Ritorno al futuro per evitare il bail-in
La settimana scorsa l’unità di crisi che segue i dossier delle banche venete e di MPS è stata sottoposta a una prova di stress di quelle severe. La cronaca ha faticato a star dietro alle ipotesi che man mano maturavano. Dall’esterno, non è stato facile raccapezzarsi. Arrivavano notizie davvero difficili da interpretare, come questa di Laura Serafini sul Sole 24 ore del 16 giugno, che riprendevo in un tweet:
2. Piano B: Mettere in risoluzione “SOFT” per usare il Fondo omonimo ma senza bail-in.
— Luca Erzegovesi (@lerzegov) 16 giugno 2017
MA COME SI FA???? https://t.co/YjQ2QmJ4tF pic.twitter.com/sZUwRM7aay
Naturalmente la brava cronista non si è inventata quello che ha riportato. La voce raccolta dà l’idea del clima febbrile all’interno dell’unità di crisi. Andiamo indietro di qualche giorno e proviamo a immaginare le discussioni a quel tavolo.
C’era un punto da smarcare: il contributo volontario da 1,25 miliardi dal sistema bancario che la Direzione concorrenza della Commissione Europea aveva chiesto come precondizione per il via libera all’apporto di capitale dello Stato. Come convincere le banche a mettere mano ancora una volta al portafoglio? Per quale via?
Una soluzione era già in casa: il Fondo Atlante, che aveva apportato 3,5 miliardi di euro per lo stesso scopo, quello di coprire perdite pregresse. I suoi quotisti non avevano però quell’intenzione, contavano di fare un investimento certamente rischioso, ma non privo di un potenziale di guadagno. Purtroppo non è andata così, tant’è che si chiedeva di mettere un altro miliardo abbondante. No, grazie, abbiamo già dato.
Seconda soluzione: la gestione volontaria del Fondo Interbancario per la Tutela dei Depositi che aveva aggirato il niet della DgComp sul contributo a Tercas, oltra a dare una mano alla sistemazione di varie piccole banche. Anche lì, altri questuanti erano già passati e il boccone era troppo grosso da deglutire.
Terza soluzione: richiamare i due maggiori gruppi bancari alle loro responsabilità, e coinvolgerli nella formazione di una nuova cordata di volenterosi nella quale avrebbero fatto la parte del leone (generoso). Era l’ipotesi più solida (rimane ancora aperta), ma già si capiva che avrebbe avuto vita difficile.
Se non si poteva fare appello alla solidarietà spontanea, occorreva usare l’autorità, non c’erano alternative. Quale strumento amministrativo si poteva attivare? Il Fondo di risoluzione nazionale, utilizzato per le quattro banche nel novembre 2015. Una chiamata sul Fondo è una proposta che una banca italiana, da Intesa San Paolo e Unicredit fino alla Raffeisenkasse della Val d’Ultimo, non può rifiutare.
C’era però un problema: per chiamare su quel Fondo, la banca da soccorrere deve essere posta in risoluzione. Ohibò, ma la risoluzione è l’evento infausto che si stava cercando di scongiurare. Sì, ma non siate rigidi: qui stiamo parlando di una cura omeopatica, similia similibus curantur. Si tratta di somministrare una dose di risoluzione ad altissima diluizione.
Ecco la dinamica della terapia:
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qulacuno chiede al Single Resolution Board di mettere mette le banche venete in risoluzione in quanto a rischio di dissesto;
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a questo punto si fanno i richiami al Fondo di risoluzione e arrivano 1,25 miliardi;
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sono soldi che arrivano dalle banche, come quelli dell’apporto volontario che non era arrivato prima; allora abbiamo risolto, torniamo alla DgComp per dirle che ci siamo, si proceda con la ricapitalizzazione statale;
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a questo punto la situzione likely to fail è definitivamente superata; cessato allarme, si torna a DEFCON 5.
Ma c’è un ma (più di uno). Il Fondo di risoluzione non si può richiamare se prima non si fa il bail-in per almeno l'8% delle passività e dei fondi propri della banca risolvenda, o per il 20% dei suoi RWA. Se la banca è a rischio di dissesto lo Stato non può ricapitalizzarla a titolo precauzionale.
Ma sono obiezioni che tengono in un universo galileiano, imprigionato nel continuum spazio temporale. Di questi tempi, avete voglia a risolvere qualsiasi problema restando chiusi in quella gabbia. Del resto, il famoso programma TARP degli Stati Uniti non ha anticipato la ripresa dei prezzi degli asset e la formazione del reddito e del capitale delle banche? E le bad bank che hanno salvato dal disastro le banche irlandesi non hanno forse rallentato il fluire del tempo nell’universo dei crediti deteriorati mentre il resto del sistema recuperava alla velocità della luce?
Coraggio, chiudiamo gli occhi e prepariamoci a saltare nell’iperspazio della finanza relativistica. Il mondo di Interstellar. Oh no, che depressione, un mal di testa terribile. D’accordo, veniamoci incontro. Ci fermiamo uno stadio precedente, nel mondo più simpatico di Ritorno al futuro.
Ed ecco la strategia della risoluzione omeopatica delle banche venete riformulata per viaggiare sulla Delorean di "Doc" Brown.
L'alternativa è questa: fare risoluzione, incassare gli apporti e tornare indietro 7gg col malloppo per evitarla https://t.co/X5RTlGglYH pic.twitter.com/bK3spsnnvl
— Luca Erzegovesi (@lerzegov) 17 giugno 2017
Ma ho paura che l’increspatura dello spazio-tempo si sia chiusa, ormai.
Siamo condannati a essere bullizzati da regolatori e supervisori europei, sottili ma non meno perfidi del rozzo Biff Tannen.