17), otteniamo il valore di equilibrio di \$PB_{o,a}\$:

\$ PB_{o,a} = {E_a}/{TC_a} = 1 - (lr - cov) {XNPL}/{TC_a} - (1-PB_e) {K}/{TC_a} \$

La presenza di NPL in eccesso altera la valutazione della banca per due vie diverse:

  • il valore osservato di \$PB\$ è decurtato rispetto a quello di equilibrio della parte core bank per l’incidenza delle perdite latenti sul capitale \$(lr - cov) {XNPL}/{TC_a}\$;

  • la presenza del gap patrimoniale ha un impatto più complesso che è modulato da due fattori, il primo è la differenza tra 1 e il multiplo di equilibrio \$PB_e\$, il secondo è il rapporto tra il fabbisogno di di capitale della core bank e il capitale tangibile in essere.

Operiamo alcune sostituzioni in modo da collegare il \$PB\$ a due ratio comunemente utilizzati dagli analisti finanziari. Nello specifico:

  • utilizziamo i solvency ratio per misurare l’adeguatezza del capitale tangibile rispetto al livello target \$K\$; definiamo il required solvency ratio (\$sr_R = K/{RWA}\$) e l'actual solvency ratio (\$sr_A = {TC}/{RWA}\$);

  • utilizziamo il Texas ratio [110] "netto" dato dal rapporto tra importo dei NPL netti di rettifiche e il capitale tangibile per esprimere l’incidenza delle rettifiche sugli NPL [111]; definiamo il required Texas Ratio (\$tr_R\$) pari a \${(1-lr) XNPL}/{TC_a}\$ e l'actual Texas Ratio (\$tr_A\$) pari a \${(1-cov) XNPL}/{TC_a}\$; il primo sarà inferiore rispetto al secondo quando le rettifiche iscritte a bilancio sono inferiori a quelle stimate congrue.

Con questa formula esplicativa del \$PB_{o,a}\$, ipotizziamo che la differenza tra il Texas ratio attuale e quello obiettivo sia tutta da imputare a perdite latenti su NPL. Nel caso in cui non sia così (ad esempio, quando si ritenga necessario ridurre l’incidenza degli NPL netti non-core per liberare capitale o per riportarne a livelli fisiologici il peso sulle attività), si deve utilizzare la formula più generale che evidenzia \$XLOSS\$.

Il rapporto \$K/{TC}\$ può essere sostituito da \${sr_R}/{sr_A}\$, mentre \$(lr - cov) {XNPL}/{TC_a})\$ equivale a \$tr_R - tr_A\$.
Si ottiene così:

\$ PB_{o,a} = 1 - (tr_A - tr_R) - (1-PB_e) {sr_R}/{sr_A} \$

Si evidenzia in tal modo come lo sconto rispetto all’unità del \$PB_{o,a}\$ osservato, dato il livello di equilibrio \$PB_e\$, sia spiegato:

  • dalla necessità di innalzare l’inadeguato solvency ratio corrente da \$sr_A\$ fino a \$sr_R\$,

  • dalla necessità di abbassare l’eccessivo Texas ratio corrente da \$tr_A\$ al livello congruo \$tr_R\$. Entrambi gli aggiustamenti devono essere coperti da iniezioni di capitale che consentano congiuntamente di coprire le perdite emergenti e di ripristinare il capitale tangibile residuo al livello desiderato \$K\$.

Nel caso considerato, ipotizziamo che il fabbisogno di capitale pre-aumento \$KGAP_a\$ sia coperto con un aumento di capitale a pagamento, e che dopo l’aumento le perdite latenti siano fatte emergere e portate a riduzione del capitale. Pertanto, il capitale tangibile post-aumento \$TC_p\$ è così spiegato:

\$TC_p = TC_a + KGAP_a - XLOSS = TC_a + [K - (TC_a - XLOSS)] - XLOSS = K\$

Il gap di capitale post aumento \$KGAP_p\$ è perfettamente azzerato non essendoci \$XLOSS\$ residue da coprire e avendo allineato \$TC_p = K\$.

Ricaviamo il multiplo osservato post-rafforzamento patrimoniale, \$ PB_{o,p}\$. Essendo:

\$ E_p = PB_e xx TC_p + KGAP_p = PB_e xx K + 0\$ ,

avremo, dividendo per \$TC_p = K\$:

\$ PB_{o,p} = PB_e \$

Come desiderato, se il mercato giudica la ricapitalizzazione di importo adeguato e prevede che avrà successo pieno, il multiplo si riallinea con il livello di equilibrio per la banca risanata.

Il caso ideale appena descritto ipotizza che l’emittente rilasci informazioni complete e credibili sui propri fabbisogni di capitale (perdite latenti e adeguamento del solvency ratio), sul piano di rafforzamento patrimoniale e sul modello di business che intende attuare. Gli investitori prestano fede ai programmi dell’emittente, stimano il livello di \$PB_e\$ appropriato per la banca risanata e impostano le valutazione sullo scenario di successo del piano.

Non sempre il mercato si fida ex ante del quadro di diagnosi e cura divulgato dalla banca: ad esempio, gli investitori possono stimare \$XLOSS\$ superiori a quelle dichiarate ai fini del piano di ricapitalizzazione, oppure paventare un aumento del target solvency ratio deciso dalle Autorità, o un cedimento inatteso dell'actual solvency ratio causato da un aumento degli \$RWA\$. Nel nostro modello, questo comporta un \$PB_e\$ post-aumento che rimane depresso dai divari tra i valori desiderati ed effettivi dei solvency e dei Texas ratio.

Gli investitori potrebbero anche dare credito ex ante al piano della banca, e partecipare alla ricapitalizzazione nei termini configurati per poi ricredersi ex post. In questo caso, la valutazione della banca migliora nel momento in cui l’aumento viene eseguito, ma poco dopo ci si rende conto che rimane un \$KGAP\$ da coprire. Si torna quindi in uno scenario di valutazione "non stazionario" simile a quello iniziale, con l’aggravante dell’incertezza che deprime ulteriormente le valutazioni sia con un maggior \$KGAP\$, sia con più bassi \$PB_e\$, sia con l’acuita percezione di un rischio di dissesto, alla quale si associano gli impatti considerati dopo (v. Ricapitalizzazione con equity ante aumento negativo (rinvio)).

Anche quando è conclusa con successo, una ricapitalizzazione focalizzata sulla pulizia del portafoglio NPL non migliora la redditività attesa dei core asset e pertanto può lasciare multipli di valutazione molto inferiori all’unità. Per agire sul livello di \$PB_e\$ post-aumento occorre un profondo intervento di riorganizzazione che produce impatti più articolati sul capitale tangibile e sulla sua valutazione di mercato. Riprenderemo queste considerazioni più avanti (v. La riorganizzazione attesa del modello di business).

L’effetto di diluizione dei vecchi azionisti

Abbiamo ottenuto due formule esplicative del valore della banca prima e dopo il riassetto patrimoniale, dalle quali possiamo ottenere la ripartizione delle quote di partecipazione tra gli azionisti pre-esistenti e i sottoscrittori dell’aumento di capitale nel caso di \$E\$ ante aumento positivo, che non comporta la diluizione totale delle vecchie azioni.

Ipotizziamo che le nuove azioni siano emesse con una cash offer al prezzo di equilibrio ottenuto da \$E_p\$ post aumento, per cui gli investitori entranti, così come i soci esistenti, non subiscono perdite né guadagni rispetto ai valori congrui da applicare. Si può quindi escludere il diritto di opzione a favore dei soci attuali senza che questo comporti danni patrimoniali a loro carico.
Questa ipotesi, che adottiamo per semplificare la trattazione, è comunque realistica nei casi in cui il valore di borsa dell’emittente è fortemente depresso e i soci attuali non dispongono di capitali adeguati ai fabbisogni.
Il modello è facilmente estensibile al caso di rights offer, ipotizzando che il mercato dei diritti sia in equilibrio e che gli azionisti esistenti cedano i diritti e acquistino azioni di nuova emissione per un valore equivalente.

Indicando con \$v\$ e con \$n\$ il numero di azioni, rispettivamente, già esistenti (vecchie) e di nuova emissione, il prezzo di equilibrio post aumento è così determinato:

\$P_p = {E_p} / {v + n}\$

Se il prezzo di emissione \$P_i\$ è pari a quello di equilibrio \$P_p\$, e se l’aumento deve raccogliere un importo al netto dei costi di emissione \$C - IC = K_M - TC_M\$, applicando la (5) si determina il cash da raccogliere comprensivo dei costi di emissione

\$C= KGAP = {K_M - TC_M} / {1-ic} \$

dove \$ic\$ indica l’incidenza dei costi di emissione \$IC\$ su \$C\$.

Una volta fissato \$C=KGAP\$, si dovrà emettere un numero di nuove azioni n così determinato:

\$n = {KGAP}/{P_p} = {KGAP}/{{E_p}/{v + n}}\$

Si ricava così la quota di partecipazione dei nuovi azionisti (\$qn\$) dopo l’aumento, che non è altro che il rapporto tra il cash \$C = KGAP\$ che è loro richiesto e il valore della banca post aumento:

\$qn = n / {v + n} = {KGAP}/{E_p}\$

Dividendo numeratore e denominatore per \$TC_p\$, ricordando che l’abbiamo allineato a \$K\$, otteniamo, essendo \$E_p = PB_e xx K\$ e sostituendo a \$KGAP\$ la definizione secondo la (5) dove \$ic\$ è l’incidenza dei costi di emissione:

\$qn = {1 - {TC_a - XLOSS}/{K}} / {PB_e (1 - ic)}\$

Se il prezzo di offerta delle nuove azioni è fissato al livello di equilibrio, \$qn\$ aumenta con l’incidenza delle perdite latenti su \$K\$, che quindi va tutta a scapito dei vecchi azionisti. Inoltre, \$qn\$ e il correlato effetto di diluizione aumentano quanto minore risulta \$PB_e\$ e quanto maggiore è l’incidenza dei costi di emissione \$ic\$.

A \$qn\$ corrisponde un numero di nuove azioni così definito:

\$n = v xx {KGAP}/{E_p - KGAP}\$

In modo complementare, le vecchie azioni incideranno sul market value per una quota pari al rapporto tra i valori dell'equity ante e post aumento, coerente con la valutazione ex ante del nostro modello:

quota vecchi azionisti: \$ qv = {E_a}/{E_p} = {PB_e K - KGAP}/{PB_e K} = 1 - {KGAP}/{E_p}\$

Una volta noti i termini dell’operazione per un importo \$C = KGAP\$, la capitalizzazione di Borsa ante aumento, sommata al denaro fresco che si aspetta di immettere, deve essere allineata con la valutazione attesa post aumento:

\$E_a + KGAP = E_p\$

Come già evidenziato (v. La cash offer), il prezzo ante aumento \$P_a\$, in assenza di diritto di opzione e assumendo un prezzo di emissione di equilibrio, si adegua al livello \$P_p\$, sulla base dell’equivalenza, di cui ripetiamo la dimostrazione per maggior chiarezza:

\$E_a + KGAP = E_p => P_a v + P_i n = P_p (v + n)\$

essendo \$P_i = P_p\$

\$P_a v + P_p n = P_p (v + n) => P_a = P_p\$

La rappresentazione qui proposta spiega la drastica diluizione del valore delle azioni in sede di aumento di capitale: dal momento che il vincolo è dato dal capitale da raccogliere per colmare il gap, quando questo è preponderante rispetto al valore pre-aumento, la quota di valore imputata alle vecchie azioni risulta abbattuta e, di conseguenza, dato il loro numero, si abbatte il valore unitario che deve essere allineato tra azioni vecchie e nuove.

Se la banca non è quotata in borsa, o è sospesa dalle quotazioni, il valore \$E_a\$ non è osservabile. Si può in tal caso fissare un prezzo di emissione \$P_i\$ superiore al prezzo post di equilibrio \$P_p\$ (non più rilevato sul mercato), e pertanto inclusivo di un sussidio a favore dei vecchi azionisti. Ciò richiede l’intervento di nuovi investitori guidati da fini non strettamente economici. È più complicato dare un’agevolazione del genere quando la banca è quotata: sarebbe infatti palese la concessione di un sussidio in violazione delle regole UE sugli aiuti di Stato.

Nell'esempio sulle popolari venete, si misura l’effetto di diluizione dei vecchi azionisti sui dati di due operazioni reali riguardanti banche non quotate.

Se poi il valore di pertinenza dei vecchi azionisti \$E_p\$ si azzera, o diventa negativo, un aumento di capitale con prezzo delle azioni anche irrisorio determina trasferimento di valore dai suoi sottoscrittori a vantaggio dei vecchi azionisti, nel caso in cui questi non vengano "cancellati". Si dettaglia meglio questo effetto nel punto successivo.

6.3. Ricapitalizzazione con equity ante aumento negativo (rinvio)

Il valore di mercato dell'equity prima del rafforzamento può diventare negativo quando il denaro da raccogliere (\$KGAP\$) supera il valore di mercato del capitale richiesto per dare continuità alla banca (\$PB_e K\$). In tale situazione si blocca la possibilità di un riequilibrio patrimoniale sul mercato, anche tollerando una drastica diluizione dei soci esistenti. In assenza di interventi, la banca sarebbe avviata dalle Autorità di supervisione o risoluzione verso un percorso alternativo di gestione della crisi che coinvolga attori non strettamente "di mercato".

Per sbloccare tale impasse occorre intervenire con piani di risanamento o di risoluzione coi quali si ponga rimedio in via d’urgenza al deficit patrimoniale nelle due componenti di assorbimento delle perdite \$XLOSS\$ e di ripristino del capitale al livello richiesto \$K\$. Ciò deve avvenire con risorse ottenute "fuori mercato", attraverso uno o più dei seguenti canali:

  • nel caso di piani di risanamento si possono attivare

    • aumenti di capitale sottoscritti a titolo volontario da fondi di assicurazione dei depositi, altri schemi mutualistici o investitori privati che agiscono con fini "di sistema" (come il fondo Atlante [112]);

    • aumenti di capitale sottoscritti dallo Stato a titolo di ricapitalizzazione precauzionale e temporanea (ai sensi della BRRD, articolo 32.4, d-iii,); questi possono richiedere un preliminare burden sharing mediante riduzione o conversione di strumenti di capitale AT1 e di debiti subordinati, ma al di fuori di una procedura di risoluzione;

  • avvio di procedure di risoluzione che possono contemplare

    • riduzione o conversione di strumenti di capitale AT1 e di debiti subordinati;

    • bail-in ovvero riduzione o conversione di debiti non subordinati e non garantiti (in primis quelli rientranti nell’aggregato MREL, v. La dotazione di capitale regolamentare disponibile);

    • intervento del Fondo di risoluzione nazionale, di quello europeo, o di altri fondi o meccanismi di stabilizzazione (dopo aver soddisfatto le condizioni di preliminare burden sharing o bail-in);

    • altri interventi di riassetto come il trasferimento di attività e passività sane a good bank, il trasferimento di crediti deteriorati a società veicolo, la cessione di attività, di rami di azienda e di società a terzi.

In via complementare, si può sostenere il valore dell'equity con azioni dal respiro temporale più lungo, così individuate:

  • il miglioramento della gestione dei crediti deteriorati della banca, finalizzato a ridurre la stima di mercato delle \$XLOSS\$ su NPL;

  • la riorganizzazione del modello di business della banca finalizzata al miglioramento della sua redditività e quindi all’innalzamento del multiplo \$PB_e\$.

Il percorso di gestione della crisi è scelto dalla banca e dall’Autorità di risoluzione in funzione di una sorta di protocollo clinico che prevede interventi via via più invasivi all’aggravarsi del dissesto aziendale, come si approfondirà nella seconda parte di questo studio.

In ogni caso, chi immette capitale nella banca per un importo superiore al valore atteso dopo il risanamento subisce una perdita di valore immediata. Esaminiamo alcuni casi esemplificativi.

6.4. Ricapitalizzazione senza azzeramento del capitale e con apporto di un sussidio

Le procedure di crisi possono essere evitate se interviene un soggetto non di mercato che immette capitale nella banca in difficoltà per un importo superiore al valore di mercato atteso dopo il risanamento, ed è perciò disposto ad accollarsi la perdita di valore immediata che questo comporta.

Ipotizziamo che la banca abbia un capitale tangibile sufficiente a coprire le perdite latenti su NPL (\$TC > XLOSS\$). In queste condizioni il valore di bilancio del patrimonio tangibile prima dell’aumento resta positivo, e pertanto non si ha l’insolvenza "contabile" della banca. Il \$KGAP\$ può essere comunque tale da richiedere un intervento di risanamento o di risoluzione, ma ciò può avvenire senza cancellare le azioni esistenti.

Questo non implica che i vecchi azionisti riescano a difendere il valore del loro investimento nella misura del patrimonio tangibile \$TC_M\$ che residua dopo l’assorbimento delle perdite. Infatti, Il valore di mercato ante \$E_a = PB_e xx K - KGAP\$ dipende in via principale dal prodotto \$PB_e xx K\$, mentre dipende da \$TC_M\$ attraverso il suo contributo alla riduzione dell’ammanco di capitale \$KGAP = {K - TC_M}/{1 - ic}\$.

Se, come ipotizzato, il \$KGAP\$ comprensivo del fabbisogno della banca risanata supera il valore di mercato atteso, allora il valore delle vecchie azioni non può che abbattersi a zero. Dal canto loro, anche i sottoscrittori delle nuove azioni vanno incontro a una perdita di valore immediata. Il loro intervento si giustifica per ragioni di interesse pubblico o mutualistico (a livello di sistema o di gruppi di banche o di compagine sociale), che peraltro sottintendono anche importanti ragioni economiche, tra cui principalmente evitare le ripercussioni sistemiche della crisi, nonché partecipare alla ripresa di valore della banca dopo la riorganizzazione. Con l’intervento di soccorso patrimoniale si spera di evitare la perdita irreversibile del valore di lungo periodo della banca, valore che risulta al momento "sommerso" per lo stato di crisi.

Il mercato tende a sottovalutare il valore dell'equity al quale è disposto a intervenire in una banca in crisi \$E_p\$ rispetto al valore economico di lungo periodo che la banca può recuperare. Gli investitori di mercato possono ritenere impraticabile il piano di risanamento prospettato, per cui stanno a guardare in attesa di intervenire in uno stadio successivo, quando la patologia sarà emersa in tutta la sua gravità, e in parte sanata [113]. In questo caso si aggiunge incertezza a motivo del probabile intervento pubblico, che di norma avviene a condizioni che spiazzano i capitali privati, con effetti non anticipabili sugli investitori che hanno partecipato al primo tentativo di salvataggio. Questi timori si rafforzano quando le banche in difficoltà tendono di prassi a rappresentare in maniera parziale il quadro delle perdite latenti e dei fabbisogni di capitale, che si conosce soltanto dopo, per approssimazioni successive. Tale è stata la dinamica delle crisi analizzate nell'esempio sulle popolari venete.

La sottoscrizione di nuove azioni in circostanze come quelle descritte ha quindi una connotazione "politica" e, se valutata in base agli equilibri di mercato del momento, incorpora un sussidio, come accade quando il prezzo di emissione delle nuove azioni supera il prezzo di mercato di quelle in circolazione.

Del sussidio beneficiano i vecchi azionisti che non partecipano all’aumento di capitale.
Quelli che invece aderiscono all’aumento di capitale, partecipano all’erogazione di questo sussidio con i soci nuovi entranti (tipicamente lo Stato o altri investitori "di sistema").

Per evitare la cancellazione delle nuove azioni, il prezzo di offerta non può scendere a zero. Dal punto di vista pratico, o comunicativo, non è nemmeno proponibile un prezzo di valore infinitesimo, che moltiplicherebbe all’infinito il numero di azioni lasciando peraltro quote di valore risibile nelle mani dei vecchi azionisti. Pertanto, come è avvenuto nel caso delle popolari venete, si decide di fissare un prezzo di offerta molto basso, ma comunque significativamente superiore a zero, in modo da non diluire del tutto i vecchi azionisti, e dare così anche a loro la possibilità di partecipare a incrementi di valore futuri in caso di rilancio della banca [114].
Per lo stesso scopo, l’emissione può essere preceduta da un raggruppamento delle azioni esistenti (come quello deliberato per l’operazione Monte dei Paschi nel dicembre 2016 [115]), in modo da poter proporre prezzi di emissione più "presentabili".

Ipotizziamo che la banca raccolga nuovo capitale pari a \$KGAP\$, emettendo nuove azioni in numero pari a \$n\$, a un prezzo di emissione \$P_i\$ e, per semplificare, che all’aumento non partecipi nessun vecchio azionista. Il prezzo di equilibrio post aumento \$P_p\$ e la quota di valore conservata ai vecchi azionisti \$qv\$ dipendono entrambi dal prezzo di emissione \$P_i\$ e dal numero di vecchie azioni \$v\$. La perdita di valore sopportata dai nuovi azionisti è pari a \$KGAP - PB_e K\$, e una parte di essa pari a \$P_p xx v\$ va come sussidio ai vecchi azionisti, che in assenza di interventi avrebbero un \$P_p = 0\$. In formule:

\$n = {KGAP}/{P_i}\$

da cui,

(18) \$qv = v / {v + {KGAP}/{P_i}} = {P_i v} / {P_i v + KGAP} = 1 / {1 + {KGAP}/{P_i v}}\$

Nella formula di \$qv\$ così ottenuta è come se conteggiassimo, ai fini della determinazione delle quote di partecipazione, una sottoscrizione del tutto fittizia di un numero \$v\$ di azioni al prezzo \$P_i\$ da parte dei vecchi azionisti. Costoro ricevono, per ogni vecchia azione posseduta, un sussidio pari al valore dell’azione post-aumento \$P_p\$. Complessivamente, i vecchi soci beneficiano di un trasferimento complessivo di valore così quantificabile:

\$v xx P_p = v xx {PB_e K} / {v + {KGAP}/{P_i} } \$

La quota lasciata ai vecchi azionisti aumenta all’aumentare del prodotto tra \$P_i\$ e v. Il rapporto \${P_i v}/{P_i v + KGAP}\$ misura la diluizione dei nuovi sottoscrittori a fronte della non cancellazione delle azioni vecchie, che avrebbero un valore corrente nullo e ciò nonostante vengono mantenute insieme alle nuove azioni sottoscritte al prezzo \$P_i\$. I vecchi azionisti ricevono una sorta di premio di consolazione per la drastica diluizione prodotta dall’aumento di capitale.

Per regolare questo effetto diluitivo, si utilizza la leva del prezzo di emissione. Ipotizziamo che i nuovi soci decidano di riservare ai vecchi una quota di partecipazione target \$qv_R\$.

Si dovrà quindi porre \$qv = qv_R\$ e risolvere per \$P_i\$ l’ultima formulazione della (18) in cui \$qv\$ è riespresso in forma semplificata:

\$qv_R = 1/{1 + {KGAP}/{P_i v}}\$

per cui

\$P_i = {KGAP}/v {qv_R}/{1 - qv_R}\$

Al \$P_i\$ così calcolato è associato il numero di nuove azioni \$n_R\$ richiesto per ottenere la diluizione desiderata:

\$n_R = {KGAP}/{P_i} = {KGAP}/{{KGAP}/v {qv_R}/{1 - qv_R}} = v xx {1 - qv_R}/{qv_R}\$

Correttamente, il rapporto \$v/{n_R}\$ risulta uguale a quello tra le quote di partecipazione target dei vecchi e dei nuovi azionisti \${qv_R}/{1 - qv_R}\$.

Il caso estremo in cui i vecchi azionisti sono completamente sussidiati è quello in cui essi mantengono una quota del 100% senza che apportino un euro di nuovo capitale. Dall’ultima espressione questo si verifica quando il prezzo di emissione tende a infinito, cioè l’investitore entrante acquisisce una quota di partecipazione tendente a zero:

\$ lim_{P_i->oo} qv = lim_{P_i->oo} 1/{1 + {KGAP}/{P_i v}} = 1 \$

Questo effetto si ottiene quando lo Stato o un altro ente "salvatore" eroga alla banca un contributo a fondo perduto. Si tratta ovviamente di una fattispecie vietata dalla normativa europea e comunque contraria a ogni logica di efficienza degli incentivi e di equità.

Un altro modo per conservare la quota di controllo ai vecchi azionisti è quella di configurare l’apporto pubblico come sottoscrizione di strumenti di capitale senza diritto di voto, come previsto nel programma CPP attivato nell’ambito del TARP (Veronesi & Zingales, 2010). Analoghe previsioni sono state adottate nella ricapitalizzazione del gruppo olandese ING (Olson & Ram, 2008; Bray, 2014). Tali forme di ricapitalizzazione prevedono comunque opzioni di conversione a favore dello Stato in caso di insuccesso del piano di risanamento. Per apprezzarne l’impatto sul valore delle azioni occorrono modelli di valutazione complessi, rinviati (come più volte detto) alla seconda parte di questo studio.

Volendo generalizzare un modello esplicativo del sussidio con prezzo di emissione arbitrario che sia applicabile anche al caso di valore dell'equity pre-aumento positivo, riformuliamo la definizione del prezzo di emissione di equilibrio \$P_{i,eq}\$, attribuendo allo stesso un valore nullo quando l'equity pre-aumento è negativo (\$KGAP > PB_e K\$), per cui:

\$P_{i,eq} = max(0,{PB_e K - KGAP}/v)\$

Il sussidio per azione emessa è la differenza tra il prezzo di emissione fissato in funzione della diluizione target e quello di equilibrio:

\$P_i - P_{i,eq} = {KGAP}/v {qv_R}/{1 - qv_R} - max(0,{PB_e K - KGAP}/v)\$

Quando il valore dell’equity ante-aumento è nullo, \$P_i\$ è interamente sussidio.
Quando il valore dell’equity ante-aumento è positivo, avremo

\$P_i - P_{i,eq} = {KGAP}/v {qv_R}/{1 - qv_R} - {PB_e K - KGAP}/v = 1/v ({KGAP}/{1 - qv_R} - PB_e K)\$

che si azzera quando la diluizione coincide con quella calcolata nel caso di emissione a prezzo di equilibrio

\$qv_R = 1 - {KGAP}/{PB_e K}\$

6.5. Esempio: la ricapitalizzazione delle banche popolari venete di aprile-giugno 2016

Come accennato nell’introduzione, nei mesi di aprile e giugno 2016, sono stati lanciati gli aumenti di capitale della Banca popolare di Vicenza (BPVi) per 1,5 miliardi di euro e di Veneto Banca (VB) per 1 miliardo di euro, entrambi configuati come Initial Public Offering (IPO) per l’accesso alla quotazione in Borsa. Le azioni di nuova emissione sono state pressoché integralmente sottoscritte dal Fondo Atlante [116], un fondo chiuso appositamente costituito su iniziativa dei maggiori gruppi bancari, a un prezzo in entrambi i casi pari a 0,10 euro per azione. In questo esempio ricostruiamo la valutazione delle due banche in occasione dei rispettivi aumenti di capitale. Si adottano due scenari:

  • il primo scenario si basa sui dati forniti nei prospetti informativi pubblicati [117];

  • il secondo scenario fornisce una valutazione rettificata in base ai dati emersi nei bilanci al 31 dicembre 2016, nei quali le due banche hanno riportato massicce perdite che si potevano considerare latenti alla data dell’IPO, e che il mercato avrebbe potuto scontare già in tale occasione.

L’esempio propone una valutazione distinta delle due banche. È attualmente allo studio un progetto di fusione con ricorso alla ricapitalizzazione precauzionale con fondi statali (DL “Salva risparmio” del 23-12-2016 n. 237) che si prevede di riprendere nel paper successivo a questo, dedicato ai casi di risanamento e risoluzione con intervento delle Autorità.

Le due IPO presentano delle differenze:

  • quella di Banca popolare di Vicenza era configurata come Offerta pubblica di sottoscrizione con esclusione del diritto di opzione;

  • quella di Veneto Banca prevedeva l’offerta in opzione agli azionisti e il collocamento istituzionale della parte da questi non sottoscritta;

Sul piano sostanziale, le due operazioni risultavano molto simili poiché, in entrambi i casi:

  • le sottoscrizioni raccolte dai vecchi azionisti, e da quelli nuovi, potevano essere revocate in caso di mancato raggiungimento dell’obiettivo di flottante pari al 25% delle azioni, condizione necessaria per la quotazione in Borsa;

  • le sottoscrizioni effettivamente raccolte sul mercato sono state insufficienti e quelle poche presenti sono state in gran parte revocate; pertanto la parte preponderante dell’emissione è stata sottoscritta dal Fondo Atlante;

Alla luce di ciò, tratteremo entrambe le IPO come cash offer con prezzo determinato nel corso dell’offerta all’interno di un intervallo di prezzi definito nella delibera di emissione.

Il diritto di opzione, laddove riconosciuto, aveva pertanto un valore nullo, essendo il prezzo di offerta determinato come valore congruo post aumento, o come prezzo superiore al valore congruo, e pertanto “sussidiato”.

Nell’esempio calcoliamo l'effetto di diluizione dei vecchi azionisti e la componente di sussidio.

6.5.1. L' IPO Banca popolare di Vicenza

Partiamo dalla valutazione della banca al momento della trasformazione in SpA, deliberata dall’assemblea straordinaria il 5 marzo 2016. In tale occasione, si determina un valore unitario dell’azione ai fini del rimborso ai soci che avrebbero optato per il recesso. Tale prezzo di recesso è stato fissato a 6,30 euro per azione.

A fine 2015 la banca aveva 100.587.829 azioni in circolazione e un patrimonio netto tangibile di 2.022,5 milioni di euro. Dal prospetto informativo risulta che la banca aveva 99.921.769 azioni in circolazione (al netto delle azion proprie riacquistate) ed è a quest’ultimo numero che faremo riferimento.

La cassa da raccogliere con l’aumento era pari a 1,5 miliardi di euro, necessari per portare il CET1 ratio dal 6,65% ad un livello superiore al target assegnato dalla BCE nel comprehensive assessment 2014, pari a 10,25% e precisamente (al netto dei costi di emissione stimati) al 12,7% nella configurazione transitional e al 12,4% in quella fully loaded.

In caso di successo delle adesioni, il consorzio di collocamento aveva un’opzione di incremento del valore dell’offerta (over-allotment) nella misura di 150 milioni di euro [118]. Non essendosi verificate le condizioni per il suo esercizio, tale opzione non sarà considerata nel nostro esempio.

La valutazione “ottimistica” ante aumento al prezzo di recesso

Come rimarcato in questo paper, una banca interessata da un aumento di capitale deve essere valutata in base allo status quo atteso post operazione.

Cerchiamo pertanto di delineare la situazione obiettivo alla quale BPVi tendeva con l’offerta di nuove azioni per 1,5 miliardi di euro, nell’assunto che ciò fosse realizzabile sul mercato e che fosse nel contempo risolutivo delle carenze patrimoniali stimate al momento della conversione in SpA.

Rappresentiamo la situazione patrimoniale ante aumento in base ai dati al 31 dicembre 2015, e desumiamo dai documenti dell’IPO le rettifiche straordinarie e l’incremento netto del patrimonio.

Tabella 10. Effetto dell’IPO sul capitale tangibile di BPVi (valori in milioni di euro)
Capitale netto tangibile al 31 dicembre 2015 (\$TC_a\$) 2.022,4 mn€

+ Aumento di capitale (\$C\$)

+ 1.500 mn€

- Rettifiche per perdite latenti (\$XLOSS\$)

-1.826,9 mn€

= Capitale netto tangibile dopo l’aumento (\$TC_p\$)

1.695,5 mn€

Fonte: Nostra elaborazione su Prospetto informativo IPO BPVi (cit.).

Stimiamo prudenzialmente il beneficio fiscale delle rettifiche ponendolo uguale a zero, per la bassa probabilità di veder riconosciuti i conseguenti deferred tax assets a incremento del CET1.
Per semplificare, non esplicitiamo la presenza dei costi di emissione e il suo impatto sul \$KGAP\$. Ciò ha senso considerando che il collocamento non è avvenuto sul mercato, per cui le commissioni spettanti alle banche del consorzio sono state per la maggior parte ristornate all’investitore (fondo Atlante) che ha assorbito la totalità dell’emissione.

Se l’intervento fosse risolutivo, il valore dell’offerta coprirebbe esattamente il fabbisogno di capitale. Facciamo nostra, per il momento, questa ipotesi per la quale, secondo il nostro modello:

\$KGAP = C = 1.500 mnEUR\$

\$K = TC_p = 1.695,5 mnEUR\$

Per stimare il valore di mercato dell’equity utilizziamo il prezzo determinato ai fini del recesso alla stregua di un prezzo post aumento di equilibrio che si sarebbe dovuto applicare come prezzo di emissione di una cash offer. Ipotizziamo in tal modo che l’uscita dei soci recedenti e l’ingresso dei nuovi sottoscrittori avvenga ad uno stesso parametro di valutazione della banca.

Procediamo con i seguenti passaggi. Sono dati (\$mnEUR\$ indica valori in milioni di euro e \$EURAz\$ indica un valore in euro per azione):

  • \$C = 1.500 mnEUR\$

  • \$P_p = 6,3 EURAz\$

Determiniamo il numero di nuove azioni da emettere (\$mnAz\$ indica milioni di azioni con valore approssimato a 0,1 mnEUR per maggior leggibilità):

\$n = C/{P_p} = {1.500 mnEUR}/{6,3 EURAz} = 238,1 mnAz\$

Ricaviamo il numero di azioni post aumento:

\$v + n = 99,9 mnAz+ 238,1 mnAz = 338 mnAz\$

Ricaviamo \$E_p\$:

\$E_p = P_p xx (v + n) = 6,3 EURAz xx 338 mnAz= 2.129,5 mnEUR\$

Determiniamo \$PB_e\$:

\$PB_e = {E_p}/{TC_p} = {2.129,5 mnEUR}/{1.695,5 mnEUR} = 1,26\$

Per l’ipotesi ottimistica fatta, l’aumento sana il capital gap dopo la completa emersione e copertura delle perdite latenti. Pertanto, in questa visione, il \$PB_e\$ ottenuto rifletterebbe il multiplo di equilibrio \$PB_e\$ del nostro modello.

In realtà il valore \$PB_e\$ ricavato da un prezzo di 6,3 euro per azione è nettamente superiore ai \$PB\$ osservati in Borsa alla data della delibera assembleare (5 marzo 2016) per le banche meglio valutate della borsa (ad esempio, Intesa Sanpaolo presentava un \$PB\$ di poco superiore a 1).

La valutazione durante l’aumento in base all’intervallo di prezzi di offerta e l’effetto di diluizione

Il prospetto informativo relativo all’emissione, depositato presso la Consob il 21 aprile 2016, fissa un intervallo di prezzi di emissione molto ampio, compreso tra 0,1 e 3 euro per azione, con un prezzo massimo che è meno della metà del prezzo di recesso prima considerato.

Mantenendo ancora ferma l’ipotesi che l’IPO sia risolutiva e abbia successo, ricaviamo con lo stesso procedimento di prima i \$PB_e\$ corrispondenti ai prezzi di offerta minimo e massimo nella tabella seguente.

Tabella 11. Valutazioni implicite nella forbice di prezzi di offerta dell’IPO BPVi
Prezzo minimo Prezzo massimo

\$P_i\$

\$0,10 EURAz\$

\$3,00 EURAz\$

\$n\$

\${1.500 mnEUR}/{0,10 EURAz} = 15.000 mnAz\$

\${1.500 mnEUR}/{3,00 EURAz} = 500 mnAz\$

\$v\$

\$99,9 mnAz\$(a)

\$n+v\$

\$15.099,9 mnAz\$

\$599,9 mnAz\$

\$E_p\$

\$0,10EURAz xx 15.099,9 mnAz = 1.510 mnEUR\$

\$3,00EURAz xx 599,9 mnAz = 1.799,7 mnEUR\$

\$PB_e = {E_p}/{TC_p}\$

\${1.510 mnEUR}/{1.695,5 mnEUR} = 0,89\$

\${1.799,7 mnEUR}/{1.695,5 mnEUR} = 1,06\$

(a) Azioni in circolazione al netto dei riacquisti di azioni proprie.
Fonte: Nostra elaborazione su Prospetto informativo IPO BPVi (cit.), p.912.

Si ottiene una forchetta ampia di \$PB_e\$ (da 0,89 a 1,06), a dimostrazione dell’incertezza che regnava sul mercato nell’imminenza dell’offerta. Confrontando i \$PB_e\$ ottenuti con i contestuali livelli delle banche quotate, si desume che il prezzo minimo di 0,10 Eur per azione, implicava ancora una valutazione superiore a quella di diverse banche quotate, seppur meno distante rispetto a quella implicita nel prezzo di recesso ottenuta prima (\$PB_e = 1,26\$).

A posteriori, possiamo affermare che gli investitori scontavano una massa di perdite latenti, non solo su NPL, ma anche per rischi legali, fortemente superiore a quella dichiarata nei documenti dell’IPO.
L’ipotesi ottimistica fatta è quindi del tutto implausibile.

Stimeremo più avanti queste condizioni di maggior sfavore in base alle evidenze portate alla luce nei mesi successivi.

L’effetto di diluizione dei vecchi azionisti

Ci limitiamo per ora a prendere i due prezzi estremi e a calcolare l’effetto di diluizione ad essi associato, senza verificare la congruità di tali prezzi e la correlata presenza di un sussidio. Determiniamo pertanto la quota dei vecchi azionisti post aumento (\$qv\$ nel nostro modello, v. derivazione del modello). Applicheremo dapprima la formula che utilizza i valori monetari di \$KGAP\$ ed \$E_p\$, assumendo un prezzo di emissione \$P_i = P_p\$.

Per \$P_p = 3,00 EURAz\$:

\$qv = 1 - {KGAP}/{E_p}\$

essendo per le ipotesi fatte \$KGAP = C\$

\$qv = 1 - {1.500 mnEUR}/{1.799,7 mnEUR} = 16,653%\$

Per \$P_p = 0,10 EURAz\$:

\$qv = 1 - {1.500 mnEUR}/{1.510 mnEUR} = 0,662%\$

Dal comunicato relativo all’esito dell’operazione, risulta che nel caso di BPVi (a differenza di quanto si vedrà per VB) tutte le sottoscrizioni pervenute dal pubblico e da investitori istituzionali sono state revocate, per cui il \$qv\$ così calcolato per il prezzo applicato di 0,10 EURAz corrisponde alla quota conservata dagli azionisti preesistenti, a fronte di una partecipazione pressoché totalitaria del Fondo Atlante.

Per la precisione, sono state emesse 15 miliardi di nuove azioni a fronte di 99.921.769 vecchie azioni in circolazione. La quota dei vecchi azionisti si è così rideterminata, coerentemente col calcolo fatto sopra:

\$qv = {99.921.769}/{15.099.921.769} = 0,662%\$

Per applicare i corollari del nostro modello, vediamo come il \$P_i\$ applicato sia correlato alla quota dei vecchi azionisti \$qv\$ post aumento.

Come abbiamo verificato, la quota poi mantenuta dopo l’IPO dei vecchi azionisti è stata pari allo 0,662%. Assumiamo che fosse quello il valore target \$qv_R\$ che si è inteso proteggere. Verifichiamo pertanto che il prezzo di emissione \$P_i = 0,10 EURAz\$ applicato nella realtà coincida con quello che si sarebbe dovuto applicare in modo tale da coprire il capital gap e assicurare ai vecchi azionisti una partecipazione dello 0,662%.

Per la condizione:

\$qv_R = {1}/{1 + {KGAP}/{P_i v}}\$

otteniamo:

\$P_i = {KGAP}/v {qv_R}/{1-qv_R}\$

Il \$KGAP\$ da usare qui è quello stimato in sede di IPO. Avremo:

\$P_i ={1.500 mnEUR}/{99,9 mnAz} xx {0,00662}/{1 - 0,00662} = 0,10 EURAz\$

Il prezzo di emissione applicato è riscontrato come corretto dal nostro modello. Come si può notare, la fissazione di \$P_i\$ in funzione dell’obiettivo di \$qv\$ dipende soltanto dal numero di vecchie azioni e dal cash da raccogliere, a prescindere dal valore dell'equity.

Il prezzo di emissione così calcolato deve essere confrontato con il livello congruo per apprezzare la componente di sussidio. Qui abbiamo ipotizzato che il prezzo congruo \$P_p\$ fosse \$0,10 EURAz\$, quindi con sussidio nullo. In forza di ciò riusciamo a spiegare la diluizione di \$qv\$ in funzione di \$KGAP\$.

La valutazione delle perdite ulteriori e il sussidio incorporato nel prezzo di assegnazione

L’IPO BPVi si è conclusa con l’assegnazione integrale delle azioni di nuova emissione al Fondo Atlante al prezzo minimo dell’intervallo di offerta (0,10 €Az).

Nei mesi successivi si sono palesate perdite ulteriori rispetto a quelle dichiarate nei documenti di offerta.

Di conseguenza, le stime del \$KGAP\$, di \$XLOSS\$ e del \$TC_p\$ utilizzate sopra si sono rivelate approssimate per difetto, tant’è che il Fondo Atlante ha dovuto effettuare un versamento in conto futuro aumento di capitale di 310 milioni di euro tra dicembre 2016 e gennaio 2017, peraltro ben lontano dall’essere risolutivo.

Ripetiamo pertanto la valutazione andando a rettificare il \$TC_p\$ assunto alla data dell’IPO. Per semplicità ipotizziamo che il fabbisogno di capitale \$K\$ rimanga invariato rispetto alla stima assunta in precedenza, e inseriamo i valori di \$XLOSS\$ desunti dal conto economico 2016.

Tabella 12. Effetto dell’IPO sul capitale tangibile di BPVi considerando le perdite emerse nel bilancio 2016 (valori in milioni di euro)
\$TC_p = K \$ stima IPO \$1.695,5 mnEUR\$

Rettifiche ulteriori:

nuove rettifiche su NPL 2016

\$1.077,5 mnEUR\$

+ nuovi accantonamenti per rischi legali 2016

\$265,4 mnEUR\$

+ perdite su partecipazioni 2016

\$367 mnEUR\$

\$= XKGAP\$

\$1.709,9mnEUR\$

\$TC_p - XKGAP = TC_{A,p}\$ rettificato

\$-14,4 mnEUR\$

Fonte: Nostra elaborazione su Prospetto informativo IPO e Bilancio 2016 BPVi (cit.).

Per semplicità e prudenza poniamo ancora uguale a zero l’impatto fiscale delle rettifiche.

Secondo quanto prospettato nell’IPO, il \$KGAP\$ si presumeva azzerato con la raccolta di 1,5 miliardi di nuovo capitale. Invece le perdite latenti determinavano un fabbisogno di capitale aggiuntivo, anch’esso latente, che chiamiamo \$XKGAP\$. Nella tabella precedente è quantificato in \$1.709,9 mnEUR\$.

Non consideriamo altre perdite latenti oltre a quelle rilevate nel bilancio 2016, nonostante sia probabile che nel bilancio 2017 ne emergano altre di entità simile [119].

Come avrebbe dovuto impattare il \$KGAP\$ ulteriore nella valutazione dell’equity al momento dell’IPO? Non possiamo dare una risposta univoca, ma soltanto fare delle ipotesi ragionevoli. L'\$XKGAP\$ stimato sopra, se correttamente anticipato al momento dell’IPO, avrebbe richiesto un apporto di capitale maggiorato nella stessa misura rispetto all’importo di 1,5 miliardi di euro.

Supponiamo che per il resto i driver di valutazione della banca (\$K\$ e \$PB_e\$) fossero correttamente riflessi nel prezzo di offerta applicato di \$0,10 EURAz\$. Pertanto \$E_p\$ si sarebbe ridotto nella misura del \$XKGAP\$ “inatteso” qui determinato.

Scontando le extra perdite e mantenendo il \$PB_e\$ corrispondente a quello implicito nel prezzo di offerta minimo dell’IPO, calcoliamo il valore atteso dell'equity:

\$E_p = PBp xx K - XKGAP = 0,891 xx 1.695,5 mnEUR - 1.709,9 mnEUR = -200 mnEUR\$

Come si vede, il valore di equilibrio post aumento è negativo: a causa delle ingenti perdite latenti, pur mantenendo fisso il \$PB_e\$ applicato nell’IPO, il valore dell'equity post aumento diventa negativo.

Dalla Tabella 12 rileviamo che anche il capitale netto tangibile rettificato per le perdite emerse nel 2016 sarebbe risultato negativo.

Ciò vuol dire che l’apporto effettuato di 1,5 miliardi di euro è integralmente rappresentativo di un sussidio.

Scenario ipotetico con valore dell’equity positivo e calcolo del sussidio

Costruiamo ora uno scenario ipotetico a fini di confronto: ipotizziamo un valore di equilibrio più alto di \$PB_e\$ e uguale a 1,06, corrispondente quello calcolato nel caso in cui il prezzo dell’azione fosse stato pari a 3 euro per azione. Il valore dell'equity post aumento sarebbe diventato positivo:

\$E_p = 1,06 xx 1.695,5 mnEUR - 1.709,9 mnEUR = 87,3 mnEUR\$

In tal caso il prezzo di offerta dell’IPO sarebbe stato comunque superiore al valore equo aggiustato per le ulteriori rettifiche a quel momento latenti. Tale valore equo di \$P_p\$ si sarebbe dovuto così calcolare:

\$P_p = {E_p}/{v+n}= {87,3 mnEUR }/{15.099,9 mnAz} = 0,006 EURAz\$

Il prezzo di emissione di equilibrio avrebbe dovuto essere \$0,006 EURAz\$, pertanto \$P_i = 0,10 EURAz\$ avrebbe incorporato un sussidio pari a \$0,10 EURAz - 0,006 EURAz = 0,094 EURAz\$

Come si può notare, la valutazione è fortemente dipendente dal multiplo \$PB_e\$ post aumento. Se applicassimo dei \$PB_e\$ più realistici, vicini a quelli rilevati per banche popolari quotate caratterizzate da alta incidenza degli NPL, emergerebbe in maniera ancora più clamorosa la sopravvalutazione delle azioni collocate con l’IPO.

6.5.2. L’IPO Veneto Banca

Nel caso di Veneto Banca la trasformazione in SpA è stata deliberata dall’assemblea straordinaria in data 19 dicembre 2015 e, nella medesima occasione, è stato determinato un valore unitario dell’azione per l’esercizio del diritto di recesso da parte dei soci pari a 7,30 euro per azione.

A fine 2015 la banca aveva 121.981.131 azioni in circolazione ed un patrimonio netto tangibile di 2.093,1 milioni di euro. Alla data del prospetto informativo la banca aveva 124.486.701 azioni in circolazione (al netto di quelle riacquistate) ed è questo il valore a cui faremo riferimento in seguito.

Il valore della cassa da raccogliere con l’aumento è stato fissato pari ad 1 miliardo di euro.

L’operazione prevedeva l’offerta in opzione agli azionisti esistenti di 81 azioni nuove ogni azione posseduta, e il successivo collocamento istituzionale della parte non optata. In pratica i vecchi soci hanno sottoscritto 223.307.939 azioni (2,23 % del totale), ma di queste solo 115.176.705 sono state poi confermate alla comunicazione dell’esito dell’emissione, mentre la restanti sottoscrizioni sono state revocate.

Ripercorriamo i passaggi della valutazione come nel caso di BPVi.

La valutazione “ottimistica” ante aumento al prezzo di recesso

Anche per VB vogliamo delineare la situazione obiettivo alla quale la banca tendeva con l’aumento di capitale di 1 miliardo di euro. Assumiamo che ciò fosse realizzabile sul mercato e che fosse risolutivo delle carenze patrimoniali stimate al momento della trasformazione.

Rappresentiamo, quindi, la situazione patrimoniale ante aumento facendo riferimento ai dati al 31 dicembre 2015, apportandovi le rettifiche straordinarie desunte dai documenti dell’IPO.

Tabella 13. Effetto dell’IPO sul capitale tangibile di VB (valori in milioni di euro)
Capitale netto tangibile al 31 dicembre 2015 (\$TC_a\$) 2.093,1 mnEUR

+ Aumento di capitale (\$C\$)

+ 1.000 mnEUR

- Rettifiche per perdite latenti (\$XLOSS\$)

-754 mnEUR

= Capitale netto tangibile dopo l’aumento (\$TC_p\$)

2.339,1 mnEUR

Fonte: Nostra elaborazione su Prospetto informativo IPO VB (cit.).

Se giudichiamo l’intervento come risolutivo, il valore dell’offerta copre esattamente il fabbisogno di capitale:

\$KGAP = C = 1.000 mnEUR\$

\$K = TC_p = 2.339,1 mnEUR\$

Stimiamo, quindi, il valore di mercato dell’equity utilizzando il prezzo di recesso come prezzo di equilibrio post, quindi \$P_p = 7,30 EURAz\$.

Il numero di nuove azioni da emettere \$n\$ e il numero post aumento saranno:

\$n = {1.000 mnEUR}/{7,30 EURAz} = 137 mnAz\$

\$v + n = 124,5 mnAz + 137 mnAz = 261,5 mnAz\$

Ricaviamo \$E_p\$ e il multiplo implicito nel prezzo di recesso, indicato da \$PB_e\$:

\$E_p = P_p xx (v + n) = 7,30 EURAz xx 261,5 mnAz = 1.908,8 mnEUR\$

\$PB_e = {E_p}/{TC_p} = {1.908,8 mnEUR}/{2.339,1 mnEUR} = 0,82\$

La valutazione durante l’aumento in base all’intervallo di prezzi di offerta e l’effetto di diluizione

Nel prospetto informativo depositato presso la Consob il 7 giugno 2016 è fissato un intervallo di prezzi di emissione compreso tra 0,10 e 0,50 euro per azione. Anche in questo caso il prezzo massimo è molto inferiore rispetto al prezzo di recesso prima considerato.

Ricaviamo i \$PB_e\$ corrispondenti ai due prezzi estremi di offerta.

Tabella 14. Valutazioni implicite nella forbice di prezzi di offerta dell’IPO VB
Prezzo minimo Prezzo massimo

\$P_i\$

\$0,10 EURAz\$

\$0,50 EURAz\$

\$n\$

\${1.000 mnEUR}/{0,10 EURAz} = 10.000 mnAz\$

\${1.000 mnEUR}/{0,50 EURAz} = 2.000 mnAz\$

\$v\$

\$124,5 mnAz\$(a)

\$n+v\$

\$10.124,5 mnAz\$

\$2.124,5 mnAz\$

\$E_p\$

\$0,10EURAz xx 10.124,5 mnAz = 1.012,4 mnEUR\$

\$0,50EURAz xx 2.124,5 mnAz = 1.062,2 mnEUR\$

\$PB_e = {E_p}/{TC_p}\$

\${1.012,4 mnEUR}/{2.339,1 mnEUR} = 0,43\$

\${1.062,2 mnEUR}/{2.339,1 mnEUR} = 0,45\$

(a) Azioni in circolazione al netto dei riacquisti di azioni proprie.
Fonte: Nostra elaborazione su Prospetto informativo IPO VB (cit.), p.59.

Si nota il drastico abbassamento dei multipli \$PB_e\$ impliciti e il restringimento della forchetta di prezzi d’offerta rispetto all’operazione di BPVi effettuata due mesi prima. Si palesa così il tentativo di adeguarsi a valutazioni più realistiche.

L’effetto di diluizione dei vecchi azionisti

Prendiamo ora la coppia dei prezzi minimo e massimo per calcolare l’effetto di diluizione ad essi associato. Determiniamo, quindi, la quota dei vecchi azionisti \$qv\$ post amento. Seguiamo lo stesso procedimento applicato al caso BPVi.

Per \$P_p = 0,50 EURAz\$:

\$qv = 1 - {KGAP}/{E_p} = {1.000 mnEUR}/{1.062,2 mnEUR} = 5,86 %\$

Per \$P_p = 0,10 EURAz\$:

\$qv = 1 - {1.000 mnEUR}/{1.012,4 mnEUR} = 1,23 %\$

Nel caso di VB la quota mantenuta a fronte delle vecchie azioni al prezzo di offerta minimo, poi applicato, è superiore all'1 %.

In aggiunta a quelle giù detenute, i soci esistenti hanno sottoscritto e confermato l’acquisto di 115.176.705 nuove azioni. Aggiungendole a quelle vecchie, otteniamo la quota di partecipazione complessiva:

\$qv ={124,5 mnAz}/{10.124,5 mnAz} + {115,2 mnAz}/{10.124,5 mnAz} = 1,23% + 1,14% = 2,37%\$

La restante parte delle azioni è stata acquistata dal Fondo Atlante (FA), che detiene una quota di partecipazione post aumento così calcolata:

\$q_{FA} = {10.000 mnAz - 115,2 mnAz}/{10.124,5 mnAz} = 97,63%\$

Il \$P_i\$ applicato è anche in questo caso coerente, secondo il nostro modello, con la quota mantenuta dopo l’IPO a fronte delle vecchie azioni, pari all'1,23 %:

\$P_i = {1.000 mnEUR}/{124,5 mnAz} xx {0,0123}/{1 - 0,0123} = 0,10 EURAz\$

La valutazione delle perdite ulteriori e il sussidio incorporato nel prezzo di assegnazione

Ripetiamo ora la valutazione di VB rettificando il \$TC_p\$ comunicato dalla banca alla data dell’IPO con i valori di \$XLOSS\$ presenti nel conto economico 2016. Ipotizziamo che il fabbisogno di capitale \$K\$ rimanga invariato e, anche in questo caso, calcoliamo un valore nullo dell’impatto fiscale di \$XLOSS\$.

Calcoliamo nella Tabella 15 il fabbisogno di capitale aggiuntivo \$XKGAP\$ rimasto scoperto in sede di IPO. Con tale dato, rivalutiamo l'equity di VB mantenendo il valore del multiplo \$PB_e\$ (0,433) implicito nel prezzo di offerta applicato di 0,10 EURAz:

\$E_p = PB_e xx K - XKGAP = 0,433 xx 2.339,1 mnEUR - 1.721,6 mnEUR = - 709,2 mnEUR\$

Tabella 15. Effetto dell’IPO sul capitale tangibile di VB considerando le perdite emerse nel bilancio 2016 (valori in milioni di euro)
\$TC_p = K \$ stima IPO \$2.339,1 mnEUR\$

Rettifiche ulteriori:

nuove rettifiche su NPL 2016

\$1.288 mnEUR\$

+ nuovi accantonamenti per rischi legali 2016

\$433,6 mnEUR\$

\$= XKGAP\$

\$1.721,6mnEUR\$

\$TC_p - XKGAP = TC_{A,p}\$ rettificato

\$617,5 mnEUR\$

Fonte: Nostra elaborazione su Prospetto informativo IPO e Bilancio 2016 VB (cit.).

Come nel caso di BPVi, il valore di equilibrio post aumento \$E_p\$ risulta negativo, quindi l’apporto effettuato di 1 miliardo di euro è integralmente rappresentativo di un sussidio.

Dalla Tabella 15 rileviamo che, a differenza di BPVi, VB anche dopo le rettifiche per le perdite emerse nel 2016 avrebbe conservato un capitale netto tangibile positivo.

6.6. La riorganizzazione attesa del modello di business

Nel caso di equity iniziale basso o negativo, è probabile (come abbiamo mostrato) che la ricapitalizzazione avvenga a prezzi superiori ai valori equi post risanamento (\$P_i > P_p\$), questi ultimi intesi come valutazioni presunte che il mercato darebbe alla banca risanata, ma non ancora riorganizzata.

Per risollevare il valore di mercato della banca, e rendere così possibile una ricapitalizzazione senza sussidi, occorre comunicare un convincente piano di riorganizzazione del suo modello di business. Il nostro modello può essere esteso per misurare il relativo impatto.

Il riassetto della banca può agire sul valore dell'equity mediante le seguenti leve (il segno del loro effetto su \$E_p\$ è indicato tra parentesi):

  • dismissione di attività o di aree di business, che producono un effetto su \$TC\$ pari alla somma delle plusvalenze (più) e delle minusvalenze (meno) sul realizzo, e effetti su \$K\$ per la riduzione degli \$RWA\$ (più);

  • acquisizione di attività o di aree di business, che produce un effetto su \$K\$ pari all’aumento del correlato fabbisogno di capitale (meno), qualora si ipotizzi di effettuare l’acquisto a prezzo di equilibrio, senza plus/minusvalenze implicite;

  • tagli alla rete distributiva e al personale, che possono generare costi straordinari per perdite da realizzo, indennizzi per prepensionamenti, ecc. (meno);

  • per effetto delle azioni precedenti, gli investitori possono riconoscere un miglioramento della redditività attesa e far salire il multiplo di valutazione \$PB_e\$ riconosciuto alla banca (più).

L’ultimo effetto è quello decisivo, ed è naturalmente condizionato dalla situazione generale di mercato, oltre che dalla buona concezione ed attuazione del nuovo piano industriale.

Un piano di riassetto tipico dovrebbe avere i seguenti effetti:

  • emersione di perdite da realizzo o altri oneri straordinari, che hanno un impatto simile a quello delle perdite latenti su NPL, per cui riducono il capitale tangibile \$TC\$ e aumentano il \$KGAP\$;

  • produzione di utili da realizzo di attività (tipicamente partecipazioni) che incrementano il capitale tangibile \$TC\$ e riducono il \$KGAP\$;

  • riduzione degli \$RWA\$ per gli interventi sul volume e sulla composizione degli attivi, e conseguente riduzione del fabbisogno di capitale \$K\$ e di \$KGAP\$;

  • incremento del valore di mercato dell'equity commisurato all’aumento del \$PB_e\$, tenendo conto degli effetti precedenti sulla redditività attesa del capitale proprio.

Il piano produce un flusso di cassa immediato verso gli azionisti nella misura della variazione del \$KGAP\$:

  • se il "risparmio" di \$K\$ conseguente alla dismissione delle attività supera le correlate perdite al netto degli utili da realizzo il flusso è positivo;

  • se invece le perdite nette da realizzo superano il calo del fabbisogno di capitale, il piano assorbe liquidità che gli azionisti devono immettere.

Sviluppiamo i passaggi della valutazione.

Partiamo dal valore ante della banca con un capitale disponibile \$TC_a\$, capitale richiesto \$K_a\$ e perdite latenti \$XLOSS_a\$

\$ E_a = PB_{e,a} K_a - KGAP_a\$ con \$KGAP_a = K_a - (TC_a - XLOSS_a)\$

La banca riorganizzata ha un fabbisogno di capitale

\$K_p = K_a + varK\$,

con \$varK\$ di solito negativo per effetto della riduzione degli \$RWA\$.

Il capitale tangibile varia nella misura dell’aumento di capitale e delle componenti economiche straordinarie, tra cui l’emersione di ulteriori perdite latenti

\$TC_p = TC_a + C - IC + PLUSMINUS - outXLOSS\$

dove \$C\$ è l’importo dell’aumento di capitale, \$IC\$ i relativi costi di emissione, \$PLUSMINUS\$ sono gli utili o perdite dai realizzi di attività previsti, e \$outXLOSS\$ l’importo delle perdite latenti fatte emergere contabilmente (con effetto negativo su \$TC_p\$).

Si ha una variazione del capitale tangibile \$varTC\$ così determinata

\$varTC = TC_p - TC_a = C - IC + PLUSMINUS - outXLOSS\$

Le perdite latenti sono modificate, oltre che da quelle emerse \$outXLOSS\$, da eventuali nuove perdite rilevate \$newXLOSS\$, per cui la loro variazione \$varXLOSS\$ sarà

\$varXLOSS = XLOSS_p - XLOSS_a = newXLOSS - outXLOSS\$

Il capitale disponibile modificato diventa

\$TC_p - XLOSS_p = (TC_a + varTC) - (XLOSS_a + varXLOSS) \$,

ma possiamo semplificarla elidendo i termini \$outXLOSS\$ presenti in \$varTC\$ e in \$varXLOSS\$, ottenendo

\$TC_p - XLOSS_p = (TC_a + C - IC + PLUSMINUS) - (XLOSS_a + newXLOSS) ) \$

Il gap di capitale post piano risulta così determinato

\$KGAP_p = KGAP_a + varK - C + IC - PLUSMINUS + newXLOSS)\$,

Otteniamo il valore della banca riorganizzata \$E_p\$:

\$ E_p = PB_{e,p} K_p - KGAP_p = PB_{e,p} (K_a + varK) - (KGAP_a + varK - C + IC - PLUSMINUS + newXLOSS)\$

Ricaviamo la variazione del valore dell'equity prodotta dalla riorganizzazione:

\$ E_p - E_a = PB_{e,p} (K_a + varK) - (KGAP_a + varK - C + IC - PLUSMINUS + newXLOSS) - (PB_{e,a} K_a - KGAP_a)\$

Semplificando e indicando la variazione del multiplo \$PB_e\$ con \$varPB_e = PB_{e,p} - PB_{e,a}\$ otteniamo la scomposizione della variazione di valore dell'equity per effetto del piano annunciato con l’aumento di capitale:

(19) \$E_p - E_a = varPB_e K_a - (1 - PB_{e,p}) varK + (C - IC + PLUSMINUS - newXLOSS)\$

Al netto dell’apporto di capitale \$C\$, al lordo delle spese di emissione \$IC\$, il piano crea o distrugge valore azionario nella seguente misura:

(20) \$E_p - E_a - C = varPB_e K_a - (1 - PB_{e,p}) varK - IC + PLUSMINUS - newXLOSS\$

Una riorganizzazione ben architettata impatta sul valore attraverso le seguenti leve:

  • crea valore con

    • la crescita del multiplo di valutazione \$varPB_e > 0\$ che pesa in proporzione del capitale richiesto iniziale \$K_a\$;

    • la diminuzione del capitale richiesto \$varK < 0\$, nella situazione oggi più frequente di \$PB_e < 1\$, poiché una liberazione di capitale (\$varK<0\$) concorre a ridurre il badwill che deprime \$E_p\$ in proporzione allo scarto rispetto a 1 del multiplo post-riassetto;

  • distrugge valore, specularmente, in caso di calo del multiplo di valutazione (in ogni caso) e aumento del capitale richiesto (soltanto se \$PB_e < 1\$);

  • crea o distrugge valore con

    • il saldo tra gli impatti economici straordinari e la ricognizione di nuove perdite latenti \$- IC + PLUSMINUS - newXLOSS\$.

I molti fattori in gioco dischiudono una grande varietà di scenari possibili, favorevoli o sfavorevoli. Se il mercato applica multipli superiori all’unità, come avveniva prima della crisi, gli effetti di \$varK\$ si ribaltano completamente, per cui un piano aggressivo che assorbe capitali crescenti sarà accolto con entusiasmo da un mercato desideroso di partecipare al valore creato rispetto al maggior capitale richiesto.

In ogni caso, l’esito dello scommessa fatta dalla banca è rimesso al giudizio che il mercato darà sulla credibilità dei numeri presentati (le principali grandezze in gioco sono legate a eventi e azioni future) e alla fiducia nella capacità della banca di produrre reddito.

Applichiamo all’esempio che segue l’ultima estensione del modello trattata nella prima parte del nostro studio.

6.7. Esempio: il piano Transform 2019 di Unicredit del dicembre 2016

A completamento dell’analisi svolta nel paper, si propone un esempio riguardante il piano di ricapitalizzazione del gruppo Unicredit annunciato il 13 dicembre 2016 e attuato con un’imponente rights offer da 13 miliardi di euro nel febbraio 2017. Questo caso rappresenta una riorganizzazione del modello di business e dell’assetto delle partecipazioni attuata insieme con l’emersione di perdite latenti, senza passare da una distinta fase di risanamento. Ciò è stato possibile per il positivo riscontro degli investitori di mercato, come si evidenzia qui di seguito.

Il piano Transform 2019

Il 13 dicembre 2016 a Londra, l’Amministratore Delegato di Unicredit, Jean Pierre Mustier, presentava alla comunità finanziaria il piano Transform 2019 [120] articolato in cinque pilastri strategici:

  1. rafforzamento e ottimizzazione del capitale;

  2. miglioramento della qualità dell’attivo;

  3. trasformazione del modello operativo;

  4. massimizzazione del valore delle divisioni “Commercial banking”;

  5. adozione di una direzione di gruppo snella, ma efficace.

Dal punto di vista dei driver economici e patrimoniali, il piano comprendeva due azioni principali:

  1. rispetto al primo dei cinque pilastri strategici sopra elencati, un aumento di capitale mediante rights offer per raccogliere 13 miliardi di euro di mezzi freschi (12,49 al netto dei costi di emissione), da realizzarsi nei primi mesi del 2017;

  2. rispetto al secondo pilastro, la massiccia svalutazione del portafoglio NPL non-core, in vista della successiva cessione a investitori specializzati (operazione denominata FINO, che sta per failure is not an option); questa azione avrebbe prodotto rettifiche di valore su crediti per 8,1 miliardi nel quarto trimestre 2016.

Per generare o liberare capitale aggiuntivo nella misura di 5,5 miliardi di euro, il gruppo avrebbe ceduto le partecipazioni bancarie in Polonia (Pekao) e Ucraina, quella in in Pioneer (asset management) e il 30% della banca Fineco.

Altri interventi di razionalizzazione e pulizia (svalutazioni di altre partecipazioni, economie nella gestione delle carte di credito, altre rettifiche di valore) avrebbero determinato oneri netti per 1,1 miliardi di euro.

Nell’ottica della creazione di valore, gli interventi di cui sopra non sarebbero bastati. Transform 2019 aggiungeva pertanto misure energiche sugli assetti di gruppo e sui modelli operativi, che possiamo riassumere nei punti seguenti:

  • alleggerimento della rete di sportelli e dell’organico, con la chiusura di 944 sportelli e la riduzione del personale di 6.500 unità; questo avrebbe consentito risparmi netti di costi operativi per 1,7 miliardi dal 2019; il piano esuberi avrebbe invece comportato costi non ricorrenti (integration costs) pure per 1,7 miliardi nel quarto trimestre del 2016;

  • sviluppo dei canali digitali con un piano di investimenti in piattaforme informatiche del valore di 1,6 miliardi entro il 2019;

  • snellimento e accentramento della direzione di gruppo (Corporate Center) per ottenere una riduzione delle spese relative dal 5,1% al 2,9% dei costi operativi totali.

Prese nel loro insieme, le misure del piano puntavano ad innalzare la redditività dell’attività core del gruppo (commercial banking), per la quale si prevedeva uno sviluppo prudente dei ricavi (tasso di crescita 0,6% medio annuo nel 2015-2019).

Il rafforzamento patrimoniale ottenuto con gli interventi straordinari iniziali avrebbe coperto il fabbisogno incrementale per la crescita degli RWA nel 2017-2019 (1,5 miliardi di euro) e soprattutto avrebbe innalzato il CET1 ratio sopra il 12,5% nel 2019 (con un impegno di 6,1 miliardi di euro) oltre a portare il leverage ratio al 5,6%.

Dal 2019 in avanti, il gruppo avrebbe mantenuto la posizione patrimoniale così rafforzata grazie al miglioramento del Return on Tangible Equity (RoTE), atteso sopra il 9% nel 2019. Il RoTE più alto avrebbe reso sostenibile un payout ratio compreso tra il 20 % e il 50 %, nel rispetto dei target di capitalizzazione fissati per il 2019.

La Tabella 16 dà una visione d’insieme delle fonti e degli usi di capitale per la realizzazione del piano. Rispetto alle slide della presentazione agli investitori, abbiamo ricostruito nella tabella i valori in miliardi di euro, oltre a integrare la descrizione delle voci per renderle più comprensibili.

SourceUseUC
Tabella 16. Piano di rafforzamento e ottimizzazione del capitale di Unicredit - Transform 2019

Fonte: Nostra elaborazione su presentazione piano Transform 2019 (cit.). I valori in miliardi di euro sono stati desunti moltiplicando le incidenze in bps per il valore degli \$RWA\$ dopo la realizzazione del piano, pari 361,9 miliardi di euro, come riportato nella presentazione del CFO Mirko Bianchi a p.16

È interessante notare come la presentazione di Mustier esprima i valori del capital plan come incidenza in punti base sugli \$RWA\$ (1 punto base = 0,01 %), che corrisponde al loro impatto sul CET1 Ratio: quest’ultimo indicatore rappresenta pertanto il punto focale dell’esercizio di pianificazione.

Dai dati di \$RWA\$ iniziali (al 30 settembre 2016), pari a 390,9 miliardi, riportati nella presentazione del CFO a p.16, abbiamo desunto un valore di CET1 Capital iniziale \$CET1_a\$ calcolato in modo da essere coerente con il CET1 ratio iniziale comunicato nel piano (pari a 10,8%) in questo modo:

\$CET1_a = 390,9 mdEUR xx 10,8% = 42,22 mdEUR\$

Detto valore sarà utilizzato come capitale tangibile iniziale.

Come ha impattato lo svelamento di questo ambizioso piano strategico sulla valutazione di mercato di Unicredit? Proviamo a dare una risposta applicando il nostro modello.

L’esercizio di stima che proponiamo ha uno scopo didattico e non comprende gli approfondimenti e i riscontri che sarebbero richiesti in un report di analisi finanziaria professionale.
Riteniamo tuttavia che fornisca evidenze chiare e istruttive sulle questioni di sostanza che puntiamo a mettere in luce.

L’andamento di Borsa dell’azione Unicredit

Nel corso dei mesi precedenti l’operazione sul capitale, il prezzo delle azioni ordinarie di Unicredit ha evidenziato un’alta volatilità (v. Figura 18).

PrezziBorsaUC
Figura 18. Andamento del prezzo delle azioni ordinarie di Unicredit

Fonte: Nostra elaborazione su quotazioni di Borsa raccolte da Reuters-Eikon.

Nei giorni precedenti la presentazione di Transform 2019, il prezzo si muoveva su livelli depressi e raggiungeva un minimo di 9,43 €Az in data 28 novembre 2016 [121]. Nei giorni seguenti e fino al 13 dicembre, quando si è tenuta la conference di presentazione, il prezzo ha reagito molto positivamente, portandosi a 14,08 €Az. Alla data di annuncio dell’aumento di capitale (13 gennaio 2017) il prezzo si è assestato a 13,38 €Az, per poi scendere alla data di stacco (6 febbraio) a 12,21 €Az.

È poi seguita una ripresa delle quotazioni, che sono salite a 12,46 €Az alla fine del periodo di sottoscrizione (27 febbraio) ed a 14,39 €Az il successivo 24 marzo.

La scomposizione in fasi del piano

Nella Tabella 17 ricostruiamo gli impatti sul capitale richiesto, sul CET1 disponibile e sulla valutazione dell'equity delle diverse componenti dell’operazione sul capitale, in coerenza con il riepilogo fonti/usi della Tabella 16. I procedimenti di calcolo saranno chiariti in seguito.

FlussiCapUC
Tabella 17. Scomposizione in fasi degli impatti sul capitale e sulle valutazioni di Borsa del Piano Transform 2019

Fonte: Nostra elaborazione su quotazioni di Borsa prese da Reuters-Eikon e dati presentazioni Transform 2019. Si rinvia all'illustrazione del modello per la spiegazione delle variabili utilizzate. I numeri tra parentesi indicano valori negativi.

Per applicare il nostro modello esplicativo delle variazioni di \$E\$ abbiamo scomposto il piano Transform 2019 in tre passaggi:

  1. intervento sui non-core NPL con rettifiche per 7,2 md€, sostenute dall’aumento di capitale di 13 md€ che serve anche per alzare il CET1 ratio verso il valore target; se il piano si fosse arrestato qui, avremmo avuto una mera pulizia "statica" delle \$XLOSS\$ che nella tabella sono fatte emergere (\$varXLOSS\$) e coperte (\$varCET1\$) a fronte di una riduzione del \$CET1\$; per effetto di queste azioni il \$CET1\$ passa da 42,22 a 47,5 md€; in questo passaggio ipotizziamo per semplicità che il capitale richiesto \$K\$ non cambi e rimanga al valore iniziale di 48,86 md€ [122];

  2. ulteriori interventi sul bilancio con cessione di partecipazioni intese a ridurre il \$KGAP\$ (\$varKGAP=-5,94\$) attraverso la riduzione degli \$RWA\$ (\$varK= -3,63 mdEUR\$ [123]) e le plusvalenze da realizzo che si traducono in incrementi del \$CET1\$ (\$varCET1= 2,31 mdEUR\$); si aggiungono altre voci che determinano impatti negativi per rettifiche su core NPL, interventi di ristrutturazione della rete, tutti riflesse in diminuzioni del CET1 (\$varCET1=-3,66 mdEUR\$);

  3. computo della dinamica del capitale nel periodo 2017-2019, per tenere conto dell’incremento del capitale richiesto per crescita degli \$RWA\$ e dalle modifiche regolamentari (\$varK=6,51 mdEUR\$), e dalla parte di esso coperta dalla crescita organica del capitale, data dagli utili non distribuiti (\$varCET1=7,6 mdEUR\$) al netto di rettifiche straordinarie previste nel biennio (svalutazione fondo Atlante, portafoglio AFS, effetti di cambio per \$varCET1=-2,53 mdEUR\$); come già in precedenza, l’incremento pianificato è quello che consente di innalzare il CET1 ratio al valore target del 12,5%.

Per calcolare il valore di mercato e i multipli \$PB\$ nelle varie fasi associamo i seguenti parametri:

  1. prima del piano facciamo riferimento ai prezzi di Borsa in data 28 novembre 2016, punto di minimo nelle settimane immediatamente precedenti la presentazione del piano;

  2. al completamento della prima fase (aumento capitale e rettifiche non-core NPL) stimiamo un valore dell’equity presunto applicando al CET1 modificato lo stesso multiplo di equilibrio \$PB_{e,a}\$ implicito nel valore iniziale, poiché tale passaggio non comporta modificazioni del modello di business;

  3. al completamento del piano facciamo riferimento ai prezzi di Borsa in data 24 marzo 2017, successiva alla positiva esecuzione dell’aumento di capitale.

L’analisi dei multipli PB

Cerchiamo ora di estrarre dai prezzi di Borsa i parametri di valutazione impliciti alla luce del nostro modello basato sul multiplo \$PB\$. Per calcolare quest’ultimo, adottiamo una sequenza di valori del Tangible Book Value, che poniamo uguale al CET1 Capital in modo da poter utilizzare le proiezioni contenute nel piano senza ulteriori aggiustamenti:

  • nei giorni precedenti la presentazione di Transform 2019, utilizziamo il valore iniziale implicito nei dati della Tabella 16 (42,22 miliardi di euro);

  • dal giorno di presentazione del piano, utilizziamo lo stesso valore iniziale e gli aggiungiamo l’incremento netto di capitale prospettato dal piano stesso sull’orizzonte 2019; siamo giustificati in questa scelta di valutazione dal positivo accoglimento da parte del mercato, che pertanto presumiamo abbia modificato i fondamentali della propria valutazione spostandoli sullo scenario di successo della riorganizzazione prospettata.

I valori della capitalizzazione di Borsa di Unicredit alle date considerate nella nostra analisi sono riepilogate nella Tabella 18. I calcoli sono spiegati nel resto dell’esempio.

ValutazioneUC
Tabella 18. Andamento della Capitalizzazione di Borsa Unicredit (in milioni di Eur) e calcolo dei multipli \$PB\$

Fonte: Nostra elaborazione su quotazioni di Borsa prese da Reuters-Eikon e dati presentazione Transform 2019.

Il PB iniziale e la sua spiegazione con solvency ratio e Texas ratio

Il 28 novembre 2016 si rilevava un \$PB\$ così calcolato:

\$PB_{o,a} = {E_a}/{TC_a} = {11,63 mdEUR}/{42,22 mdEUR } = 0,276\$

Interpretiamolo secondo il nostro modello per ricavare il \$PB_e\$ depurato dell’impatto dei non-core assets e del capital gap. Il calcolo, basato sulla (6), è molto semplice:

\$PB_{e,a} = {E_a + KGAP}/{K_a} = {11,63 mdEUR + 13,85 mdEUR}/{48,86 mdEUR } = 0,521\$

Il \$PB\$ osservato è abbattuto quasi della metà dalla presenza di NPL da svalutare e smaltire.

Possiamo arrivare a \$PB_e\$ anche attraverso gli scostamenti tra valori richiesti (\$R\$) ed effettivi (\$A\$) del solvency ratio e del Texas ratio, secondo il nostro modello semplificato.
Riguardo ai parametri di coverage ratio e Texas ratio adottiamo valori ante e post-presentazione posizionando i primi sul bilancio a settembre 2016 e i secondi sui valori target di Transform 2019.

Nel dettaglio, facendo ancora riferimento alla presentazione del CFO a p. 12 assumiamo i seguenti valori riferiti ai Non Core - NPE:

  • Per quanto riguarda il coverage ratio:

    • A settembre 2016 il coverage effettivo era pari al 53,6%, il coverage target a 68,2%;

    • A fine 2019, si prevede un coverage effettivo = coverage target = 57% [124];

  • Ai fini del calcolo del Texas ratio ipotizziamo:

    • A settembre 2016 un valore effettivo di NPE netto di 29,5 miliardi, ridotto a 22,3 miliardi con le cessioni previste dal piano; questo valore ridotto è assunto come target alla data di presentazione del piano;

Non consideriamo il valore target a fine 2019 poiché nel nostro modello lo scarto dal target del Texas ratio deve riflettere soltanto le perdite su NPE latenti alla data di valutazione.

Adottiamo un target CET1 Ratio pari a 12,5% sia prima che dopo la data della presentazione.

Quanto ai valori effettivi del CET1 Ratio, prendiamo il valore a fine settembre 2016 (10,8%) nello scenario ante e il valore target del 12,5% nello scenario post, ipotizzando pertanto il completo azzeramento del capital gap:

\$PB_{o,a} = 1- (tr_A - tr_R) - (1 - PB_{e,a}) {sr_R}/{sr_A}\$

\$PB_{o,a} = 1- (0,6988 - 0,5282) - (1-PB_{e,a}) {0,125}/{0,108} = 0,276\$

Dove:

\$tr_A = {NPE netti}/{TC_a} = {29,5 mdEUR}/{39 mdEUR} = 69,88%\$

\$tr_R ={22,3 mdEUR}/{39 mdEUR} = 52,82%\$

\$sr_A = 10,8%\$

\$sr_R = 12,5%\$

Risolviamo per \$PB_{e,a}\$:

\$PB_{e,a} = 1 - [1 - PB_{o,a} - (tr_A - tr_R)] xx {sr_A}/{sr_R} = 1 - [1 - 0,276 - 0,1706] xx {0,108}/{0,125} = 0,521\$

Questa derivazione alternativa ci conferma che il valore osservato di \$PB\$ (0,276) è depresso dai non-core NPL rispetto al valore implicito di 0,521. Quest’ultimo riflette un insieme di altri fattori e tra questi principalmente la redditività attesa del capitale nella configurazione iniziale del portafoglio di attività, oltre a rettifiche di valore una tantum relative a voci diverse dei non-core NPL.

Il multiplo PB dopo l’annuncio del piano

Il mercato ha tradotto le informazioni del nuovo piano strategico in input del modello di valutazione delle azioni. Ipotizziamo, come anticipato, che gli investitori lo abbiano giudicato credibile ed efficace nella correzione degli squilibri iniziali e nel miglioramento della redditività attesa.

La valutazione, sorretta da questa ritrovata fiducia, diventa più semplice: il livello degli NPL ritorna fisiologico e quindi riassorbito dai margini dell’attività core, che diventa l’unica determinante dei multipli di Borsa.

Traduciamo i numeri del piano nelle variabili del nostro modello.

Come calcola il mercato il nuovo multiplo \$PB\$?

Rapportiamo al valore di \$TC_p\$ la somma tra la capitalizzazione di Borsa ai prezzi correnti sul numero di azioni in circolazione e l’esborso totale per sottoscrivere l’aumento di capitale.

Al completamento del piano, includendo il capitale da acquisire oggi per raggiungere il target CET1 ratio a fine 2019, avremo \$TC_p = 51,22 mdEUR\$ (v. Tabella 17). Sempre per effetto del piano, il capitale richiesto si porterà a un livello \$K = 51,75 mdEUR\$, con un piccolo \$KGAP = 0,53 mdEUR\$.

Il maggior valore liberato dal piano strategico è subito riflesso, quando il mercato ne viene a conoscenza, dalla capitalizzazione di Borsa, che idealmente è l’attualizzazione del valore atteso dopo l’esecuzione della rights issue al netto del cash con essa raccolto. L’aumento non è ancora perfezionato, ma confidando nel suo successo il mercato va subito ad appoggiare la sua price discovery sullo scenario modificato da quell’evento.

Pertanto, il \$PB\$ alla data della presentazione (13 dicembre) è così determinato in base ai dati di capitalizzazione di Borsa presi dalla Tabella 18:

\$PB_{o,p} ={E_a + C}/{TC_p} = {17,37 mdEUR + 13 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,593\$

Ricaviamo anche il valore di equilibrio implicito, dato il \$KGAP\$:

\$PB_{e,p} ={E_a + C + KGAP}/{K_p} = {17,37 mdEUR + 13 mdEUR + 0,53 mdeur}/{51,75 mdEUR} = 0,597\$

Il \$PB\$ è più che raddoppiato rispetto al valore osservato il 28 novembre (0,276). L’incremento è ascrivibile a due effetti:

  • si considerano pressoché azzerati gli squilibri per carenza di capitale e underprovisioning dei crediti deteriorati, per cui \$PB_{o,p}\$ è prossimo al valore di equilibrio \$PB_{e,p}\$.

  • nella situazione ante, \$PB_{o,a}=0,276\$ era depresso rispetto a \$PB_{e,a}=0,521\$ con uno scarto negativo di 0,245;

  • a ciò si aggiungono gli effetti della promessa (giudicata credibile) di efficientamento del modello operativo, grazie alla quale lo stesso \$PB_{e,p}=0,597\$ aumenta di 0,076 rispetto al livello stimato prima del piano Transform 2019 (0,521).

Il multiplo PB nel periodo di opzione e dopo

Dopo la divulgazione di Transform 2019, la quotazione di Unicredit ha mostrato un’accentuata volatilità. Per tutta la durata del periodo di opzione, tra il 6 ed il 27 febbraio, si è mantenuta su livelli inferiori a quelli del 13 dicembre, per poi risalire nelle settimane successive.

Numerosi fattori concorrono a spiegare questa dinamica: l’andamento generale della Borsa e del comparto banche al suo interno, la presenza di informazioni aggiuntive sulla banca diffuse nel documento di registrazione dell’aumento di capitale e nel Bilancio 2016 successivamente approvato.

Si può tuttavia riconoscere con certezza un effetto di mutuo rinforzo tra l’efficace esecuzione della raccolta di nuovo capitale e la fiducia degli investitori nel piano strategico.

Si sono osservati i seguenti valori del multiplo \$PB\$, calcolato sul \$TC_p\$ modificato del piano, che manteniamo per semplicità costante rispetto al valore ripreso dalla presentazione Transform 2019:

  • Nel giorno precedente l’annuncio dell’operazione sul capitale (12 gennaio 2017):

\$PB_{o,p} = {15,95 mdEUR + 13 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,565\$

  • Nel giorno di annuncio dell’operazione (13 gennaio):

\$PB_{o,p} = {16,51 mdEUR + 13 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,576\$

  • Nel giorno precedente lo stacco del diritto (3 febbraio):

\$PB_{o,p} = {16,17 mdEUR + 13 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,57\$

Il procedimento cambia nel periodo di opzione, nel quale moltiplichiamo il prezzo ex diritto per il numero di azioni comprensive di quelle nuove, continuando a ipotizzare (a maggior ragione) il positivo completamento dell’offerta:

  • Il giorno di stacco del diritto (6 febbraio):

\$PB_{o,p} = {27,17 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,53\$

  • Il giorno di fine sottoscrizione (27 febbraio):

\$PB_{o,p} = {27,73 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,541\$

Il 24 marzo il prezzo del titolo aumenta e il \$PB\$ si riporta sopra i livelli del 13 dicembre 2016:

\$PB_{o,p} = {32,03 mdEUR}/{51,22 mdEUR} = 0,625\$

La scomposizione della variazione dell’equity e la creazione di valore

La suddivisione in fasi che abbiamo proposto mostra chiaramente come il successo dell’operazione sia dipeso dalla riorganizzazione prospettata.

ScompUC
Tabella 19. Scomposizione della variazione di valore dell’equity nelle fasi del piano Transform 2019

Fonte: Nostra elaborazione su quotazioni di Borsa prese da Reuters-Eikon e dati presentazione Transform 2019.

La Tabella 19 riepiloga i valori da cui dipende \$E\$ secondo il nostro modello:

  1. prima del piano, ai prezzi del 28 novembre 2016;

  2. dopo l’attuazione degli interventi di pulizia dei non-core NPL e ricapitalizzazione, assumendo costanza del multiplo "depurato" \$PB_e\$;

  3. dopo il completamento del piano, ai prezzi del 24 marzo 2017.

Nel passaggio da (0) a (1) l'equity si incrementa per effetto dell’aumento di capitale che va a colmare quasi completamente il \$KGAP\$ e consente di far emergere le \$XLOSS\$. Tuttavia i costi di emissione distruggono valore in pari misura. In costanza di \$PB_e\$ non si hanno altri effetti di creazione di valore. L’effetto netto è una diminuzione di \$E\$ pari ai costi di emissione (-0,514).

Nel passaggio da (1) a (2) la dinamica è più varia e interessante. Aumenta il fabbisogno di capitale \$K\$, che viene però coperto in parte dalla dismissione di partecipazioni, che genera anche incrementi di CET1 da plusvalenze nette (come si dettaglia nella Tabella 17). La riorganizzazione e la crescita degli \$RWA\$ sono quindi "autosostenuti". Il capital gap si riduce ulteriormente fino quasi ad azzerarsi.
Ma l’effetto più interessante è la migliorata valutazione dell'equity, dovuta a \$varPB\$ (l’aumento del multiplo di equilibrio) che compensa ampiamente l’effetto dell’incremento di capitale richiesto (\$-(1 - PB_{e,p}) varK\$). si ottiene pertanto l'"effetto valutazione" di 4,186 md€. A questo si aggiungono le plusvalenze nette sulle dismissioni che superano le contestuali rettifiche negative e portano a "rettifiche nette e spese" di segno positivo per 3,72 md€.

Conclusioni

L’aumento di capitale di Unicredit ha avuto successo, con l’afflusso di capitali da nuovi investitori, soprattutto istituzionali. I soci storici (le fondazioni bancarie Cassa di risparmio di Torino e Cassa di risparmio di Verona) hanno mantenuto una quota del 6% (v. Figura 19).

Il capitale sociale di Unicredit è detenuto oggi in misura preponderante da soggetti non italiani, tra i quali prevalgono i fondi di investimento statunitensi (v. Figura 20).

UCAzionariato
Figura 19. La vecchia e la nuova mappa dell’azionariato Unicredit
UCAzionariatoGeo
Figura 20. La composizione per aree geografiche del nuovo azionariato Unicredit

Fonte: Dati diffusi dalla società (V. tabella precedente).

Il successo è frutto di circostanze e fattori che hanno reso possibile una convergenza di interessi virtuosa tra management, azionisti preesistenti e nuovi investitori:

  • il gruppo poteva comunque esibire una leadership di mercato nei principali Paesi in cui è presente, fattore di sicura attrazione in uno scenario di recupero della redditività dell’intermediazione bancaria tradizionale;

  • un piano di riorganizzazione convincente avrebbe dato un impulso ulteriore alla creazione di valore nel core business;

  • l’emissione e la copertura delle perdite latenti, unitamente ai costi di ristrutturazione, avrebbero ridotto (se non eliminato, come da noi ipotizzato per semplicità) l’incertezza sulle rettifiche di valore straordinarie, che induce gli investitori a cautelarsi decurtando i \$PB\$ applicati;

  • per quanto depressa dal calo delle quotazioni, la Banca conservava una capitalizzazione di Borsa ante-piano di ordine di grandezza paragonabile al fabbisogno di capitale poi comunicato; ciò consentiva di proporre un’operazione non troppo diluitiva per i vecchi azionisti;

  • nell’ottica dei nuovi azionisti, si poteva apprezzare la definitiva trasformazione di Unicredit in una public company con governance regolata dai grandi fondi internazionali, non più soggetta a interferenze dei soci storici, e quindi indirizzabile verso la massimizzazione dello shareholder value.

Si è così attratto un flusso di nuovi capitali desiderosi di partecipare al processo di rilancio, con l’attesa di ottenere non soltanto un rendimento adeguato rispetto al rischio, ma anche la possibilità di migliorarlo in caso di risultati superiori alle attese, grazie all’ulteriore crescita di \$PB\$ rispetto ai livelli raggiunti dopo l’aumento di capitale.

Dal canto loro, gli azionisti esistenti hanno condiviso con i nuovi entranti (e con sé stessi per la quota optata) il maggior valore liberato dal piano, ottenendo in cambio la condivisione del sacrificio patrimoniale a fronte delle perdite emerse da non-core assets e oneri di riorganizzazione (\$XLOSS\$).

Dal punto di vista tecnico, questo virtuoso amalgama si è tradotto nel miglioramento congiunto di \$PB_o\$ e di \$PB_e\$. Migliorare soltanto il primo con la mera copertura di \$XLOSS\$ non sarebbe bastato: avrebbe infatti semplicemente trasferito una quota del valore ante-aumento ai nuovi entrati pari alla quota di \$XLOSS\$ da questi assorbita, oltre a far gravare sui vecchi soci le spese di emissione.

Il futuro dirà se queste speranze saranno confermate dai risultati. Quello che è già certo è il recupero della fiducia del mercato rispetto a un percorso di risanamento, che ha consentito di avviarlo e realizzarne i primi passi nel rispetto degli impegni assunti nei confronti degli investitori il 13 dicembre 2016.

Nel momento in cui chiudiamo questa prima parte, dopo l’ultima quotazione considerata nell’esempio (14,39€az in data 24 marzo 2017), il prezzo dell’azione ordinaria Unicredit ha toccato un minimo di 12,85€az il 18 aprile, per poi risalire raggiungendo 17,1€az il 16 maggio.

7. Conclusioni alla prima parte

Nell’impostare questo studio, mi riproponevo di stilare una breve nota metodologica focalizzata sui modelli di valutazione delle azioni. Nel corso dell’analisi, cominciata nel marzo 2016, sono accaduti molti fatti che hanno posto spunti sempre nuovi da approfondire. Le dimensioni dello scritto si sono espanse oltre le intenzioni iniziali, soprattutto per coprire argomenti propedeutici o collaterali rispetto all’oggetto principale, fino alla scelta di suddividere il lavoro due parti per non differire troppo la diffusione e soprattutto la discussione dei suoi risultati.

Al termine della prima parte, gli elementi raccolti non bastano per trarre delle conclusioni. Non si è infatti entrati nel merito della questione più urgente e spinosa, quella del valore delle banche che versano in uno stato di crisi, dal quale possono uscire nei modi statuiti dalla direttiva BRRD sul risanamento e sulla risoluzione delle crisi bancarie. Nel momento in cui chiudiamo questa prima parte, sono ancora aperti i dossier relativi alle popolari venete e al Monte dei Paschi e si spera che giungano a un approdo nelle prossime settimane. La seconda parte di questo studio sarà sviluppata in parallelo con lo svolgersi di quelle vicende. È probabile che i fatti ci porranno sollecitazioni ancora più impegnative di quelle tentativamente recepite in queste pagine.

Volendo riassumere le impressioni fin qui raccolte, si deve rimarcare per prima cosa l’eccezionalità dei tempi che stiamo attraversando. Qual è oggi il valore di equilibrio di una banca? Difficile rispondere quando si è ancora alla ricerca di nuove condizioni di equilibrio sulle quali fondare i modelli di business bancari.

Non si è ancora completato il ciclo di rafforzamento dei requisiti prudenziali avviato nel 2009. Il tema dominante delle politiche finanziarie delle banche rimane ancora l’adeguatezza del patrimonio e la ricerca di una sua adeguata redditività. Si è però riscontrato che in media i mercati valutano le banche europee, e in particolare le italiane, scontando un badwill persistente. Ci siamo chiesti come possa un settore operare con una dotazione obbligatoria di capitale che la maggior parte delle imprese che ne fanno parte non riesce a remunerare adeguatamente. Il paradosso si può spiegare in una fase, come l’attuale, di riorganizzazione radicale del settore, nella quale è alta l’incertezza su tempi e modi del ritorno a una nuova normalità.

Abbiamo inoltre notato come il traguardo del capitale adeguato non sia identificabile in modo certo e stabile nel tempo. Le banche devono gestire una stratificazione complessa di requisiti che devono essere rispettati congiuntamente. Il processo è pieno di moving parts: la normativa è continuamente innovata o rimaneggiata, il che pone coloro che la devono rispettare in un perenne regime di phasing-in. Anche i comportamenti aggiungono incertezza, tanto quelli delle banche che modulano gli approcci di vigilanza per risparmiare sui requisiti di capitale, quanto quelli delle Autorità che possono mostrarsi condiscendenti oppure severe nel contrasto alle azioni elusive. Abbiamo notato la presenza di ampi margini di discrezionalità nella fissazione dei requirement e delle guidance da parte delle Autorità di vigilanza (SREP) e di quelle di risoluzione (MREL). Gli standard di attuazione devono essere ancora calibrati rispetto all’eterogeneità della popolazione bancaria.

Nel dibattito sul futuro della supervisione bancaria internazionale [125], stanno maturando posizioni che mettono in dubbio la stessa architettura dei requisiti di Basilea basata sugli \$RWA\$: secondo la nuova scuola di pensiero che sta prendendo forza negli Stati Uniti, un sistema che pretende di guardare dentro le esposizioni delle banche per controllarne i rischi ha una complessità ingestibile, e soprattutto produce dei costi che superano di gran lunga i benefici. Questo scenario di rottura con Basilea vanificherebbe investimenti pluridecennali delle Autorità e delle banche, oltre a destabilizzare il quadro competitivo dei sistema finanziario internazionale. È ragionevole metterlo da parte, per il momento.

Ad ogni modo, anche nell’ambito del regime vigente non è facile riconciliare i volumi e il mix del capitale minimo da detenere con la dotazione di capitale disponibile. Le banche, oltre ad essere vincolate nelle politiche dei dividendi, possono incorrere con maggior probabilità in carenze di capitale che devono essere prontamente sanate.

In questa prima parte si è considerata la via del ricorso al mercato per fronteggiare tali situazioni di capital shortfall. Si è rimarcato che il successo di questa opzione dipende da un solo fattore: il valore futuro attribuito dal mercato alla banca ricapitalizzata. Se questa non ha un piano di riorganizzazione e rilancio credibile, i suoi multipli di valutazione sono e rimangono depressi. La raccolta di capitale a copertura delle perdite pregresse consuma il valore residuo dell’intermediario e diluisce gli azionisti esistenti, senza offrire a quelli nuovi una value proposition interessante. Gli unici soci disponibili ad entrare sono gli attori "di sistema" (in concreto, la sezione "volontaria " del FITD o il Fondo Atlante) che con la sottoscrizione delle azioni emesse veicolano, di fatto, un sussidio. Strada, quest’ultima, che spesso non ha alternative. Nei tempi che corrono, tuttavia, tamponare le perdite latenti non basta a risanare laddove la banca si trovi poi con una struttura di costi non sostenibile, per non parlare della necessità (purtroppo plausibile) di ulteriori rettifiche straordinarie.

Come gestire congiuntamente il risanamento e il rilancio, lo smaltimento del passato e la reinvenzione del futuro, il tutto in tempi brevi e nella totale dipendenza da apporti di capitale esterni? Abbiamo esaminato due casi, in uno dei quali la via si è trovata grazie a un concorso virtuoso o favorevole di circostanze. È importante mettere a fuoco le condizioni di successo, prendendo atto della loro specificità rispetto ai casi singoli. Non possiamo perciò generalizzare delle best practice buone in astratto, magari con la pretesa illusoria di farle funzionare in banche debilitate da una lunga quarantena in uno stato di pre-dissesto.

Come coesisteranno le zone di solidità e quelle di fragilità all’interno del sistema? Quali sono i percorsi migliori per riportare una banca in difficoltà nelle condizioni di creare valore, o portarla ordinatamente a chiudere? Questi e altri interrogativi saranno presi in carico nella seconda parte dello studio, che si prevede di pubblicare prima della pausa estiva dell’anno in corso.

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1. Versione preliminare del maggio 2017.Per commenti luca.erzegovesi@unitn.it. Copyright © maggio 2017, Luca Erzegovesi. Si ringrazia Mariangela Caputo per la preziosa assistenza fornita nella costruzione degli esempi. Il permesso di distribuire o duplicare questo documento, per intero o in parte, è concesso a condizione che si riportino nei riferimenti bibliografici le fonti del documento e questo copyright sia incluso in tutte le copie.
2. Veneto Banca vale 3,3 miliardi ma non si quota in Borsa, Corriere del Veneto, 22 aprile 2010
3. V. https://www.bankingsupervision.europa.eu/banking/comprehensive/2014/html/index.en.html.
4. SREP sta per supervisory review and evaluation process, v. https://www.bankingsupervision.europa.eu/about/ssmexplained/html/srep.it.html.
5. Attualmente nel sistema del credito cooperativo operano un Fondo di garanzia dei depositi e un Fondo temporaneo ai sensi dell’art. 2 bis del DL 14 febbraio 2016, n. 18, convertito nella Legge 8 aprile 2016, n. 49, che ha riformato il settore. Con la piena attuazione della riforma delle BCC, la funzione mutualistico-assicurativa di tale Fondo sarà svolta dai Gruppi Bancari Cooperativi mediante forme di garanzia in solido regolate dai contratti di coesione stipulati tra le banche aderenti e la banca capogruppo.
6. Le sottoscrizioni si sono chiuse il 30 aprile 2016 per la Popolare di Vicenza e il 24 giugno dello stesso anno per Veneto Banca.
7. V. Note di sintesi sulle offerte in questione di Banca popolare di Vicenza e Veneto Banca.
8. Il caso delle popolari venete è ripreso più avanti in un Esempio.
9. Si rinvia alla ricostruzione fatta dalla Banca d’Italia, v. https://www.bancaditalia.it/media/approfondimenti/2016/ricapitalizzazione-mps/index.html.
10. Vedi Nota di sintesi.
11. La perdita di valore del titolo Monte dei Paschi rispetto a prima della crisi è impressionante: il prezzo alla data di sospensione (15,08 euro per azione) è crollato rispetto al prezzo a fine 2007 aggiustato per le successive operazioni sul capitale (6.421 euro per azione) del 99,8%.
12. V. Esempio.
13. Si intendono i modelli fondati sull’approccio di Merton (1974), che sono trattati in maniera ampia in Garbade (2001).
14. Si tratta dello stesso indicatore utilizzato nei grafici introduttivi.
15. Per Texas ratio si intende il rapporto tra crediti deteriorati netti e capitale netto tangibile.
16. I requisiti a fronte del rischio operativo sono di rilievo inferiore ai nostri fini.
17. La normativa di Pillar 1 si presume nota al lettore, mentre ci si diffonderà maggiormente nei punti che seguono sul resto dell’apparato di vigilanza prudenziale.
18. Vedi comunicato stampa e Fact sheet del 23 novembre 2016. Sull’implementazione del leverage ratio si rinvia alla pagina dedicata del sito EBA.
19. V. Macroprudential Policy Tools and Frameworks – Progress Report to G20, 27 ottobre 2011.. Per un aggiornamento sullo stato delle politiche macroprudenziali a livello internazionale v. Elements of Effective Macroprudential Policies, 31 agosto 2016.
20. In italiano, Comitato europeo per il rischio sistemico (CERS), v. https://www.esrb.europa.eu/about/background/html/index.it.html.
21. In italiano Riserva di conservazione del capitale.
22. 18° Aggiornamento del 4 ottobre 2016 della Circolare della Banca d’Italia n.285 del 23 dicembre 2015, https://www.bancaditalia.it/compiti/vigilanza/normativa/archivio-norme/circolari/c285/Aggiornamento-18-041016.pdf.
23. In italiano Riserva di capitale anticiclica.
24. Le comunicazioni relative alla decisizioni in materia sono riportate nella pagina web Decisioni di politica macroprudenziale della Banca d’Italia.
25. V. sito ESRB.
26. Reducing the Moral Hazard Posed by Systemically Important Financial Institutions, 11 novembre 2010.
27. La metodologia per individuare e classificare le G-SII nelle diverse sottocategorie è definita nel regolamento delegato UE/2014/1222 della Commissione europea. Il regolamento contiene previsioni coerenti con quanto stabilito dal Comitato di Basilea per la vigilanza bancaria e dal Financial Stability Board, in modo da garantire che ogni anno siano identificate come G-SII le stesse banche europee incluse nella lista pubblicata dall’FSB annualmente.
28. V. Comunicazione Banca d’Italia del 15 dicembre 2016.
29. In italiano Istituzioni a rilevanza sistemica nazionale.
30. V. https://www.bancaditalia.it/compiti/stabilita-finanziaria/politica-macroprudenziale/identificazione-gruppi-bancari/index.html.
31. Per la casistica europea dell’SRB si rinvia al sito dell’ESRB.
32. Sui criteri applicati nello SREP 2016 v. SSM SREP Methodology Booklet.
33. ICAAP sta per Internal Capital Adequacy Assessment Process. ILAAP sta per Internal Liquidity Adequacy Assessment Process.
34. V. https://www.bankingsupervision.europa.eu/banking/comprehensive/html/index.en.html.
35. Committee of European Banking Supervisors, organismo di coordinamento tra le Autorità di supervisione bancaria operante prima della costituzione dell’EBA.
36. Riportiamo le definizioni presenti nel Fact sheet relativo al Banking reform package del novembre 2016, che sono più approfonditamente esaminate e discusse in European Banking Authority (2017).
37. Regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014 , relativo agli abusi di mercato, http://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/?uri=CELEX%3A32014R0596.
38. In European Banking Authority (2017, p. 5) si prospetta nei confronti delle banche che non soddisfano la P2G un "intensified supervisory dialogue", nell’attesa che l’intermediario si impegni ad attuare un "set of actions aiming at restoring own funds to meet P2G".
39. Wilson Ervin, che ai tempi del crack Lehman era Chief Risk Officer del gruppo Credit Suisse, illustra il concetto in un articolo dell’Economist (Calello & Ervin, 2010) e in una successiva intervista (Ervin, 2015).
40. Nel caso Lehman, secondo Ervin, la scelta per la liquidazione del gruppo ha fatto in modo che perdite latenti su attivi illiquidi stimate inizialmente in 25 miliardi di dollari si traducessero in perdite realizzate per circa 150 miliardi di dollari a carico degli azionisti e dei creditori della banca.
41. V. Dichiarazione finale e i punti 28-33 del documento Transformed financial system to address the root causes of the crisis.
42. V. Reducing the Moral Hazard Posed by Systemically Important Financial Institutions.
43. Nel novembre 2014 l’EBA ha avviato la consultazione sui DTS in materia di MREL. La versione definitiva è stata pubblicata il 3 luglio 2015, e successivamente ufficializzata dalla Commissione nel maggio 2016.
44. V. http://europa.eu/rapid/press-release_IP-16-3731_en.htm. Lo stato della normativa MREL è analizzato in maggior dettaglio più avanti.
45. V. Total Loss-Absorbing Capacity (TLAC) Principles and Term Sheet.
46. V. http://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?qid=1473265913834&uri=CELEX:32016R1450.
47. V. https://www.eba.europa.eu/-/eba-makes-final-recommendations-for-strengthening-loss-absorbing-capacity-of-banks-in-europe.
48. V. le proposte di modifiche della Direttiva 59/2014 European Commission (2016c) e European Commission (2016b), il fact sheet della Commissione Europea (European Commission, 2016a) e il commento dello staff del Parlamento Europeo (Stuchlik, 2017). Per un’analisi puntuale del grado di armonizzazione tra regole TLAC e MREL dopo le modifiche del novembre 2016 v. Garcia & Abascal (2016).
49. Nella revisione in corso delle regole MREL questa componente di market confidence buffer sarà sostituita da un requisito non vincolante ricompreso nella MREL guidance, vedi oltre in questo paragrafo.
50. Tale riferimento all’aggregato TLOF costituiva un elemento di complessità e di incertezza delle regole MREL, come si evidenzia in Berger, Hüttl, & Merler (2016).
51. Le regole di Basilea II prevedevano una componente formalmente definita di Tier 3 costituita da obbligazioni subordinate di durata breve utilizzabile a copertura dei soli rischi di mercato.
52. V. nota di Moody’s sulla situazione nel Regno Unito, dove i gruppi maggiori Barclays e HSBC si sono adeguati con emissione di bond a livello di capogruppo, mentre si evidenziano delle carenze rispetto ai requisiti MREL in banche e building society minori.
53. Le associazioni delle banche italiane, ABI e Federcasse, hanno riconosciuto questa difficoltà e per affrontarla hanno richiesto alla Commissione Europea di ammettere transitoriamente nell’aggregato MREL le obbligazioni senior emesse fino al 2016 e prive della clausola di subordinazione richiesta dal banking package, v. Serafini (2017).
54. Per maggiori dettagli v. European Commission (2016a) e Garcia & Abascal (2016, p. 3).
55. Resta da chiarire se le due componenti qui considerate sono da considerarsi aggiuntive o invece "sovrapposte" a P2G e combined buffers. Non è chiaro anche perché già la P2G può essere assolta dai buffers esclusi quelli G-SII, O-SII e systemic. Nel caso in cui la MREL guidance fosse indicata come aggiuntiva, come per il MREL obbligatorio sarebbe seguita la logica del raddoppio del MREL rispetto al requisito di capitale totale.
56. Si rinvia alla ricostruzione tecnica del fenomeno fatta in Banca d’Italia (2016b) e a quella giornalistica, ben documentata, di Greco & Vanni (2017)
57. V. le Comunicazioni relative al gruppo Unicredit del 30 dicembre 2015 e del 15 dicembre 2016.
58. V. Comunicazioni del 22 gennaio 2016 e del 30 novembre 2016.
59. V. comunicazione del 18 gennaio 2017 che segue una decisione presa nell’ottobre 2016.
60. Secondo le disposizioni applicative in via di definizione (European Banking Authority, 2017), dovrebbero essere imputabili alla P2G il CCB e, previa autorizzazione delle Autorità di vigilanza macroprudenziali, il CCyB.
61. Il Final report dell’EBA propone in casi del genere un periodo di tolleranza nel quale la banca ha tempo di rimediare alla carenza di MREL senza innescare le limitazioni ai dividendi per la violazione dei buffer, v. European Banking Authority (2016d, p. 95). Tale proposta, come ricordato in precedenza, è stata recepita melle modifiche in corso di CRD IV/CRR/BRRD.
62. Ad esempio il Regolamento (UE) 2016/2067 della Commissione del 22 novembre 2016 (European Commission, 2016d) modifica il regolamento (CE) n. 1126/2008 ai fini del recepimento del nuovo principio contabile IFRS 9.
63. V. https://www.eba.europa.eu/-/eba-publishes-opinion-on-transitional-arrangements-and-credit-risk-adjustments-due-to-the-introduction-of-ifrs-9.
64. "The accounting rules enter into force on 1 January 2018 and we as supervisors are powerless to act if there is no legislation ready. However, it is important that the mechanism should be simple in nature, also for the market to understand. The phasing-in should only be for the initial CET1 capital reduction, i.e. for this static amount only." v. https://www.bankingsupervision.europa.eu/press/speeches/date/2017/html/ssm.sp170425.en.html.
65. In Bagna, Di Martino, & Rossi (2015) si evidenzia un impatto negativo sui valori di Borsa delle banche europee che fanno maggiore uso di strumenti level 3.
66. V. le note esplicative in Banca d’Italia (2016a).
67. Si rinvia al prospetto relativo della Parte F, 2.1.B dello schema obbligatorio di Nota integrativa al Bilancio d’esercizio delle banche. Per la definizione delle componenti dei Fondi propri si rinvia alla Circolare Banca d’Italia n. 285 del 17 dicembre 2013, Parte II, Capitolo 1 che rinvia alla Capital Requirement regulation (CRR), Regolamento (UE) 575/2013 del 26 giugno 2013, in particolare alla Parte Due, Titoli I e II, e ad altre normative europee che regolano direttamente la materia.
68. Per maggiori dettagli v. Basel Committee on Banking Supervision (2012).
69. Nel 2017 la quota minima dedotta dal CET1 è dell'80%
70. Secondo la definizione dei principi contabili nazionali, tali attività sono denominate "Imposte anticipate", mentre si usa per le analoghe passività il termine "Imposte differite", v. principio contabile OIC 25 Imposte sui redditi (Organismo Italiano di contabilità, 2016). I principi contabili IASB usano i termini più generali di attività e passività per imposte differite o, in alternativa, imposte differite attive e passive.
71. Non specifichiamo qui in dettaglio l’ordine delle deduzioni in base al quale si calcola il CET1 residuo ai fini della franchigia in questione.
72. Detta quota è incrementata dal 10% nel 2015 al 100% nel 2024 con step del 10% l’anno, pertanto risulta pari al 30% nel 2017.
73. L’ACE (Aiuto alla Crescita Economica) riconosce la deducibilità di oneri finanziari figurativi calcolati in base a un costo del capitale applicato agli incrementi di capitale netto effettuati dal 2011 in poi e nei limiti del patrimonio netto contabile tempo per tempo vigente; detto costo figurativo è fissato al 4,75% per l’anno 2016, ridotto al 2,3% per il 2017 e al 2,7% negli esercizi successivi. Il beneficio ACE è stato ulteriormente ridotto col DL 24 aprile 2017, n. 50, Art.7, nel quale si stabilisce che ai fini del calcolo della base di riferimento sono sono presi in considerazione gli incrementi di capitale negli ultimi cinque esercizi.
74. Detta quota è incrementata dal 20% nel 2014 al 100% nel 2018 con step del 20% l’anno, pertanto risulta pari all'80% nel 2017.
75. Non specifichiamo qui in dettaglio l’ordine delle deduzioni in base al quale si calcola il CET1 residuo ai fini della franchigia in questione.
76. Nel 2017 la quota minima dedotta dal CET1 è dell'80%.
77. Non specifichiamo qui in dettaglio l’ordine delle deduzioni in base al quale si calcola il CET1 residuo ai fini della franchigia in questione.
78. Le regole prudenziali previgenti alla CRR consentivano anche un approccio "asimmetrico" alla sterilizzazione dei profitti/perdite non realizzati sul portafoglio di obbliagzioni AFS che consisteva nella completa deduzione delle perdite nette dal capitale Tier 1 e l’inclusione parziale del 50% dei profitti nel capitale Tier 2. come previsto per la azioni AFS, v. Committee of European Banking Supervisors (2004)
79. Nel 2017 la quota minima dedotta dal CET1 è dell'80%
80. Per la ricostruzione del processo di evoluzione normativa, v. Banca d’Italia (2017a)
81. Per la precisione, la deroga è riferita alle esposizioni verso Amministrazioni centrali classificati nel portafoglio "Attività disponibili per la vendita".
82. Per un excursus della normativa fiscale previgente v. Andreani (2015). A differenza dei principi contabili IFRS, il TUIR distingue tra svalutazioni di crediti (previgente art. 106, commi da 3 a 5) e perdite su crediti realizzate a fronte della cancellazione degli stessi (previgente art. 101, comma 5).
83. Una norma transitoria limitava nell’anno 2015 tale deduzione al 75% delle svalutazioni in questione.
84. Per un dettaglio del complesso procedimento di calcolo della massa soggetta a pagamento di commissioni v. (Catona & Bellasio, 2016).
85. Le quote di deduzione sono state incrementate del 20% l’anno dal 20% nel 2014 all'80% nel 2017. Dal 2018 si applica la deduzione piena al 100%.
86. Sulla franchigia, cumulata con quella degli investimenti significativi in strumenti CET1 di istituzioni finaziaria, si deduce l’eventuale eccedenza rispetto al 17,65% del CET1 al netto di altre deduzioni.
87. Detta quota è incrementata dal 20% nel 2014 al 100% nel 2018 con step del 20% l’anno, pertanto risulta pari all'80% nel 2017.
88. In proposito il Capo del Dipartimento Vigilanza della Banca d’Italia nell’aprile 2017 stigmatizzava "la tendenza dei mercati a non considerare i regimi transitori che accompagnano di norma l’introduzione di nuove regole prudenziali: l’enfasi sugli effetti della normativa a regime (front-loading) può rendere vani i tentativi di graduare nel tempo la transizione ai nuovi standard"; v. Barbagallo (2017).
89. Si deducono infatti le attività immateriali.
90. Sul tema della valutazione delle esposizioni deteriorate si torna più avanti, v. Impatto dei crediti deteriorati in eccesso.
91. Si tratta delle esposizioni denominate held for trading nello IAS 39 e FVTPl nell’IFRS 9, v. Principi contabili IFRS e capitale regolamentare.
92. La duration è un indicatore di durata media finanziaria dal quale è stimata la sensibilità del prezzo di un’obbligazione a variazioni del rendimento a scadenza in base al quale si calcola il prezzo del titolo.
93. Si rinvia al Regulatory Technical Standard dell’EBA in materia di validazione dei modelli interni, v. European Banking Authority (2016c).
94. La Fundamental review of the trading book è stata approvata dal Comitato di Basilea nel gennaio 2016 dopo un lungo periodo di gestazione. Entrerà in vigore dal gennaio 2019. V. http://www.bis.org/bcbs/publ/d352.htm.
95. Dopo l’ammissione di questo approccio nel 1998 si sviluppo un acceso dibattito, riassunto in Erzegovesi (2000)
96. Qui sono accessibili i risultati dello stress test 2016
97. Ad esempio, come già ricordato, nei casi di non conformità alle guidance non vincolanti la banca è coinvolta in un "intensified supervisory dialogue" (European Banking Authority, 2017, p. 5).
98. Per una chiara rassegna dei modelli strutturali per la valutazione dei titoli emessi da un’impresa si rinvia a Garbade (2001).
99. Per una rassegna dei modelli DDM standard applicati alle banche v. Massari, Gianfrate, & Zanetti (2014).
100. Nel modello EVA questa componente è detta Market Value Added (MVA).
101. Si rinvia ai dati commentati nell’introduzione al paper.
102. Il discorso si complica quando la società fa uso di azioni di classi diverse, anche convertibili tra di loro, e strumenti ibridi come obbligazioni convertibili. Ai nostri fini non serve trattare l’intera casistica, per la quale si rinvia a Pompilio, Ghillino, Piccinini, & Rotelli (2002).
103. Abbiamo prima trattato il caso particolare in cui \$TC_p\$ raggiunge il capitale richiesto \$K\$.
104. Il D.Lgs n. 184 dell'11 novembre 2012 (attuazione della Direttiva 2010/73/UE modificativa della Direttiva 2003/71/CE "Prospetti") ha abrogato la condizione per cui la delibera in oggetto doveva essere approvata da tanti soci che rappresentassero oltre la metà del capitale sociale, anche in seconda convocazione.
105. L’AIAF è l’Associazione Italiana degli Analisti e Consulenti Finanziari.
106. Si riportano i dati con 8 cifre dopo la virgola per ottenere numeri riscontrabili con quelli ufficiali del mercato di Borsa.
107. Questo prezzo è aggiustato rispetto alla quotazione storica per tenere conto del raggruppamento di azioni avvenuto in data 23 gennaio 2017.
108. Sulle caratteristiche delle azioni di risparmio Unicredit v. Mediobanca (2016, pp. 318-319)
109. Utilizziamo ancora valori con 8 decimali per ottenere con precisione il fattore di rettifica AIAF
110. Il Texas Ratio è un indicatore creato negli anni ottanta da Gerard Cassidy, analista azionario della RBC Capital Markets, durante la crisi delle Savings and loan associations. Tra le istituzioni con Texas ratio maggiore Cassidy aveva rilevato una più elevata frequenza dei casi di dissesto. V. https://www.bostonfed.org/-/media/Documents/RegionalEvent/PDF/2011/Bio/cassidy.pdf e Jesswein (2009). Sui modelli di previsione delle insolvenze applicati alle banche nei quali si fa uso di indicatori analoghi al Texas Ratio v. Cleary & Hebb (2016).
111. Nella prassi si utilizza anche il Texas Ratio lordo dato dal rapporto tra NPL lordi e somma di capitale tangibile e loan loss reserve. Ai NPL si è soliti aggiungere anche gli immobili acquisiti dalla banca per pignoramento e sottrarre le esposizioni coperte da garanzia pubblica.
112. Sul fondo Atlante v. esempio sulle popolari venete.
113. Diamond & Rajan (2011) assumono comportamenti strategici di questo tipo.
114. Nel caso della Banca popolare di Vicenza, il nuovo socio di controllo ha in più occasioni considerato la possibilità di riconoscere ai vecchi azionisti dei warrant che consentissero la sottoscrizione di azioni a prezzi in linea con quello della IPO. V. ad esempio questo articolo del febbraio 2017.
115. L’Assemblea Straordinaria della Banca Monte dei Paschi di Siena ha approvato in data 24 novembre 2016 la riduzione del capitale sociale e il raggruppamento delle azioni nella misura di 1 nuova azione ogni 100 azioni esistenti con decorrenza dal 28 novembre 2016 (v. nota esplicativa e comunicato stampa sull’esito).
116. Le sottoscrizioni si sono chiuse il 30 aprile 2016 per la Popolare di Vicenza e il 24 giugno dello stesso anno per Veneto Banca.
117. V. il documento depositato il 21 aprile 2016 dalla Banca popolare di Vicenza e quello depositato il 7 giugno 2016 da Veneto Banca.
118. V. Prospetto infromativo BPVi, p. 104
119. Così si prospetta nella Relazione sulla gestione allegata allo stesso Bilancio 2016.
120. V. https://www.unicreditgroup.eu/content/dam/unicreditgroup-eu/documents/en/investors/Capital-Markets-Day/2016/Transform-2019.pdf.
121. Utilizziamo prezzi rettificati in modo da renderli confrontabili con quelli post aumento, tenendo conto del raggruppamento di azioni in rapporto di 1 a 100 effettuato il 23 gennaio 2017 e della diluizione per rights issue misurata dal fattore di rettifica AIAF pari a 0,50112555 calcolato sulle quotazioni al 3 febbraio 2017 e applicato a partire dalla data immediatamente successiva di stacco del diritto (6 febbraio 2017). Per maggiori dettagli v. esempio paragrafo 5.4.
122. A voler essere più precisi, servirebbe specificare come vengono "sistemati" i non-core NPL. Se, come prospettato nel piano, sono cartolarizzati e ceduti a investitori specializzati ma con mantenimento di una quota delle tranche non senior da parte di Unicredit, l’effetto di riduzione degli \$RWA\$ sarebbe attenuato. Nell’esempio gli eventuali errori di stima degli impatti sugli \$RWA\$ nei diversi passaggi si compensano, avendo noi utilizzato i dati di \$RWA\$ ante e post piano così come indicati nella presentazione del CFO a p.16, che presumiamo corretti.
123. L’effetto su \$K\$ è stato desunto dalla variazione degli \$RWA\$ riportata nella presentazione del CFO a p. 16. Si veda anche la nota precedente.
124. La riduzione del coverage ratio obiettivo è motivata dall’eliminazione della componente più “stagionata” delle NPE, caratterizzata da tassi di recupero attesi più contenuti.
125. V. rapporto al Presidente Trump sulle riforme alla regolamentazione bancaria negli USA, U.S. Department of the Treasury (2017).