Padri e figli: le crisi bancarie e i conti in sospeso tra generazioni

Passata è la tempesta

Sembra passato un anno dal week-end del 25 giugno, quando la domenica pomeriggio si aspettava col fiato sospeso il Consiglio dei ministri che avrebbe approvato la messa in liquidazione coatta amministrativa delle banche venete.

Ora la situazione si è calmata, e ci si è fatti una ragione di quello che il Governo ha messo in atto con il decreto-legge 99/2017. Oscar Giannino e i compari dei Conti della belva sono stati i primi a cogliere il clima cambiato. Vi consiglio di ascoltare il podcast del 15 luglio, dal minuto 18:20 al 24:15. L’Italia ha strappato un compromesso: la Commissione Europea, la BCE e il Single Resolution Board [in ordine descrescente di entusiasmo] ci hanno consentito di fare in ritardo i bail-out con risorse pubbliche (soprattutto garanzie), come avevano fatto gli altri Stati europei prima della Banking Communication dell’agosto 2013. Non c’erano state alternative per loro dal 2008 al 2012, non ce n’erano per noi oggi.

Carnevale Maffé ha previsto (voci da Bruxelles) che pagheremo la concessione con più fusioni e/o chiusure di banche pericolanti. Speriamo che il quadro macroeconomico migliorato blocchi la trasformazione degli impegni di firma dello Stato in uscite di cassa. Ovviamente i partner europei torneranno a marcarci stretto sulla riduzione del debito pubblico, ma pare che abbiano rinunciato a usare la leva del bail-in per imporre, di fatto, una sorta di imposta patrimoniale a pezzi a carico dei risparmiatori imprudenti o sfortunati. È un bene che si sia sciolto questo equivoco, come auspicavo qui.

Ci sarebbero tante cose da dire sugli interventi che ci hanno lasciato fare. Non soltanto la liquidazione delle Venete, ma anche la ricapitalizzazione di Monte Paschi e le cessioni-non cessioni di NPL con garanzia GACS fatte alla Popolare di Bari e annunciate al Creval e Carige. Ci sarebbe anche da riflettere sul new deal dei regolatori europei: ci stanno regalando un’ora d’aria o cominciano a nutrire dubbi sulla Banking Union incompiuta? Tutti temi che conto di riprendere nei prossimi giorni con diversi post di approfondimento.

Prima dell’uragano

Ma adesso voglio tornare ai giorni che hanno preceduto il Decreto 99 per trattare alcune questioni, non tecniche, ma di feeling. Gli animi di molti si agitavano all’idea che il Governo andasse a stanziare una cifra imprecisata, tra 10 e 20 miliardi di euro, per raccogliere i cocci di due banche fallite. Al danno della spesa, enorme, si aggiungeva la beffa di imporla al contribuente per salvare dal bail-in 7 miliardi di obbligazioni e pochi miliardi di depositi non assicurati, come stimavo qui il 23 giugno. Optando per il costoso salvataggio, il Governo stava per commettere un doppio errore: aggirare le regole europee sul bail-in forzoso e creare un precedente pericoloso di bail-out destinato a fare scuola.

Le cifre in gioco davano scandalo, e lo scandalo faceva notizia. Il 24 giugno Gianluca Paolucci sulla Stampa ha sommato i costi delle crisi (compreso l’azzeramento di azioni e subordinati) dalle "quattro banche" fino alle venete: 31 miliardi. Mario Sechi su List lo aveva rilanciato:

La conclusione era questa:

Risuonava l’eco di un'obiezione profonda, viscerale, all’idea di metter mano al portafoglio di tutti per salvare i risparmi di un gruppo numeroso ma circoscritto di investitori poco furbi, o anche solo sfortunati. La sorte è un meccanismo distributivo vecchio come il mondo (lo descrive Dante nel girone degli avari), né giusto né sbagliato. Perché non lasciarlo andare per il suo verso? Poi uno pensa ai molti risparmiatori inconsapevoli, e allora il senso di solidarietà vince sul cinismo. Ma la compassione non basta a frenare la rabbia scatenata da un altro pensiero, che la pezza gigantesca del bail-out serva a coprire i colpevoli del dissesto.

Un’indignazione collettiva di questa portata, quando monta, fa paura. La politica ha gioco facile a strumentalizzarla, e ha già cominciato a farlo da settimane. E qui le posizioni si spaccano.

Le ragioni dei padri

Per il Governo la difesa del risparmio rimane al primo posto nella scala di priorità, come sostenuto anche dal Presidente dell’ABI: l’articolo 47 della Costituzione è sempre vigente e svolge un ruolo di limite nei confronti della normativa europea. In quelle settimane a Palazzo Chigi si sono fatti i salti mortali per salvare 7 miliardi di obbligazioni senior delle banche venete, con la promessa di ristorare anche i portatori "inconsapevoli" di titoli subordinati. In spregio al principio secondo il quale i salvataggi bancari non possono più essere a carico della collettività, ma di chi investe nella banca.

Su questo punto non c’è mai stata un’intesa chiara tra il nostro Paese e i partner europei. L’Italia ha accettato di entrare nell’Unione Bancaria accettandone i principi. Sui tempi e sui modi dell’applicazione di quei principi, ognuno si è fatto una versione diversa. Da un lato l’Europa ha pensato che le regole parlassero chiaro, per cui l’averle sottoscritte implicava anche accettarne l’applicazione tassativa. Nel caso dei bail-in era lampante che tutta la raccolta bancaria diversa dai depositi assicurati fosse a disposizione della copertura dei dissesti allo scoccare della mezzanotte del 31 dicembre 2015. All’approvazione della BRRD, molti in Italia non hanno capito subito le implicazioni di questo cambio di regime. La Banca d’Italia ha ricordato di aver sollevato l’obiezione prima che la BRRD fosse approvata, ricevendo un niet. Ma il Governo allora in carica, e i successivi, non hanno preso completamente sul serio l’avvertimento, fino al momento in cui le regole sulle crisi hanno ricevuto il battesimo del fuoco nel novembre 2015, un solo mese prima dello scoccare dell’ora fatidica, con la risoluzione delle quattro banche.

È vero, non si è fatto molto per arrivare preparati. Si sarebbe dovuto ristrutturare pesantemente il passivo delle banche, ricollocando le obbligazioni, dalle subordinate alle senior, presso investitori istituzionali. In alternativa si sarebbe dovuto puntare sui covered bond, esenti da bail-in. Facile a dirsi. Il 2013 lasciava alle spalle mesi travagliatissimi segnati dalla paura per l’abbraccio mortale tra rischi del debito italiano nelle sue due forme, pubblica e bancaria. La situazione era migliorata, ma per molte banche, modeste per dimensioni o per rating, l’accesso ai mercati all’ingrosso era precluso. Il funding a medio termine sul mercato era spiazzato per costo ed accessibilità dal rifinanziamento presso la BCE (LTRO poi evoluta in TLTRO).

Mettete insieme tutti questi elementi, oltre all’imprevidenza che ahimè ci caratterizza atavicamente, e capirete perché tra l’approvazione della BRRD e la sua applicazione non si sia cambiato molto nelle politiche di raccolta diretta, che hanno continuato a privilegiare l’offerta di obbligazioni proprie alla clientela, spesso convogliate anche verso le linee di risparmio gestito.

Alla fin della fiera meglio che le cose siano andate come sono andate. Non so come avrebbe reagito il cliente medio delle banche se si fosse liberata la bestia del bail-in. La bestia è rimasta in gabbia, e la struttura pasticciata del passivo è rimasta nei bilanci bancari. Altra questione su cui tornare, ma non adesso.

Le ragioni dei figli

Il partito della rigenerazione nazionale

All’esercito regolare attestato sulla linea del Piave a protezione del risparmiatore si contrapponevano le brigate dei difensori del contribuente. Tra queste il Movimento 5 stelle, che nell’arena politica ha sferrato gli attacchi più duri ai salvataggi bancari. Penso che lo abbia fatto non solo in chiave anti-sistema, ma anche perché il suo è un elettorato giovane. I salvataggi difendono i patrimoni delle persone più abbienti, e più in là negli anni, presso cui si concentra il possesso di titoli bancari (oltre che pubblici) e di strumenti di risparmio gestito. Il giovane-tipo di oggi, oltre a non avere una casa di proprietà, investe le sue finanze in depositi bancari. Non ha nessun interesse a che si faccia debito pubblico, un peso sul suo futuro, per salvare i risparmi del nonno o dello zio.

In effetti i parlamentari pentastellati hanno fatto plateale ostruzionismo alla conversione in legge del DL 99 con centinaia di emendamenti e accalorati interventi in aula. Esponenti degli altri partiti si sono invece adoperati per estendere il ristoro ai detentori di titoli subordinati. Come da copione.

Ma attenti alle conclusioni affrettate: il M5S è tutto fuorché un fan-club della risoluzione con bail-in. Anzi, è l’esatto contrario: i Cinque Stelle vogliono la nazionalizzazione delle banche, la sospensione del burden sharing e l’abolizione del bail-in. Gli esponenti di quel partito accusano i Governi e i Supervisori degli errori passati e dei favori presenti ai sistemi di potere nazionali e locali e al "capitale finanziario". Il #ProgrammaBanche messo in votazione sulla piattaforma Rousseau prospetta un ritorno alla regolazione strutturale (separazione) e la repressione più severa dei reati finanziari. Non c’è da meravigliarsi che un movimento che ha nel suo programma l’eventuale uscita dall’euro voglia prenda anche le distanze dalla supervisione bancaria europea. Sì difendere il contribuente, ma tagliando sui regali alle lobby bancarie, non colpendo i risparmiatori.

I giovani espatriati

Per trovare i più strenui difensori del bail-in dobbiamo cercare in un’altra comunità giovane, piccolissima rispetto all’elettorato M5S. Sono gli espatriati, le persone tra i venticinque e i quarant’anni (e oltre) che lavorano, oltre confine o sulla piazza di Milano, nelle banche globali, nei broker, nei fondi di investimento, nelle società di consulenza, negli studi legali, nelle think tank, nei media finanziari, nelle agenzie di rating. Prima del 25 giugno erano loro i difensori più agguerriti di un’ortodossa risoluzione secondo la BRRD, in questo sostenuti da un esiguo drappello di opinionisti italiani (le "belve" citate all’inizio e pochi altri). Quando poi le cose sono andate come sappiamo, sono rimasti sconcertati e sinceramente dispiaciuti. Quasi come i tifosi juventini dopo la finale di Cardiff.

Perché questo gruppo di operatori intelligenti, preparatissimi, dovendo scegliere tra Padoan e Dijsselbloem, non ha esitato? Possono esserci tante spiegazioni. Con molto rispetto ne propongo alcune.

Un’altra scuola di pensiero e d’azione

La spiegazione più naturale è l’ambiente in cui queste persone si sono formate, i maestri che hanno avuto, la mentalità che hanno assimilato. Il progetto di Unione Bancaria Europea è una piattaforma alla quale hanno contribuito politici, funzionari UE, supervisori, studiosi e stakeholder vari, e sulla quale si sono costruiti piani e strategie. Percorsi normativi, prassi di supervisione, collocamenti di nuove classi di titoli, consulenze, strategie di investimento, contratti da scrivere, rating da emettere, software da aggiornare. Chiaro che facessero il tifo per le magnifiche sorti progressive del progettone. Ci avevano scommesso sopra.

Dal canto loro le istituzioni italiane si sono inserite in questo stesso progetto come partner fedeli ma non troppo convinti. Gli stakeholder bancari di casa nostra erano forse (come si diceva) distratti da problemi più urgenti e non tutti ferratissimi sulla materia che prendeva forma in regolamenti e direttive. La Banca d’Italia dissentiva su alcuni punti, da una posizione isolata, ma non poteva che rimanere sul carro comune europeo.

Invece i nostri amici giovani sono decisamente, convintamente, filo-europei. La posizione italiana appare loro obsoleta, provinciale. Dire no al bail-in sarebbe l’espediente per continuare a nascondere errori di valutazione e di strategia e scelte dissennate. La risoluzione poteva essere un momento doloroso e traumatico, come una rivoluzione, tuttavia necessario per sostituire una classe dirigente inadeguata.

La patria matrigna e indolente

A cu ti duna pani, dicci "patri" (proverbio siciliano). Non voglio applicarlo letteralmente alla comunità ideale di cui stiamo parlando. Ma può esserci tra quelle persone un dispiacere per non aver trovato in banche, istituzioni, entità italiane spazio per il loro talento, né agli inizi della loro carriera, né (forse) adesso. Più della mancanza di meritocrazia e dei favori tra amici, soffrono la delusione per un’Italia che si ostina a rimanere indietro in un mondo che corre, e fa dell’immobilismo una scelta di valore.

Su questo punto, non posso che sentirmi in simpatia con loro. Ma se guardo indietro alla storia di questo Paese, capisco perché siamo bloccati. L’Italia è la patria del dualismo: Nord e Sud, capacità di esportare e rendite domestiche, laboriosità e indolenza, navigatori e navigati. Bellezza ineguagliabile deturpata nell’indifferenza. La nostra Nazione è così da quando è nata. Ha avuto fasi alterne, in alcune le faglie si sono chiuse e le cose sono andate meglio, in altre si sono riaperte e la terra ha tremato. Sarà sempre così.

Che fare?

Che fare in una situazione del genere? Primo, accettare che la linea di separazione tra il buono e il meno buono non è netta, si muove continuamente e attraversa tutto e tutti: territorio, istituzioni, partiti, settori, imprese, banche, singole persone. Con percentuali diverse di buono e di meno buono. Per questo siamo un Paese dove non funzionano le epurazioni e le punizioni esemplari. A volte si fanno, per placare la folla o perché cambiano gli equilibri di potere. Il più delle volte non si fanno. Gli ex amministratori delle banche dissestate si stanno prendendo la loro dose massiccia di sanzioni della Vigilanza e di azioni di responsabilità. Vedremo poi dove arriverà la commissione parlamentare d’inchiesta sulle banche. Difficilmente saranno risolutive, speriamo che non siano faziosamente strumentali.

Secondo, per migliorare le cose non c’è che la via indicata da Calvino nelle "Città invisibili": in una realtà che presenta tratti "infernali" …​

cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio.

Non è soltanto un richiamo etico fatto all’individuo, è l’invito a non scoraggiarsi, a costruire ("farlo durare"). Tra le banche c’è molto da ricostruire. Serve allora il lavoro rischioso, che "esige attenzione e apprendimento continui". Proprio il contrario di quello che si sarebbe tentati di fare: rassegnarsi.

Dai gironi infernali alla montagna del purgatorio. Uscire "a riveder le stelle". Un viaggio da fare insieme, padri e figli.

Sui titoli di coda

Restando in metafora, ma calando in picchiata sullo stile, mi viene in mente quella storiella della povera anima dannata che, da poco trapassata, si perde tra i gironi e arriva in quello tedesco. La incoraggiano a fermarsi: qui tutto perfettamente organizzato, lavoro, svago, tre pasti al giorno dopo ciascuno dei quali (eh bè, siamo all’inferno) dobbiamo darci trenta forchettate o cucchiaiate o coltellate nei …​ [fate voi]. Il poveretto viene da Napoli, ringrazia per l’invito ma pensa di dover andare nel girone italiano. Oh, no, il girone italiano, non ce ne parlare! Lì tutto pessimamente organizzato: un giorno sparisce forchetta, un giorno cucchiaio, un giorno coltello.

Scusate l’impertinenza, ma non vi pare che con il decreto 99 abbiamo fatto sparire il forchettone del bail-in? Col buonsenso, l’Italia si è smarcata da una soluzione autopunitiva che non avrebbe risolto nulla. Con questo non voglio dire che lo schema europeo di gestione delle crisi sia un meccanismo infernale. Diciamo che è migliorabile. Se ne sono resi conto i nostri partner, che ci hanno dato corda non soltanto per sfinimento, ma anche perché hanno pensato a che cosa potrebbe fare questo meccanismo alle loro banche, non alle tre o quattro banchette danesi, slovene o croate che hanno subito finora il bail-in come rito propiziatorio della successiva liquidazione.

Bene, buona settimana e buone vacanze se siete in partenza o già partiti.

Luca Erzegovesi
Luca Erzegovesi
Professore di Finanza aziendale

Mi interesso di finanza delle Pmi, crisi bancarie e nuovi modelli di business bancari.

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