The night they drove old Rixie down
Ho nelle orecchie il brano epico di The Band sulla fine della guerra di secessione americana. Lo prendo a prestito per parlare non della débacle, ma della battuta d’arresto di Rixie, la risoluzione con bail-in delle crisi bancarie. Un’idea nata nel 2010 per evitare alle banche too big to fail nuovi abissi dopo il caso Lehman. Un’idea invecchiata precocemente, soprattutto nella versione tuttofare, per banche di ogni ordine e grado, che è passata nell’Unione Europea con la BRRD a ispirazione tedesca, tutta sbilanciata sul controllo della spesa statale.
Bene, con le deliberazioni prese ieri verso le 22:00 dalla Banca Centrale Europea e dal Single Resolution Board questo mito delle crisi che si risolvono col pilota automatico è stato demolito, o almeno ridimensionato. Le Autorità di vigilanza europee hanno dato il disco verde all’operazione di salvataggio della Banca popolare di Vicenza e di Veneto Banca messa a punto dal Ministero dell’economia nelle ultime due settimane. Il Gruppo Intesa ha risposto all’appello, con molte precauzioni. Insieme, Governo e banca sono riusciti a convincere Bruxelles e Francoforte che l’unica strada che poteva essere percorsa era mettere in sicurezza quello che rimane del business sano delle due popolari, sistemando parallelamente le altre partite col tempo che serve, senza la batteria di ultimatum del meccanismo di risoluzione.
BCE e SRB hanno quindi accettato che la parte sofferente delle banche venete venga messa in liquidazione coatta amministrativa, secondo il diritto bancario italiano. L’operazione ha un costo scoperto, e al momento un solo soggetto lo può coprire: noi, attraverso lo Stato italiano. Ieri diversi commentatori stimavano il conto in 12-15 miliardi. La botta è pesante. Non viene da una scommessa sfortunata al tavolo da gioco. È la colata a valle di cattivo credito accumulato su un portafoglio di un ordine di grandezza superiore a 50 miliardi di euro. All’inizio, come nel bacino della val di Stava, si pensava che gli argini potessero reggere la massa che si riversava. All’inizio in buona fede, per tamponare la perdita di ricavi e di cassa delle imprese colpite dalla recessione seguita alla crisi finanziaria globale. Alcune banche "di territorio" hanno però trasformato questa risposta difensiva, tattica, delle moratorie in un modello di business che per diversi anni ha prodotto crescita di volumi e di quote di mercato, margini, consenso della politica e delle classi dirigenti locali.
Un modello inizialmente accettato, o tollerato, anche dalla Banca d’Italia, che ha scommesso con queste banche sull’uscita dalla crisi nel 2010. Già allora non mancavano le situazioni traballanti, ma forse ci si è illusi che i soggetti più assertivi, come la Banca popolare di Vicenza, guidata da Gianni Zonin col suo piglio un po' borioso da imprenditore agricolo, avessero la solidità per farcela, anzi, per diventare polo di attrazione di altre realtà fragili.
La seconda recessione seguita alla crisi del debito sovrano di fine 2011 è calata come una frana di fango e detriti su questa intenzione ingenua. Le banche di territorio si sono fatte sorprendere sulle posizioni lasciate sguarnite dai grandi gruppi in ritirata. Strette nel dilemma tra il ritirarsi anche loro o continuare a presidiare il fronte, hanno scelto la strategia al momento più coraggiosa, ma anche più facile. Perché basta un tenentino per guidare un’avanzata che non incontra resistenze, ma ci vuole un grande generale per portare in salvo un esercito in ripiegamento. Questo dev’essere ben addestrato, disciplinato, coeso, come una brigata alpina (unici reparti che sono tornati a casa nel 1943 dalla Russia senza sbandare, combattendo). Non erano così le banche catturate da cordate di interessi locali, collegate in reti allargate, che spingevano il credito (non solo agli amici) per fare numeri, senza apprezzare i rischi, o per tamponare i buchi già aperti, senza stare vicini alle imprese per capirne la sorte.
Come è andata a finire lo sappiamo. Crescita delle sofferenze, stretta regolamentare della Banking Union, premura di capitalizzarsi. A questi nuovi shock, le banche venete (quella di Vicenza più dell’altra) hanno risposto con gesti disperati, con l’apice toccato nell’abuso delle "azioni finanziate" (o baciate) per creare capitale fasullo e credito deteriorato in una sola mossa. Tenendo occultata parte della massa di sofferenze che nel frattempo continuava ad accumularsi.
Siamo arrivati alla liquidazione con un percorso sofferto. La decantata vera disciplina che sarebbe stata imposta dalla Vigilanza europea è un altro mito che sta perdendo pezzi. L'Asset Quality Review del 2014 ha preso atto di una situazione più critica di quella dichiarata, ma non ha denuciato le patologie e i cattivi comportamenti che si nascondevano dietro quei numeri. Di fatto, la diagnosi e la terapia della BCE hanno dato fiato all'extend and pretend in una versione più sofisticata, con il contorno di vigilanti, advisor, gestori delle investor relations. Si è andati come se niente fosse alla trasformazione in SpA delle due banche cooperative, e alla successiva IPO per la quotazione in Borsa.
È qui che ci si è resi conto che la bella prospettiva del colonnato sullo sfondo era un trompe l’oeil come quello del Teatro Olimpico (di Vicenza, non è un caso). Quelle banche non erano "investibili". A quel punto, fallito il protocollo di cura del consensus europeo, il dossier è tornato sui tavoli delle istituzioni italiane. Che lo hanno affrontato in emergenza, alla vecchia maniera, chiamando a raccolta prima i due maggiori gruppi, che si sono accollati la garanzia di sottoscrizione delle IPO. Resisi conto della débacle incombente, si è fatto appello a un manipolo allargato a Fondazioni bancarie, Poste, CDP, Assicuratori.
È nato così il Fondo Atlante in versione private equity di sistema (non era quella la sua vocazione originaria, centrata sulla gestione degli NPL). La SGR che lo ha in gestione ha elaborato un piano industriale logicamente coerente, ha ingaggiato un bravo banchiere (Fabrizio Viola) che ha risanato la governance e i rapporti con i soci raggirati. Molto di più non si poteva fare. Il modello strategico di banca di territorio autonoma, costruita sui due pilastri pericolanti di Vicenza e Montebelluna, non stava in piedi. Si è cercato di salvarlo con i capitali "precauzionali" dello Stato, ma il tempo era scaduto. Nessuno dei paletti fissati dalla BRRD e dalle regole sugli aiuti di Stato per attingere a quel supplemento di vita era superabile. A questo punto Atlante si è rivelato per quello che era: una versione più sofisticata e costosa dello schema volontario di aiuto alle banche in crisi ospitato dal Fondo Interbancario per la Tutela dei Depositi. Peccato, perché ha impegnato alcune delle intelligenze migliori che ci sono sulla piazza. In questa campagna, ha perso tutto. Merita l’onore della armi.
E siamo arrivati (risparmio le ultime vicende, ancora fresche nella memoria) al piano di salvataggio nelle braccia di Intesa con liquidazione degli asset residui, in gran parte "cattivi". Piano che ieri ha ricevuto il placet d’oltralpe, sarà finalizzato nel suo kick off oggi e domani, e comincerà ad essere eseguito da lunedì.
Ieri ho passato la giornata, fino alle 21:15, a scrivere questo post. Non si sapeva ancora come sarebbe finita. Avevo una grande paura che l’unica palla ancora giocabile finisse sugli spalti, con lo spettro di una risoluzione distruttiva. Molti pensavano che l’Europa avrebbe respinto con sdegno, o degnazione, l’ennesima espressione dell’arte di arrangiarsi italica. Ho cercato di dimostrare, con parole e cifre, che il bail in era un rimedio peggiore del male.
Un’ora dopo, il comunicato della BCE e, a seguire, quello dell’SRB. Il mio tentativo artigianale del pomeriggio portava alla stessa conclusione appoggiata dai Supervisori, con ben altra autorevolezza e supporto di analisi patrimoniali e giuridiche. Mi ha fatto piacere (vanitas vanitatum), ma non è di quello che sono soddisfatto. Delle cose che ho scritto in questo sito negli ultimi giorni (le trovate nel blog) resta valida la tensione a entrare in dialogo, a capire, a mettere in discussione le versioni ufficiali. Se ho dato un piccolo contributo a spiegare e a rendere accettabile, con buone ragioni, la soluzione che poi è passata, allora non ho sprecato il mio tempo, e quello dei miei lettori.
Non esulto, adesso. Si potrebbero leggere i pronunciamenti da Francoforte come una resa alle ragioni dell’Italia. In parte è così. Dopo la campagna mistificatoria che ha celebrato il salvataggio del Banco Popular da parte di Santander, il nostro paese ha subito un bombardamento mediatico. "Risoluzione, bail-in, subito! E risolviamo tutto.". Affermazioni senza senso, destituite di ogni fondamento empirico, propalate con arroganza e ripetitività per giorni. Con fatica, si è tracciata e difesa una strada alternativa, meno distruttiva. Ed è un bene, un successo, se volete.
Ma guai a gloriarsi di questo. Siamo arrivati alla situazione devastata delle venete con un percorso degli errori e degli orrori, dove si sono mescolate l’ideologia della BRRD e la nostalgia delle vecchie buone ricette "solidaristiche" del Sistema Italia, che in passato buone lo erano veramente (in termini di efficacia, non di trasparenza e di incentivi), ma non lo sono più da quando l’attività bancaria è un cantiere in ristrutturazione, con margini all’osso e zavorre pregresse da smaltire. L’errore nostro (non prendo le distanze dalle Autorità italiane) è stato quello di subire il nuovo pensando di poter continuare a fare come un tempo, sotto traccia. Come studioso, vedo un limite fatale in questo approccio: il vuoto di proposta culturale. Abbiamo subito una raffica di ragioni (astratte) mitragliate da regolatori e supervisori europei e dalle filiere che prosperano nei cantieri permanenti di adeguamento alle normative e di rabbocco del serbatoio del capitale (consulenti, studi legali, fondi chiusi, banche d’investimento). Non abbiamo risposto al fuoco con idee e progetti all’altezza dei tempi e delle sfide. Abbiamo schierato la nazionale del 1970 (quella di Italia - Germania 4-3) contro la formazione tedesca che ha battuto il Brasile na casa dele 7 a 1, con l’algida tracotanza di quel popolo per altro ammirevole. Per un po' il catenaccio ha retto le folate offensive, ma alla fine abbiamo rischiato di perdere ai rigori come ai quarti dell’Europeo 2016, per due guasconate molto mediterranee, come la proposta di mandare le banche in risoluzione per evitare la risoluzione. Per fortuna sono scesi in campo i giocatori di maggior esperienza, e siamo passati al turno successivo.
Ma non abbiamo ancora vinto l’Europeo. C’è da recuperare l’arretrato di compiti a casa accumulato negli ultimi cinque anni. Questo piano di salvataggio, che è nato sulla carta, ma che da lunedì muoverà i suoi passi nel mondo reale, è l’occasione per cominciare a farlo. Risanare i bilanci, recuperare i crediti cattivi in modo efficace e giusto, riorganizzare con nuove tecnologie e competenze, trovare modi sostenibili per stare a fianco delle imprese, e tanto altro. Sono queste le sfide che abbiamo davanti. Non soltanto i soggetti che mettono la loro firma sugli impegni vertiginosi che si assumeranno lungo il percorso di uscita dalla crisi delle popolari venete. Tutti noi.